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UN SOGNO IN VEGLIA

 

Attraverso una sequenza di L’infanzia di Ivan (1962)

 

 di SILVIA SOLIANI

 

 

Entrati nella storia del tempo che ci appartiene, tempo che ci ha scelto, tempo che gestendo tutto il nostro universo c’inabissa in ciò che è, che è stato, che ci attraversa. La cronologia del viaggio è un elemento che detta con i suoi rigori metafisici alcuni punti essenziali della nostra storia. L’orizzonte si sfuma intersecandosi in quello che noi chiamiamo destino.

 

Io sono caduto e non riesco a seguire il divenire del tempo. Nel cadere ho trattenuto in pochi frammenti l’unico senso di realtà che mi appartiene.

 

Nella composizione che è stata la vita riemergono come luce rifulgente i veri attimi della mia storia, rigettato nella vita degli altri, eternamente mai riunito. Così il viaggio e il movimento che ho percorso formano all’occhio esterno il mio destino, ma io so che quello che rimarrà in me non sarà una potenza ma l’estetica di un gesto incomparabile, rivolto, immortalato nell’universo, in tutti i destini.

 

Questo gesto io non l’ho programmato, ma attraversandomi come le parole mi ha reso immortale sempre vivo e sempre come perfezione, come un movimento iconografico nel caos abbandonato, nel non esserci, racchiuso nell’immobilità che diviene il tutto.

 

In un frammento, Ivan entra nella sua storia come protagonista, non vestito da semplice soldato, ma come riassunto perfetto di fragilità e poesia. Il passaggio sul carro di mele, quelle mele così invitanti, pone il fanciullo nel momento più alto della sua espressione. Ci appare come un essere immutabile al vertice di un’infanzia e una concretezza perfetta, irraggiungibile. Il sogno che permette di cristallizzare questi veri attimi di vita assoluta – e che Tarkovskij elabora sovrapponendo alle figure in primo piano uno sfondo che scorre in negativo – è un finto sogno.

 

L’altro da sé speculare e divagante – mai tangibile presenza forte che ci segue a ombra – non è una preesistenza, è ciò che ci permette di fronte alla morte di sfiorare il momento estatico dell’idea o percezione di aver vissuto. La frammentazione nello spazio, il nostro camminare nel vuoto come alternativa a tutto quello che devia spostandoci nell’altro da noi. Emerge, nei pochi secondi in negativo, il sorriso disarmante (che nella memoria è stato anche il nostro) di Ivan e della bambina, le mele offerte come simbolo di riunione primordiale e poi cadute lungo la strada, come tutto ciò che viene ceduto per non essere troppo pregnante e vissuto. Se fosse immobile, questo evento entrerebbe nel concetto di opera d’arte e sarebbe limitato nei suoi confini, ma l’evento si muove, seguendo la naturale via dell’inizio e della fine di ogni cosa.

 

Non si può dire che sia un viaggio dentro il mito. Sicuramente lo è nel mito di un’esistenza qualunque. Lo spostamento che attraversa la soglia di due mondi – contrapposti e uniti per sempre da un passaggio che sia onirico, reale o fantastico – è un movimento possibile per le nostre menti e nei nostri corpi.

 

La cristallizzazione del sogno-evento si ripete incessantemente nei suoi doppi all’infinito come specchio cosmico, riflettendo e proponendo l’atto elegante e assoluto dell’offerta come simbolo di un vertice umano. Se io potessi in questo momento o mai non essere più io ma un’idea che mi ha portato fin qui senza la mia volontà, quello che è stato, quello che diverrò, la mia impiccagione, il volto sereno di mia madre, saranno frammenti di una costruzione. Il ricordo viene perciò elaborato come una struttura dell’origine.

 

In qualsiasi momento o percorso storico che ci appartenga, il frammento originario esce allo scoperto cogliendoci impreparati e profondamente stupiti della sua forza di richiamo, come tutto ciò che di noi resta.

 

Non volontà. Nella struttura dell’origine le costruzioni si dipanano lasciando emergere la vera essenza del mutamento.

 

Un Orfeo vivente e morente, attraversante gli specchi di due realtà che non gli possono sfuggire. Di nuovo, in Jean Cocteau, abbiamo la proposizione del mutamento a-temporale messo in scena attraverso un passaggio su sfondo in negativo, attraverso un contrasto che ci porta come spettatori a vivere il trapasso. L’Orfeo ritorna inconsapevole dai due mondi e diviene altro da sé. Ivan è già vissuto e il suo ritorno non gli è possibile espletando cosi la sua natura umana. Il mitologico può e deve percorrere le strade dell’impossibile.

 

Se Jean Cocteau vuol disvelare la connessione bivalente invertendo le luci del paesaggio come altro mondo, Tarkovskij usando le stesse luci porta Ivan nel perenne vivo. Le due brevi sfumature usate dai registi non sono elementi secondari o casuali. Qualcosa d’analogo accade anche in Murnau, un primordiale Murnau che trasporta il suo Nosferatu a una velocità vertiginosa  nel mondo dei viventi, percorrendo ancora un contesto raggelante fatto di natura bianca su orizzonte nero.

 

Ma il sogno è l’unico elemento che rende l’uomo prigioniero inconsapevole di sé e contemporaneamente libero del suo agire.

 

Nel nucleo dove il tempo e lo spazio si annullano, l’impossibile si avvera e, come sfondo teatrale, il paesaggio onirico riemerge trasfigurandosi in una tensione drammatica, doppiando a moltitudini le possibilità dell’esistere.

 

Le mele cadono e noi non possiamo arginare il carro, vola veloce il tempo e sorridiamo immutabili correndo in faccia al tutto. Io sono la mela. Quella che tu prendi da me, quella che non mordi ma che tieni tra le dita. Anche tu ricordi e ricorderai. Guardandoci solchiamo il nulla. In questo momento sono io l’autorizzato da me. Il protagonista. Questa strada non finirà mai, il suo orizzonte è luminoso, io non torno. Che di me sia tutto il possibile perché attraverso questo sogno io non potrò mai morire, sarò sempre sospeso tra il cielo e il bosco in fondo, laggiù, dove sembra che finisca e invece la sua strada curva all’infinito. Io sono lo straniero. Nei tuoi occhi che mi sorridono c’è l’essenza della musica che non ho conosciuto. Io sono caduto in questo stato perché non ero stanco, volevo ricordare ciò che non è mai stato. Ho sempre odiato questo freddo, questa umidità, gli inverni troppo lunghi. In estate mia madre portava degli abiti semplici, leggeri, sapevano di sapone e di sole, io correvo con lei tra le sabbie verso un mare scintillante, non pensavo a nulla. Il mio braccio è esile, sta in aria come una vela, ti porgo un pezzo di eternità, la distruzione del sogno.

 

La terra che ci ha generato si distrugge e si annienta, allontanandosi da noi. Il processo di allontanamento porta l’uomo a divenire il mortale, il credente. Il corpo è l’elemento di scambio e di comunicazione rivolto a questi mutamenti.

 

L’uomo distrutto sogna la sparizione di tutto ciò che è la struttura dei suoi sogni, del destino della terra stessa. Nella distruzione del sogno decadono i miti, le loro leggende, il messaggio salvifico di superare in ogni circostanza il concetto di fine. La veglia è vissuta perciò come luogo della verità, del possibile, contrapposta all’illusione che il sonno profondo emana. La scansione e il ritmo costante del sogno, nella sua assenza di realtà, mettono in discussione questa stessa realtà facendo percepire un’illusione. Ivan, nell’immagine onirica, si mantiene fuori dalla visione globale del suo sguardo, uno sguardo contemporaneamente suo e degli altri, cosicché, svegliandosi da questo vissuto, rimane turbato e stranito proprio dall’idea che lo ha coinvolto mettendo in dubbio il suo rapporto con il reale. La morte è l’evento del futuro in quanto immaginazione della possibilità dell’esistenza del non esserci. Nel sogno, Ivan tocca l’altra vita, quella che parallelamente gli prosegue, tastandone la possibilità della sua verità. Nella notte la morte si allontana, e appare qualcosa di diverso, un diverso che, anche se percepito come altro e lontano dal destino, Ivan introietta nel suo vissuto, in ciò che per lui è eternità, nel profondamente intimo, senza una fine. Il paesaggio diventa inarrivabile, s’illumina di luce mentale. Di diamante sono gli alberi che non si piegano. Le mele cadono nel caos delle idee, la velocità è insostenibile, déjà-vu, è la rinascita continua, il superamento del mondo dei mortali che sognano la loro fine, la possibilità infinita del non esserci, la propensione verso le forze liberatrici costruite per le liberazioni illusorie, la natura che non muore mai, tutto si capovolge disgregandosi, l’immutabile gioia rimane sospesa sopra la veglia decadente. Così il sogno, alla fine, ritorna senza il suo protagonista e, fatto di vita propria, sovrasta la storia e i suoi eventi drammatici… oltre la morte continua a pulsare, si libera tra la folla e chi spettatore lo guarda… tutto luce e sole, opalescente intoccabile, vaga nello spazio tra i ricordi e quello che non è mai stato, verità, illusione e verosimiglianza. Improvvisamente ci troviamo nell’attesa, la veglia fluisce nei giorni del possibile costruendo attorno a noi una torre inviolabile che – con il suo confluire lento nel mondo del sonno, la sua perdita, la nostra trasparenza – riemerge attraversandone la metamorfosi, percorrendo il cammino degli astri verso il nulla. Ecco la corsa finale di Ivan.

 
 

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