LE MENZOGNE NECESSARIE
intervista a RADU MIHAILEANU
ai margini del film e del libro VAI E VIVRAI
a cura di VITO CONTENTO
Nel 1984 centinaia di migliaia di
africani di ventisei paesi diversi, costretti dalla carestia, abbandonarono il
loro paese per ritrovarsi tutti insieme in alcuni campi profughi del Sudan.
Grazie all’iniziativa dello stato
d’Israele e degli Stati Uniti, una vasta azione, denominata «Operazione Mosè»,
venne organizzata per portare in Israele migliaia di ebrei Etiopi, la stirpe
dei Falasha. A partire da questo evento storico, proseguendo lungo il corso
degli ultimi vent’anni della storia d’Israele, in Vai e vivrai il regista rumeno Radu Mihaileanu
racconta di una madre cristiana che spinge suo figlio a dichiararsi ebreo per
mescolarsi con i profughi dell’«Operazione Mosè» e salvarsi dalla carestia e da
una probabile morte. In realtà nessuno dei due è un discendente del popolo
d’Israele. Il bambino arriva sano e salvo in Terra Santa. Dichiarato orfano, è
adottato da una famiglia francese sefardita che vive a Tel Aviv, di idee laiche
e progressiste. Cresce con la paura che qualcuno scopra il suo segreto e le sue
menzogne: né ebreo, né orfano, solo etiope. Conoscerà l’amore, il giudaismo e
la cultura occidentale, ma anche il razzismo e la guerra nei territori
occupati, nei quali osserva le gravi violenze subite dal popolo palestinese e
le ingerenze dei nuovi coloni. Diventerà ebreo, israeliano, francese, tunisino,
una vera torre di Babele. Non dimenticherà mai, però, la vera madre rimasta in
Sudan e che segretamente e ostinatamente sogna di potere un giorno ritrovare.
Dopo Train de vie (1998), Mihaileanu ci racconta con Vai e
vivrai la storia
di un vissuto che, per quanto inventato ed estremo, risulta straordinariamente
verosimile e per nulla romanzesco. Un vissuto che rispetto alla “normalità”
occidentale può apparire alquanto sgangherato, ma pieno di luci e speranze che
la vita sembra poter offrire a pochissimi fra gli sfortunati. Tutto attorno,
nel film di Mihaileanu, c’è l’ecatombe di un’Africa in ginocchio e di un Medio
Oriente lacerato dalle guerre nelle quali la responsabilità occidentale è
evidente e quasi primaria. Grazie all’organizzazione da parte della Fice
(Federazione Italiana Cinema D’essai) di un incontro a Bologna con l’autore,
nel marzo 2008, abbiamo potuto realizzare un’intervista per parlare di questo
film che ha il coraggio di addentrarsi in uno dei pasticci più inquietanti
della storia recente. Insieme al film, esce per Feltrinelli l’omonimo libro del
regista, che raccoglie tutti gli appunti di ricerca per la realizzazione della
sceneggiatura e del film, in una singolare forma che unisce la narrativa a
descrizioni di natura saggistica.
Train de vie e Vai e vivrai sono film che
ruotano attorno al tema dell’impostura e della menzogna.
Da dove proviene questo
elemento della sua poetica?
La menzogna e l’impostura mi
riguardano personalmente. Fu una scelta che fece anche mio padre. Il mondo
occidentale impone regole giuridiche e morali a volte molto rigide, a cui ci si
può attenere quando c’è denaro, quando c’è confort: noi rumeni adesso non
abbiamo i castelli di regole che avevamo una volta. Mio padre durante la guerra
fu recluso in un campo di concentramento nazista perché era ebreo e comunista.
Con l’aiuto dei comunisti riuscì a fuggire e gli stessi gli fornirono documenti
falsi e una nuova identità. Mihaileanu, appunto, è un cognome falso che io
porto tuttora. Questa impostura è evidentemente servita a fin di bene, per
salvare una persona. Non dobbiamo dimenticarci che ci sono persone al mondo che
non hanno altra scelta, per le quali una menzogna o un’impostura possono essere
l’unica strada per salvare la loro vita.
Il mondo occidentale impone le se
sue regole rigide, la sua legalità. Noi occidentali cerchiamo di imporre la nostra
cultura ritenendola superiore alle altre e cerchiamo di imporla agli altri.
Come possiamo credere, noi occidentali, di imporre il nostro stile di vita, il
nostro modo pensare e di vivere agli altri, quando questi altri non hanno né i
mezzi, né le ricchezze, né i vantaggi derivati dal modello occidentale. Di
certo non voglio parlare della menzogna come stile di vita, ma voglio porre
l’attenzione sul fatto che sono molte le situazioni disperate nelle quali la
menzogna è l’unica salvezza.
Nella storia dei Falasha
s’intreccia una dimensione religiosa, una politica e una mitologica. Devo farle
i complimenti perché il suo film riesce ad esprimerle tutte e tre.
Il film cerca infatti di tradurre
questa triplice dimensione. C’è un richiamo molto forte alla mitologia che
circonda le origini dei Falasha, poiché si racconta ancora oggi che siano nati
dall’unione tra il re Salomone e la regina di Saba. Ma la leggenda che hanno
tramandato è di carattere biblico: d’altra parte essi sono più ebrei di quanto
siano tutti gli ebrei del mondo in quanto sono gli unici che obbediscono alla
Torah originale. Quando li ho visti la prima volta mi hanno evocato Mosè e ho
pensato davvero ad un altro mondo… Dal canto loro hanno sempre creduto che un
giorno sarebbero giunti a Gerusalemme, poiché è scritto nella Torah che
sarebbero tornati in Terra Santa sul dorso di una grande aquila. Tant’è che
quando sono saliti a bordo dell’aereo non hanno avuto nessuna paura pensando
che fosse quel gigantesco animale.
La famiglia israeliana che
adotta il piccolo Schlomo è di origini francese. Come mai questa scelta?
La scelta di una famiglia ebrea
francese è un’idea che nasce sempre dal mio fare l’occhiolino alla mia stessa
identità molteplice. Io oggi sono francese, parlo in francese, scrivo in
francese, vivo in Francia. Non dimentico comunque le mie origini rumene, così
ho voluto creare questo personaggio del poliziotto rumeno, onesto, che
evidentemente ha conosciuto sulla sua pelle le difficoltà dell’immigrazione e
le difficoltà d’integrazione. Nel momento in cui Schlomo deve confessare il suo
non essere ebreo, ho voluto creare un personaggio che contenesse un po’ di
humour, e alcune caratteristiche della personalità rumena mi sembrano perfette.
Anche il personaggio della
mucca Mandalà allora è un richiamo autobiografico!
(Ridendo) Certo, nella mia vita precedente
ero una vacca santa indiana!
Ho letto che gli ebrei spagnoli
che subirono l’inquisizione a partire dal XIV° secolo d. C. e che furono
costretti a convertirsi al cattolicesimo, quando riabbracciarono l’ebraismo,
furono riaccolti e riaccettati con ammirazione. È interessante perché è un
atteggiamento che mette in crisi i principi della via del martirio, pur di non
tradire la propria religione. Lei cosa ne pensa?
È vero che durante l’inquisizione
alcuni ebrei spagnoli e portoghesi furono convertiti con la forza al
cristianesimo. Alcuni hanno lasciato la Spagna immigrando in Francia e Germania
dove hanno creato i villaggi di cui si parla in Train de vie, altri sono rimasti Spagna, altri
sono morti.
Alcuni convertititi, se
all’esterno si dichiaravano cristiani, clandestinamente, nelle cantine,
continuavano a professare la religione ebraica, e le varie feste ebraiche. È
vero che le comunità ebraiche riaccettarono chi era stato costretto a
ufficializzare una conversione. Lo stesso è avvenuto anche in Etiopa dove
alcuni sono stati convertiti con la forza al cristianesimo.
In Vai e vivrai sono messe in
particolare rilievo le figure di donna e di madri. Può parlarmi di questi
personaggi?
Il film oltre parlare d’identità,
di diversità, di razzismo, vuole parlare di accoglienza, di come accogliere chi
è diverso da noi. Nel film ci sono quattro madri che cercano di salvare un
bambino. Ci sono quattro madri che fanno sacrifici personali a prescindere da
quale sia il colore della pelle, della religione del bambino. E questo saper
amare delle donne lo trovo molto vero. Io credo che la società abbia davvero
bisogno di essere guidata dalle donne e dalle madri. Se andiamo a vedere dove
ci sono delle dittature, dove ci sono delle guerre, le donne hanno poco potere.
Anche nella nostra società occidentale ritengo che le donne siano poco
integrate, siano tenute lontane dalla politica. Se il mondo fosse in mano alle
donne sono certo che verrebbero fatte scelte molto più rispettose e consapevoli
della dignità umana.
La famiglia che adotta Schlomo
è una famiglia laica. Con questa famiglia ha voluto porre all'attenzione la
necessità di un maggiore laicismo?
Non ho nessun verdetto su questo
tema. La famiglia che adotta Schlomo è vero che è laica, di sinistra, ma è vero
che è anche pronta a dire la preghiera a cena con Schlomo. Il padre, credendo
che Schlomo sia ebreo, lo accompagna a una scuola di Torah. Non impongono la
loro laicità al figlio, ma praticano la tolleranza, l’idea che religioni
differenti, modi pensare differenti possano tranquillamente convivere.
Per quanto mi riguarda io non sono
praticante. La religione mi ha sempre interessato da un punto di vista
filosofico. Mi piace la religione quando rimane a livello di filosofia, e cerca
di rispondere alle grandi domande sulla vita e che comunque si ritiene aperta
ad altri modelli di interpretazione.
Mi oppongo assolutamente quando la
religione diventa strumento politico e di potere, finalizzata a manipolare la
libertà delle persone del loro pensiero.
Mi può parlare della scena in
cui Schlomo partecipa a un contraddittorio sulla Torah, sul tema del colore
della pelle di Dio?
Il testo semitico non presenta le
vocali. Chiunque legga il testo è libero di interpretare lo scritto con la
propria intelligenza e la propria anima attraverso i respiri che sono le
vocali. Quindi diventiamo come Dio. Diamo una nostra interpretazione e una
nostra creazione. Mentre Schlomo porta una sua interpretazione il suo avversario
invece ripete a pappagallo un’interpretazione che ha imparato a memoria. Questo
povero ragazzo è quindi portato a ridursi al nulla, giacché non esiste, come un
altoparlante che ripete ciò che avevano elaborato alcuni dogmatici prima di
lui.
Il fondamento della scuola del
Torah richiede che la discussione sia su idee differenti. Quando due studenti
arrivano alle stesse conclusioni vengono separati per raggiungere nuovamente
diverse conclusioni. Questo non perché si vuole che arrivino a un conflitto, ma
perché si pensa che laddove ci sia una divergenza di idee ci sia vita. Questo è
alla base di diverse filosofie, non solo della religione ebraica. Ad esempio il
Mar Morto che troviamo sulle coste di Israele è stato chiamato così perché c’è
il novanta per cento di salinità, per cui nessun pesce ci può vivere. Per gli
Ebrei anche perché non è alimentato da nessun fiume, perché non ci sono cose
nuove che vengono apportate, non c’è movimento. Quindi è un mare che rimane su
se stesso come le persone che rimangono sulle posizioni che hanno già
acquisito. Lo stesso vale per lo humour ebreo, che è un rompere con idee già
recepite, non è altro che una frase con un altro respiro.
Credo che questo film possa
interessare molto un pubblico di giovani, adolescenti e persino bambini. Hai
già avuto risposte positive da questo pubblico? Aveva pensato a loro già in
fase di realizzazione?
Non ho mai pensato di realizzare
un film per ragazzi. Anche perché, fino a quando non ho completato il lavoro,
non so mai cosa veramente ne verrà fuori. In Francia abbiamo realizzato molte
proiezioni con le scuole, coinvolgendo gli alunni, i professori e i genitori. È
un film che ha interessato molto quelle scuole dove ci sono classi con ragazzi
di colore e di religione diversa e dove si sono verificati problemi di
convivenza. È servito molto come spunto di dialogo e soprattutto ha dato la
possibilità hai ragazzi di diversa provenienza di parlare ed esprimere il loro
eventuale disagio. Abbiamo lavorato molto con i gruppi e le associazioni che
aiutano le famiglie d’adozione per aiutare i loro bambini nei processi di
integrazione. Diciamo che il film ha avuto soprattutto il pregio di poter
diventare un’occasione di confronto e di dialogo sul problema.
Sono stato piacevolmente sorpreso
di aver saputo che molte madri che hanno visto il film hanno voluto tornarci
con i loro figli. Lo stesso è successo con il libro: mi sono reso conto che la
metà delle copie che stavo autografando erano un regalo da parte di madri per i
loro figli. Evidentemente le madri hanno inteso il mio film e il libro come un
buon strumento per spiegare ai propri figli il problema del razzismo.
Oltre la storia di Schlomo in
questo film riesce a raccontarci vent’anni di storia israeliana…
Yael Abecassis mi ha detto una
cosa che mi è sembrata una grande verità: lo sguardo verso un’interiorità pieno
di freschezza, perfino di ingenuità, che possiede questo bambino, né ebreo, né
israeliano, né palestinese, e anche tutte queste cose insieme, è in realtà
anche il mio…
Schlomo, che viene dalla morte, si
fa delle domande che mi pongo anch’io. Egli crede che questi due popoli che si
affrontano, israeliani e palestinesi, siano entrambi, come lui, delle vittime
che subiscono un conflitto che non controllano più. Anche se non è in grado di
formulare un giudizio politico, lo può fare a livello umano. Nel mio primo
film, Trahir (1993), avevo affrontato venti anni di storia su un piano politico, e qui mi
sarebbe sembrata una ripetizione. In Vai e vivrai mi permetto semplicemente di pormi
delle domande sulle conseguenze umane.
Nel film denuncia una sorta di
apartheid all’interno della stessa società israeliana nei confronti dei neri
appena immigrati…
Sì. Tra gli israeliani ci sono
naturalmente comportamenti diversi, si trovano persone che accolgono gli etiopi
a braccia aperte (come la famiglia adottiva di Schlomo, il commissario di
polizia, Sara) ma anche persone che li respingono. Io non ho voluto nascondere
la molteplice realtà d'Israele che, contrariamente a quanto si pensa spesso, è
un paese come tanti altri. Dunque non è l’intero stato che accuso di razzismo,
ma alcuni suoi abitanti. Spesso si richiede ad Israele di essere eccezionale,
una Terra Santa, dimenticando il fatto che è popolato di essere umani con
qualità e difetti proprio come il resto del mondo.