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UNA STORIA LONTANA

 

su Vincere (2009, di Marco Bellocchio)

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

Un corpo in due uomini, il binomio demoniaco, dall'odore dello zolfo di Filippo Timi/Benito Mussolini, uno sdoppiamento pericoloso, affascinante, un inizio e la fine nei panni, tripli, del figlio, frutto del seme della discordia, del lontano ricordo di una situazione an-negata, soppressa, impersonata in una in-verosimile imitazione più vera del vero; un contrappunto fisico, dolente, al corpo nevrotico, ligneo, di Giovanna Mezzogiorno/Ida Dalser, imbelle fascio di nervi che adempie ciecamente alla sua missione: oggettivare, quasi con la forza e la prepotenza, un legame mai ufficializzato, perso nelle nebbie della storia del secolo recentemente archiviato, negli anfratti bui dei sommovimenti anarchico-politici di inizio ’900.

La faccia cadaverica, violacea di Timi scompare ad un certo punto, s’inabissa a metà della pellicola, affonda per non impazzire, accetta e cela astutamente il compromesso come un consumato/criptico stratega di se stesso. Cosa che la Dalser, tutta istinto, fatica ad accettare, e ne paga violentemente le conseguenze del confino nella terra d'origine, dove tutto ha avuto inizio prima del fatale incontro nella buia città meneghina.

Marco Bellocchio inscena una storia privata con gli orpelli tutti politici della Storia ufficiale, e chi forse meglio di lui poteva osare tanto senza venire accusato di agiografismo?

L'operazione è ardua, invero anche molto sclerotizzata, volutamente sovraccarica ed anfetaminica; sembra a tratti un dramma da camera privata visto attraverso il buco della serratura ingombrante della Storia, ancora, quella travagliata di inizio secolo, che lacera la dimensione intima e ci restituisce un ritratto vitreo lucidamente distorto, come uno specchio deformato dal calore opprimente che ne cambia lo stato, da solido a liquida materia informe che fatica a rimanere tutt'uno con il corpo. Il film è basato sul libro di Marco Zeni, giornalista trentino che prova a riunire i cocci di un lontano, nero, passato, e di una vicenda volutamente offuscata e torbida, materia perfetta per una trasposizione in immagini.

Bellocchio vive questa presunzione in immagini quasi come una questione personale, ed una missione impossibile; ne deride giustamente i volti, li parodizza e li deforma, li rende strazianti volti di dolore, ne stigmatizza quasi i comportamenti, prova a far uscire dall'ombra una vicenda traumatica, si incunea sicuro in un bagliore nella quale è arduo addentrarsi, tanto è lo spaesamento e lo spavento, la crisi provocata dall'essere umano che attanaglia ebete lo spettatore posto di fronte a questa sorta di horror metafisico senza zombie, eppure grondante sudore freddo, lacrime, sangue, acrimonia e senso ottuso di sperdimento. La cecità della storia, elemento o valore aggiunto da non sottovalutare, insieme alla splendida, ma ossequiosa e funzionale fotografia di Danlele Ciprì, aggiunge una solida impalcatura immaginifica alla pellicola. Addirittura, ad un certo punto, nel monologo finale di Filippo Timi/Benito Albino sembra di intravedere uno di quegli sfigurati personaggi deliranti, schiumanti rabbia ed orrorifica postura, messi in scena efficacemente nelle opere del duo palermitano. In tandem con le scene della Mezzogiorno girate nel manicomio di San Clemente a Venezia, dove fa capolino una sincera ma sinceramente troppo fictionaria, compassionevole mutazione delle figure femminili rinchiuse per i più disparati motivi; senza dubbio, in primis, quello di venire viste come delle disadattate, come delle irriducibili metafore in carne ed ossa della lotta contro la dittatura cieca e distruttiva, con le suore a fare da cani da guardia e da muro ai piaceri ed ai bisogni occultori del regime.

La musica è poi, per un melomane di comprovata serietà come Bellocchio, una valida compagna e colonna sonora portante di un respiro tragico da opera quasi dell'assurdo, col suo incedere nevrotico e sussultorio, come un terremoto di eventi che diventano emozioni forti e terminali.

Si ha a volte la sensazione che Marco Bellocchio si sia fatto da parte, che nasconda volutamente la sua migliore mano realistica. Ci chiediamo infatti dove sia finito il regista de I pugni in tasca (1965), ma non è necessariamente un male, anzi, ci auguriamo con sincera convinzione che il film-maker piacentino si faccia sempre più provocatoriamente in disparte, e metta in pratica con questa spiazzante, lungimirante e decadente s-personalizzazione, una vitale e radicale visione d'insieme che ci auguriamo possa essere foriera di nuovi, illuminanti progetti. Questo film dunque come una sola potenziale luce e miccia per altre cose che verranno, ci auguriamo.

In fondo ci piace pensare che questo lavoro possa essere visto come una prova di forza per il cinema italiano moderno, che possa essere usato come un seme gettato a futura memoria nel campo minato di un cinema che ha bisogno di storie forti, vitali, ma anche di attori con un carisma tutto peculiare come può essere quello di un talento come Filippo Timi – non dimentichiamoci a tal proposito il suo lavoro sommerso con un grande dissidente della visione come Tonino de Bernardi –, e che possa essere preso a modello da tanti registi che invece fanno dei loro lavori soltanto una sciatta prova da fiction che spesso appiattisce l'immaginario snaturando di fatto tutta l'opera svolta negli anni da colleghi più attenti e coraggiosi. Come Marco Bellocchio, che continuiamo a non amare alla follia, anzi, ma che rispettiamo come pochi altri, nella consapevolezza di avere a che fare con una persona che ha svolto un ruolo comunque importante nel cinema italiano degli ultimi quarant'anni, e nel bene o nel male non è mica poco...

 

 

 

 
 

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