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NELLE PANCE CRESCONO CATTEDRALI

 

su Tideland (2005, di Terry Gilliam)

 

di MARGHERITA PALAZZO

 

 

«Sto morendo sul serio stavolta. Questa non è una vacanza»

 

 

Non è tanto l’Alice delle avventure e dello specchio, e l'altra dimensione non è il sogno ma la morte, da cui chiamano bambole senza corpo e tutte testa, tutte pensiero e linguaggio, ormai soddisfatte: la morte in cui si rigenerano grandi madri incapaci di amore indossando sopra le gambe ingrossate una testa di plastica, la necrosi regale in cui finalmente il reduce Noah può riposare, al riparo dal passato.

La bambina non si perde in un mondo fantastico, è il mondo che si riassorbe in lei, attraverso il medium del grande corpo finito e amato del papà, che viene imboccato dolcemente quando è gonfio di morte e coperto di mosche. Jeliza-Rose legge le favole al padre comatoso che galleggia nell’eroina come nell’oceano dove nascono i sogni, ma questo non è un facile rovesciamento della condizione di figlia e genitore; il mondo non è “capovolto” perché si sottrae ai ruoli – non ci sarebbe nulla di cui stupirsi – ma perché si dilata e si espande come un universo specifico che già si comincia a formare nel grembo del mondo che crediamo di conoscere: è la prima fase in embrione di un gioco con un feticcio d’amore: il feticcio immobile, la cui immobilità sembra un potere magico e non indifferenza o morte, un corpo grande e protettivo da amare per il calore che emana suo malgrado, anche se non risponde, in cui fare la cuccia come un’invocazione magica che troverà comunque una risposta.

Tideland è una rara disfunzione, non ancora studiata dai manuali: anziché crescere, e rimpicciolire, il corpo di Jeliza-Rose regredisce. La sua regressione, in più, è consapevole: il suo non è un percorso di formazione, perché è già formata — così tanto ricettiva all’uragano di suoni che provengono dal mondo che può ascoltarli direttamente appoggiando un orecchio innamorato e per sempre orfano sul ventre teso e grottesco del padre imbalsamato: nella gabbia toracica dorata come uno scrigno per uccellini sorgono miracoli atroci e le testine delle bambole, come le testine mummificate del Borneo, cinguettano Alleluia: «è previsto un recupero totale», come promettono i medici a teatro, e un cervello quasi da mangiare, come una caramella o una noce di Natale, viene donato da un dio febbricitante, cresciuto come ergot sul grano.

Jeliza-Rose è più l’Alice di White Rabbit dei Jefferson Airplane  — una figlia della controcultura azzoppata di cui Noah, il padre, era figlio a sua volta – che non l’Alice di Carroll; Noah, daddy, è proiettato nel futuro fin sempre, come se dovesse vivere in eterno o fosse già morto al principio del film, sul palco di un concerto già obsoleto: Noah /Jeff Bridges, che si muove soltanto per pochi minuti rispetto all’intera durata del film, azzerato dal sonno dell’oppio e dalla disillusione, parla sempre e solo come un poeta: la sua regina Gunhilda non vive con lui e ogni suo racconto, che probabilmente ce lo fa amare, e lo fa amare a Terry Gilliam che guarda con gli occhi di sua figlia, finisce tragicamente prima ancora di prendere una direzione. Noah all’inizio è un rocker invecchiato, con l’ossessione tipica dell’outsider di essere sempre catturato e imprigionato dai controllori, mostri della palude o scoiattoli che mordono che siano — che ha scritto una canzone per una bambina speciale, troppo, per restare solo una figlia; e dopo sarà il Caronte che ci traghetta nel Nord Europa delle leggende dal Texas asfissiato già da sentori di morte. E dopo ancora sarà il feticcio, assisterà a tutti gli incantesimi, qualcuno lo coverà perfino nel suo grande corpo continuamente mortale proprio perché sottratto alla decomposizione. Tra le infinite forme di delirio esiste quella detta di Capgras, la percezione dell’altro più vicino a noi, spesso la famiglia, come un sosia che ha rapito o distrutto o invaso l’originale, privandocene per sempre. In questo delirio si tocca spesso la pelle dell’altro per scovare l’impostura, definitivamente impastata a ciò che fino a poco prima amavamo. Invece di assassinare il padre per verificare se sia reale, Jeliza-Rose accetta egualmente la sua vita immobile e la sua morte gassosa e invadente, come accetta quella della madre e perfino quella ipotetica della sua bambola, anche se con un rivolgimento metafisico indispensabile, che li vede riuniti in un grande ventre-cattedrale che nel delirio (amoroso) introduce le lacrime: in questa accezione, il delirio di Jeliza-Rose è la logica più conveniente.

Del resto, è una cattedrale anche l’enorme casa dai soffitti altissimi, con i vetri delle finestre colorati come una chiesa sconquassata e occupata da tre corpi in transito, in cui la madre gonfia strepita, facendosi massaggiare i piedi, affamata di amori meno dolorosi, e insieme accusa: la bambina era irritabile e iperattiva. Il grosso corpo di madre disfatto e appiccicoso che mescola insieme alle manovre di difesa della cioccolata lamenti infantili per una vita che si lascia andare, assomiglia già a un corpo putrefatto. La morte di lei è un soffocamento improvviso e grottesco, adeguato alla stanza di favole e cianfrusaglie con cui Jeliza-Rose non potrebbe giocare che di nascosto; e anche il rito del funerale della regina, suggerito dalle ossessioni di Noah e accettato presto dalla bambina, non è uno strano modo di elaborare un lutto, ma ancora una nuova tappa di formazione di un universo in cui le cose parlano e corrispondono a chi le tocca: la cioccolata, le scarpe, le sigarette che vengono gettate con crudele ironia sul suo corpo a celebrare la sua dipartita sono già animate di vita propria, delegate da Jeliza-Rose ad essere più parlanti e più efficaci di un adulto senza più parole.

Il presente è un treno lanciato in corsa che viene distrutto dal gioco di Dickens, un adulto rimosso, pestato a sangue dalla lobotomia, per una terra delle maree già sconquassata da sufficienti roghi ordinari e catastrofi leggendarie: così come il viaggio che Jeliza-Rose accetta di compiere, così come il viaggio a cui costringe le sue bambole nel ventre aperto del padre, con un briciolo di maliziosa perfidia costringendole a fare le valigie come ha dovuto fare lei stessa, tutte le cose parlano; e se Nicola Pecorini, il direttore della fotografia prediletto da Gilliam, afferma che il grandangolo di Gilliam nel cinema è un «grandangolo sulla vita», le scene ampie e non confinate diventano la normale conseguenza di un’immersione profonda in questa sfrenata misurazione di entropia delle cose in cui pure viviamo senza volerlo sempre ammettere: Jeliza-Rose è la protagonista assoluta ma non si trova al centro di queste riprese gigantesche, e in questo film come non mai, tra tutti nella carriera di Gilliam, il grandangolo non è scelta stilistica per disegnare il mondo sbilenco di un disegnatore mancino: non è la “fantasia visionaria” sbrigliata di un Gilliam a torto considerato soltanto un colorato cantastorie, ad aprire buchi nel grano: c’è da aspettarsi di questi e ben altri fenomeni geologici da un territorio già contaminato, un universo ferito che si rifugia nei sogni nordici delle penisole ingoiate dai riflussi di se stesse, e anche un’America che annaspa senza convinzione tra disillusioni e precetti mistici, ingozzando i suoi bambini di bocconi sempre più ingombranti di fanatismo religioso.

 

Il ruggito dell'abisso, niente gli è paragonabile. È l'immensa, bestiale voce del mondo [...]

baccano vertiginoso, che sembra un linguaggio, e che in effetti è un linguaggio;

esso è lo sforzo del mondo per parlare, balbettio portentoso. [1]

 

Nel film di Gilliam, come nel mondo, le cose parlano; occorre ascoltarle. Che questo avvenga attraverso le allucinazioni di un’America disincantata e sovresposta al disfacimento, come in Paura e Delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998), attraverso l’evidente deformazione chirurgica dei volti e della società e l’occhio affilato del terrorismo necessario, come in Brazil (id., 1985) o attraverso la ricerca del Graal impossibile (la rassegnazione di fronte alla perdita, la demenza congenita delle strategie imposte per superare l’abbandono e il lutto) come in La leggenda del Re Pescatore (The Fisher King, 1991) o ancora da una registrazione di ciò che deve ancora avvenire, come in L’esercito delle dodici scimmie (Twelwe Monkeys, 1995), sempre le cose urlano la loro presenza e la impongono, impregnando di linguaggi coniati per mancamento o per violenza ogni metro quadro di spazio.

Parlano le bambole di Jeliza-Rose, che le si voglia vedere come brandelli di identità o come gli aiutanti [2] fantastici della Morfologia della fiaba, o in qualche modo come gli animaletti che sempre circondano le bambine dei manga e degli anime, creature che non solo esercitano funzioni concrete ma riecheggiano i pensieri delle protagoniste piccole e adulte nello stesso corpo vulnerabile e dotato di poteri; ma Jeliza è la bambola di se stessa, e in fondo non ha bisogno di giocattoli: i rituali della vestizione, truccare il padre con struggente affetto sottraendolo alla morte grazie al gioco della regina di bellezza, o truccare Dickens per addolcire le sue cicatrici a colpi di belletto da clown, nella luce stratosferica dei pomeriggi avventurosi a base di baci, sono manovre di affetto che tentano di penetrare un universo già scomposto, già capovolto, e in realtà, di riportarlo alla ragione.

Jeliza-Rose non riconosce né può prendere sul serio una saggezza più profonda della propria; a priori accetta tutto perché accetta il senso di fame e di abbandono; accetta che il cibo finisca nel barattolo di burro di arachidi, perché tutto si esaurisce, ma anche che magicamente ricompaia sulla tavola imbiancata della strega Dell. Lo stacco, per chi assiste, tra la convinzione che sia la bambina a far parlare le sue amiche immaginarie, e gli istanti in cui questa certezza viene messa in discussione, è infinitesimale, ed è tutto affidato alla grazia del gioco di Terry Gilliam con lo spettatore; non basta che la bambola apra gli occhi all’improvviso come un artificio horror: bisogna attendere che le labbra della bambina vengano inquadrate volutamente e con evidenza nella scena del racconto del picnic per piegarci alla sensazione che avessero una vita propria fin dall’inizio; la bambola Glitter Gal ha il viso deturpato e la voce rotta, ma è la più generosa; la bambola Mustique è la Barbie per eccellenza la cui frivolezza è compensata da un onesto sarcasmo: è la parte risoluta che occorre a Jeliza-Rose per affrontare tanti fantasmi che si sgretolano uno dopo l’altro: il fantasma che vaga tra le fattorie cantando vecchi gospel non ha il viso coperto perchè devastato da un incendio, ma ben peggio: la stessa Jeliza sarà certa di diventare un fantasma, perché, quando la nostra solitudine si fa più penosa, le cose continuano a esistere con arroganza mentre ci dissolviamo.

 

 

Strategie di sopravvivenza. Ritrovare la frequenza di una stazione radio per fantasmi.

 

 

Nel rapporto tra la bambina e lo squarcio di universo che si va formando si creano brevi momenti di angoscia terribile e terribile consapevolezza, come se Gilliam ci ricordasse continuamente e con maestria di non cadere noi stessi nella favola dell’innocenza che sarà perduta: anche per merito della distruttiva bellezza dell’attrice bambina, Jodelle Ferland, che causa sincera inquietudine (distrutta la sua voce da quella del doppiaggio italiano, in cui si è pensato bene di incollarle addosso la voce di una professionista perfettamente adulta che tende leziosa a imitare un orsetto – tradendo così gravemente la natura complessa del film, che rema ogni minuto contro l’imitazione o la rappresentazione dell’infanzia per tessere invece una crudele parodia del mondo adulto), Gilliam dissemina alcune schegge impazzite di dolore che rendono questo film uno strano oggetto non sempre decifrabile: Jeliza-Rose osserva la madre, anche se mai amata, con gli occhi di un uomo primitivo di fronte al silenzio eclatante che circonda un cadavere; se il ragazzo a cui hanno aperto il cervello trova il corpo morto di Noah bello, Jeliza-Rose con grande serietà gli ricorda: «Io l’ho reso bello», trattenendo su se stessa contemporaneamente il merito e la responsabilità, e il peso degli eventi, e rivendicando la propria capacità terribile di metamorfosi; le dichiarazioni di partecipazione cosciente di fronte al proprio gioco sono continue. Ma soprattutto, Jeliza-Rose istantaneamente comprende che il padre è morto, perchè "conosce" la morte per istinto; e immediatamente inaugura una strategia di sopravvivenza assolutamente consapevole, e non certo provocata da un'innocenza che le impedisce di accettare il reale fabbricandosi un mondo parallelo, ma al contrario, decisa con la disperazione di chi ha già accettato il reale con tanta fede nel reale che dilaga, che può anche permettersi di mistificarlo. Un viso troppo irrigidito: la bambina capisce ogni cosa, e Gilliam, ignorando il compiacimento dello spettatore che brama di compiacersi di tragedia, taglia bruscamente sulla sua presa di coscienza e ci pone con lei di fronte a uno specchio, dove Jeliza-Rose riproduce il gioco di sempre; ma il suo imitare allo specchio una femme fatale che muore di tisi può restare un brillante gioco infantile soltanto fino alla morte del padre: dopo la morte di lui, immediatamente diventa un gioco al massacro, un travestimento osceno che riproduce la volgarità della madre. «Get on with it, you little bitch», è un autoinvito a sopravvivere, solo portato avanti con il linguaggio che ha a disposizione; tutti gli stratagemmi e i linguaggi deliranti dei giochi diventano appelli alla resistenza: riproponendo a se stessa la scenetta della fanciulla ammalata che spasima per un bel dottore, di nuovo dichiara a chiare lettere come il gioco sia questione di vita o di morte, importante quanto la necessità impellente della sua sopravvivenza. E della straordinaria pronunciabilità della morte, che viene dichiarata e nominata, anche sotto il carnevale dei petardi e delle risate: una morte accuratamente messa sotto spirito da Dell, colei che una volta era bella, come appare nei dagherrotipi di una casa oscurata, colei che «una volta, non era un fantasma o un pirata» – o una strega che affila le lame sanguinarie per sgozzare conigli e bambine curiose – continuo gioco di equilibrismo tra candore tenero (Jeliza-Rose che continua a prendere tra le mani il viso del padre per farsi ascoltare da lui, ora che può, ora che il viso gli ricade sul petto come la cosa morta che è, ora che ha tutto il tempo per ascoltare) e consapevolezza di ciò che non ha bisogno di essere reinventato, prima di essere sporcato e insanguinato dall’esistenza a piccoli passi.

Dell non risparmia nulla a Jeliza-Rose del tremendo artigianato necessario a eliminare da un corpo anche l’ultimo triste, gassoso residuo di vita: la vecchia casa degli orrori, l’antro della strega, diventa tale quando si trasforma in laboratorio. Ciò che cade, ogni volta, con Alice-Jeliza, sono le sue stesse invenzioni; allora occorre appigliarsi al ragionamento: il disinfettante è disinfettante, scopriremo che può essere l’odore della morte, ma bisogna vederci chiaro: l’odore della decomposizione entra in scena disinvolto, non diversamente da porte che sbattono, vento texano, estasi delle corse esplosive in mezzo al grano: ecco forse dove il meraviglioso di Terry Gilliam, in Tideland, si differenzia profondamente da quello gotico e sempre un po’ ammiccante di Tim Burton. È un gotico americano [3] piuttosto quello del regista, nato in Minnesota, sempre distaccato eppure tutto dentro alla politica attraverso le visioni, conscio di un paese in cui si tenta di restituire la terra a un dio salvifico e improbabile, con esaltato indottrinamento estivo da Jesus Camp. Un mondo in cui i vecchi Noah non saranno mai al riparo. E in questo quadro sulla pala d’altare, sul luogo del sacrificio va la maschera solenne e tuttavia comica di Noah, ridotto a un pagliaccio arrostito sul barbecue delle ossessioni evangeliche di Dell, sua ex amante e negromante innamorata – è mortalmente triste, è all’improvviso una vittima di faccia di cuoio, sono i pezzi di carne e di pelle assemblati da Ed Gein per servire una follia appassionata ed estrema. Le «mele sinistre» che Jeliza-Rose trasforma in peti da maleducazione vanno messe in regola, con un attento lavoro di spellamento, drenaggio del grasso, detersione, e una serie di operazioni da calzolaio medievale: plasmare, cucire, verniciare…

Dell non sa amare se non attraverso le sue arti da fattucchiera; quando il suo volto si distende e la bambina cerca l’abbraccio di una maternità che non sarebbe certo più deforme e bizzarra di quella naturale, si allontana con orrore. Ma nel momento più straziante ecco il folle musical della pulizia della casa. Impossibile imbiancare: è una speranza del tutto vana. Gilliam non ci lascia nemmeno un istante per piangere. Jeliza è Cenerentola. Si tratta di un festival di furore evangelico in cui lei ancora una volta può solo ridere, e la tavola da pranzo, da Giorno del Ringraziamento, brilla come nelle famiglie assassine dell’utopia dei ’70. Finalmente il picnic negato viene portato a termine, e una nuova famiglia si assesta sul mantra di una sacerdotessa in veletta da allevatore: le cose amate non devono morire, il padre Noah, presumibilmente Condottiero di Nulla per tutta la vita, diventa re vichingo che vaga alla deriva su un letto importante. Solo un attimo di pace, una chance di tenerezza, sufficiente per far tornare Dell, una dei dannati di questo inferno sgangherato, che diventa definitivamente un arazzo con scene di battaglia quando Dickens l’obliquo e un superstite di un incidente ferroviario si confondono e si sovrappongono agli occhi di una bambina condannata a sopravvivere in ogni caso, come un supereroe; e se non a sostare a cavallo tra vari mondi, perlomeno a percepirne le frequenze: non a caso, sempre Dell viene omaggiata al primo incontro con il dono di un piccolo altare e soprattutto con l’offerta di una radio: la radio posata sull’altare degli spiriti, il modo più veloce per parlare con loro – la radio è in effetti «qualcosa che solo una persona morta può usare», perchè «i fantasmi possono sentire la voce degli altri fantasmi»:

 

«Presto. Fantasmi e mostri sono veloci corridori, ricordi?»

«Non è vero. I morti sono lenti. Devi essere vivo per correre»

 

 

The Way the Family Got Away [4]

 

 

Come in Scarpette Rosse allora Jeliza-Rose è costretta a correre, e se il caso lo richiede, a danzare: non ha scelta perché sopravvive. In questo senso Gilliam invita a guardare il suo film con la sicurezza che i bambini

«Tendono a rialzarsi, se sono fatti cadere. Rimbalzano. Sono fatti per la sopravvivenza». E non perché non vedano, ma al contrario perché i loro occhi talvolta sanno aprirsi fino alla tortura così come sanno chiudersi ad arte nel sollievo del sonno. C’è una Nonna, che non viene neppure troppo idealizzata, ma diventa la depositaria invisibile di una distruzione cominciata troppi anni prima: dal suo baule, è vero, si diffonde una musica noir newyorchese, e Jeliza è subito una star; la vecchia signora folle che baciava per ore un ragazzino e che curava punture di api vendicative con poteri magici, che non ha mai picchiato Jeliza, anche perché Jeliza non era ancora nata. Di questi baci schioccati dai silly kissers, una bambina e un uomo che ha solo l’aspetto di un bambino, si è parlato a lungo e a sproposito in tenore MOIGE, con ipocrite preoccupazioni clericali in termini di pedofilia — il che è già lapalissiano! A dire il vero, le promesse e le lusinghe, per quanto incredibilmente seducenti, di Jeliza-Rose restano quelle di una bambina di dieci anni.

Jeliza-Rose non avrà mai la comica innocenza delle eroine sadiane alle prese con una trafila di disavventure, ed è piuttosto Dickens ad essere sconvolto e turbato dalla sua disinvoltura incantata; ma Dickens stesso ricorda le attenzioni della vecchia signora nei suoi confronti in una luce innocente (la sua lingua era un serpente o un pesce dorato che ballava, e lui medesimo era un cioccolatino avvolto nella stagnola): sapete, anche essere un cioccolatino può rappresentare un’opzione quando non si ha nulla.

Se i brividi ci assalgono – quando la bambina inghiotte per gioco la testa della sua bambola, i morsi della fame vengono scambiati per una gravidanza fantastica in cui un bebé può nascere nello spazio di un giorno solo, la nostra eroina si presenta al castello vestita da sposa preraffaellita, tra dentini che cadono e capelli che crescono all’infinito, una sposa in miniatura di Edgar Allan Poe – è solo colpa nostra. Jeliza-Rose sopravvive grazie alla propria incompiutezza, e cresce, ovvero assume il linguaggio di tutto ciò che respira intorno a lei. Oltrepasserà la cornice del suo quadro di spighe per essere gettata nel mondo di fuori, non meno terribile di questo; non meno ferita dei passeggeri del treno al collasso; ed è incalcolabile la natura della sua tragedia rispetto a quella che la sua fiduciosa salvatrice casuale può raffigurarsi.

 

 

«Cos'è la tua amica?»

«Una testa. La testa di una bambola»

 

 

Dickens e Jeliza-Rose in realtà, più che lo status di bambini liberi di spingere la fantasia alla velocità della luce, condividono la possibilità di accettare che siano le cose a parlare, a manifestare la loro identità mostruosa o fantastica più dell'effimera identità delle persone – entrambi sanno per esperienza che questa muta in base a quelle che sembrano trasformazioni repentine come il cielo di Tideland, che da sereno si muta in nuvoloso in un momento; le persone, e i loro scatti umorali, che possono essere catalogati solo per concetti

sfumati: buono o cattivo, nemico e amico, famiglia o estraneo, amore e dolore, sempre che non viaggino insieme come treni infuriati, come in effetti accade. Col giorno, la vecchia carcassa diventa più pallida, funesta e ingestibile; l’uomo che fa di se stesso una bestia sbarazzandosi della pena di essere un uomo, e che davvero non deve dimostrare più nulla perché annega in uno stato da cui non si può risollevare con make up e parrucche ma nemmeno con l’imbalsamazione. Basterà uno stivaletto da bambina a schiacciare il viso vuoto di una madre conservata in un sonno di cartapesta!

La figura di Dell è la preziosa immagine di un’altra giocatrice, ma che asseconda il gioco di una bambina  solo per i suoi fini, e questo gioco è sempre sul punto di crollare se se ne infrangono le regole (questo vale per un adulto e non per Jeliza-Rose, che davvero può infrangerle quando vuole, perfino capovolgerle, restando comunque sempre nella logica del reale) – è sempre sospesa nel suo volto l’ombra di un patto con se stessa che le ricorda di non uscire mai dal suo ruolo di custode e profetessa bislacca ricoperta da un cappuccio per apicoltore, che non sta tanto a proteggerla dalle api ma dal riconoscimento di un mondo – il mondo che passa nel treno, il mondo di fuori – col quale non vuole avere più niente a che fare. La sua pupilla morta che tutto vede, contiene la baccante vestita da giovane hippy che dava fuoco agli alveari contro un padre cattivo, la testa coperta di fiori, e rammenta la scena, meraviglioso siparietto di Weird Tales, ma proiettate negli anni ’50, dal sapore alieno e fantascientifico, della morte della mamma – casalinga in bigodini e torta di mele che viene assalita in una linda cucina dalle api infuriate come amanti gelose, il suo cuore si ferma per il terrore. Le “storie incredibili ma vere” che ogni personaggio che Jeliza-Rose incontra custodisce nel proprio personale tormento, sotto l’aspetto di una caricatura febbrile, non hanno bisogno di essere raccontate nei dettagli; sono tutti sopravvissuti, oltre a lei – così Jeliza non è solo Alice, e il rimprovero linguistico di Dell – momento che richiama più palesemente Lewis Carroll, “vedo quello che mangio non è come dire mangio quello che vedo!” – è più che filosofico, visto che al problema del linguaggio associa subito lo scopo del suo rigore logico: bisogna restare con quelli che si amano, le cose morte vanno mantenute in vita, tutto cambia per sempre e dunque tutto va mutuato in eterno, con l’aiuto di un faticoso processo manuale.

Per Jeliza-Rose il gioco non è sacro e può diramarsi elastico in mille direzioni; per Dell, corpo adulto e affranto, deve necessariamente essere sacro (e mistico) perchè le occorre  più sforzo per mantenerlo. L’unico che probabilmente riesce a giocare compiutamente con Jeliza è il ragazzo Dickens: ma è proprio quando lui cerca di portare avanti un gioco che Jeliza, Giocatrice per Necessità, ritiene mal costruito, quello del sottomarino, che si svela la differenza tra i due compagni di gioco: la volontà di Dickens di edificare un mondo fantastico, ma inconsapevole. Sotto la patologia – o il sogno, non differiscono – che inaugurano tanto un adulto, un bambino, o un sopravvissuto, c’è sempre uno strato di paura, terrore di non credere alle proprie stesse rivendicazioni. Ma Jeliza-Rose è una figura che non rientra nell’infanzia e neppure nel mondo adulto, perché la sua follia ricostruttiva, la sua sopravvivenza, necessitano di spiegazioni precise e scientifiche almeno quanto la preparazione dell’eroina destinata al babbo, per mantenersi in vita.

I giochi di Jeliza-Rose hanno bisogno di modificare nella sostanza la realtà per funzionare a dovere; Dickens lo scoordinato che mima l’epilessia, che nuota nell’erba, può diventare a lei vicino per qualche momento, ma sempre la abbandona nella solitudine grande della sua precisione: così il sottomarino è deludente, il prode Dickens, il salvatore, «non è veramente un capitano, né un prigioniero, né niente»: perchè proprio mentre viene incoronato audace cacciatore, viene richiamato da psichedeliche campane del pranzo dalla sorella-strega. Jeliza-Rose sa sempre distinguere la simulazione, perfino quando è prodotta con le sue mani: lontanissima da un’ignoranza infantile, remota come solo i reduci possono essere, sa che il capitano non può salvare nessuno, ossessionato com’è dalla sua lotta contro lo Squalo-Mostro; eppure, lei cova la speranza che resistere abbastanza a lungo possa ridisegnare i confini del terreno su cui cammina.

La riformulazione dell’avventura del picnic, l’incontro con Dell che è stato tutt’altro che rasserenante, per Jeliza-Rose, mostro chimerico troppo affascinante, può essere comunicata solo come una evidente menzogna, come fanno gli adulti, e proprio alle bambole, che in quel momento sono le piccole, le figlie, e possono essere ingannate come sempre il mondo inganna i bambini.

Le piccole vanno ipnotizzate, con immagini vittoriane di anziani che ballano con gli orsi; ma Gilliam non vuole ipnotizzare noi. Ci vuole coscienti, e se non siamo emotivamente provati da questo film, forse la nostra simulazione di mondo ordinato ha raggiunto una tale perfezione che siamo convinti di non covare e dar da mangiare ogni giorno a un Impero della Mente, dove consapevolezza vuol dire perfino arrendersi a una indistinguibilità di un corpo fisico accanto a un altro, di un volto rispetto a una sovrimpressione, di un simbolo ritenuto infantile rispetto a un feticcio erotico ritenuto adulto.

 

 

L’Apocalisse è un gioco da ragazzi

 

 

Il romanzo Tuono a Sinistra [5] di Christopher Morley è un quieto incubo partorito negli anni ’20, che si apre proprio con la descrizione dell’inganno congenito dell’età adulta, l’attentato all’infanzia: i piccoli invitati ad una festa di compleanno sono sospesi sul punto di inventare un loro proprio delirio, un gioco di guerra che consiste nello spiare tutte le mosse dei genitori per comprendere se sono davvero felici, e se valga la pena di crescere. L’intero libro è una proliferazione di voci che si accavallano, come se fossero ora quelle dei fantasmi di quei bambini, imprigionati in corpi adulti, grotteschi, imbarazzati e naturalmente infelici, ora quelle dei fantasmi degli adulti, irrimediabilmente goffi, sacerdoti dello spirito della Vergogna, se ne è mai esistito uno, che attraversano a denti stretti le loro vite edificate a calce e mattoni rossi americani. Un evento, che queste voci afflitte chiamano “La Merenda”, il momento della festa, dell’eccezione, diventa l’ossessione di entrambi i fantasmi, del corpo piccolo e del corpo adulto, per opposti motivi: la celebrazione di una libertà negata da un fronte nemico per i bambini, che spiano dietro la porta i rituali preparati per il loro addomesticamento; il climax di un’angoscia e di un senso di colpa che troveranno il loro dispiegamento ideale solo in un dramma di tradimenti e disattenzioni, per gli adulti. E se l’impostura, la simulazione definitiva, fosse assoggettarsi a un tempo che non smettiamo mai di non riconoscere, perché è la distanza fisica tra noi e il mondo che conta, e non quanto possiamo invecchiare, visto che non siamo in grado di rapirne nemmeno una scintilla grazie a un anno in più? La fine del mondo è già avvenuta. Tutti quelli che chiamiamo momenti magici, surreali o fiabeschi in questo strano film hanno il sapore delle cose da non fare, delle interdizioni per bambini, di tentativi e esperimenti che si infrangono contro fiamme e lucciole.

 

 

                Chissà che impressione deve fare, esser Grandi! – disse Alessio.

– Deve essere meraviglioso… – disse Martino.

– Sfido, io! – fece Ben. – Ci pensi? Portare i pantaloni lunghi, fumare la pipa, soffiare anelli di fumo, andare ogni giorno in città, entrare nelle banche a prendere i soldi… –

– E tutti i caffé nei quali ci si può fermare a prendere gli aperitivi! – esclamò Ruth.

– Andare in battello!

– Comperare le cose nei negozi!

– Il circo equestre! – urlò Micia.

– Io non volevo parlare delle cose che si fanno – disse Martino. Volevo parlare delle cose che si pensano. – Poter pensare quello che si vuole… non dover fare… non dover fare cose che si sa che non vanno bene… –  Per un istante il ragazzo parve tremare e sull’orlo di una rivelazione, la rivelazione di tutta la segreta infamia della fanciullezza, la più pietosa di tutte le schiavitù terrene, forse la sola che non potrà essere cancellata. Ma gli altri erano lontani dal comprendere; e anche lui, del resto. [...].

– In fondo, io non desidero di  diventare grande – disse improvvisamente Alessio – È stupido. Non credo che i grandi si divertano molto. – Era un’affermazione sconcertante. Alessio, nella sua qualità di maggior cugino, godeva di un certo prestigio. Un lieve sgomento si vedeva negli sguardi che rapidamente s’incrociavano alla luce brillante delle candele.

– Credo che occorra prendere una decisione in proposito – disse Martino gravemente. – Tra poco, se continuiamo così, lo saremo, e allora sarà troppo tardi. — [...].

– Dobbiamo Prendere Provvedimenti – gridò Alessio citando inconsciamente il nemico.

– Si potrebbe decidere fra noi che non vogliamo diventare Grandi, e se vivremo insieme potremo continuare ad esser come siamo ora.

– Sarebbe una specie di gioco – disse Martino raggiante.

– Coi giocattoli? – esplose Micia estasiata.

Il volto di Martino era serio, assorto nella visione di grandi alternative.

– Il fatto è – disse – che dobbiamo sapere, prima di decidere. È terribilmente importante. Se essi non si divertono, faremmo meglio…

– Potremmo chieder loro se sono felici – esclamò Ruth.

– Non te lo direbbero – fece Alessio. – Sono troppo educati.

Filli cercava di ricordare esempi istruttivi sull’infelicità degli adulti.

– Essi non dicono la verità – assentì. – Una volta la mamma disse che se il papà avesse continuato a far così sarebbe impazzita, e io aspettai, aspettai: lui continuò a far così, ma lei non impazzì per nulla.

 

Mentre il film procede, la solitudine di Jeliza-Rose si fa sempre più aspra. Nuotare nel grano è come nuotare nell’acqua, ma a stordire il vuoto non sono sufficienti nemmeno le chiacchiere ora sagge ora affettuose delle bambole; l’unica salvezza all’orizzonte, si prospetta, è l’amore: baciare la cicatrice di una testa rotta e tenere la mano a un principe malconcio: la logica stringente di Jeliza continua a riformulare e a trovare nuove strade, un po’ come l’amore di Gilliam per il cinema si sforza di volgere a suo favore i suoi celebri incidenti di percorso: cocciuta, destinata a viaggiare lungo il percorso delle dolci sfiancate fantasie paterne, cerca ancora la melanconica terra delle maree, anche se trovarla vuole dire passare per teatrini di vampiri: la casa di Dell in cui assiste al rapporto brutale della donna con il ragazzo della frutta, la terrorizza e la affascina, perché nell’antro della strega accadono cose inspiegabili. Jeliza-Rose spinge avanti la sua bambola più matura e sessualmente consapevole, Mustique, ma anche lasciando che sia lei a spiegarle cosa accade, nemmeno in questo caso la sua innocenza infantile rende la realtà più ingenua, soltanto più reale e brutale: tanto da correre sul filo dell’attrazione e del respingimento per la casa dei corpi vivi che fanno più paura di quelli impagliati. Si tratta di un mondo ibrido e sempre tremolante, sul punto di perdere la messa a fuoco, come quelli dei ragazzi di Dennis Cooper (anche la Jeliza-Rose del romanzo di Mitch Cullin [6] è una preadolescente) o di certi istanti, rarefatti come crisalidi, dei film di Gus Van Sant.

 

 

Siamo in salvo, adesso

 

 

Il sogno di Dickens della colossale esplosione, e della salvezza da parte di un Cristo che forse assomiglia a una bambola gigantesca, strappa Jeliza-Rose al suo ultimo rifugio – svegliarsi dentro il sogno di suo padre – le braci illuminano un mondo terreno e infernale come gli incidenti, occasionali o provocati, in cui avviene l’unico vero capovolgimento: Dell ritorna una sorella maggiore disperata, Dickens un bambino trascurato che ha giocato col fuoco, Jeliza una figura sospesa per sempre tra decine di mondi: la signora sconosciuta, ancora una figura delle fiabe, appesa alla borsetta, dispensatrice di arance provvidenziali, che le chiede se viaggia da sola, si sentirà rispondere con la voce di una logica indiscutibile: Non lo so.

Come sono privi di sentimento e ancora incredibilmente aperti gli occhi di Jeliza-Rose, come gli occhi innocenti e severi dei profughi, la competenza in materia di vita e morte delle vittime di zone di guerra politiche e familiari, la tristezza inesauribile degli automi di Masamune Shirow, setosi e infinitamente vecchi. Nel finale, le lucciole si nutrono di questi occhi, mangiano e divorano la pellicola. Il film finisce, le lucciole, cannibali, continuano a sopravvivere al più funesto degli incendi.

 

 

 

 

 

 



[1] Victor Hugo, L'uomo che ride, Mondadori, Milano 2004.

[2] Vladimir Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 2003.

[3] Con riferimento al romanzo del 1985 di William Gaddis Carpenter's Gothic (Viking), pubblicato in Italia come Gotico Americano, Leonardo, Milano 1992.  Il sogno americano di Terry Gilliam è prendere a picconate il sogno americano…

[4] Il titolo si riferisce al libro del 2000 di Michael Kimball, The Way the Family Got Away (trad. it.: E allora siamo andati via, Adelphi, Milano, 2001). Si abusa spesso dell’espressione “guardare con gli occhi di un bambino”. I bambini, le voci narranti di questo romanzo, sono autentici gemelli delle voci molteplici di Jeliza-Rose. Come in una versione musicale e poeticamente stonata di Tideland, cantilenano con un linguaggio inventato la storia di una famiglia che va via per sempre in una terra non meno profonda della terra delle maree, arenata per sempre nell’impossibilità di accettare anche una sola morte, portando con sé il cadavere di un fratellino, percorrendo una provincia americana che si incolla ai vestiti e attraversa Texas e Michigan. Ogni capitolo del libro è un manuale di rielaborazione della realtà secondo una geografia possibile, ogni tappa del viaggio, sulla mappa di un dolore che viene cantato con i nomi di città e villaggi che sembrano devastati da una tragedia universale, ma che forse sono solo stazioni di servizio di un viaggio immaginario, porta il nome di un tragitto: da Albion a Hot Springs è Come ritagliare le bambole e le persone dalla carta, come colorarle, la carta che tiene insieme le persone, tenersi per mano, e un altro modo ancora che le famiglie hanno di rompersi; da Henderson a Hendricksville è Il mio fratellino e il suo respiro nella cassettina, come giocavamo con il mio fratellino-bambola e con quello vero, e quanto devi essere vivo per poter andare via. L’intero libro può essere inteso come ciò che in Tideland non viene esplicitato a parole, ma per immagini.

 

[5] Christopher Morley, Thunder on the Left (trad. it. Tuono a sinistra, Sellerio, Palermo 1992, pp. 16-20).

[6] Tideland, il romanzo di Mitch Cullin a cui si è ispirato Gilliam per il suo film, è stato pubblicato in italiano da Fazi nel 2006.

 
 
 

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