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IL PROFUMO DI UN TENERO ADDIO

LE POLAROID DI ANDREJ TARKOVSKIJ

 

di CLAUDIO CAPANNA

 

 

L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo.

Quest’immagine è un seme, un organismo vivente in evoluzione…

L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza,

grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima,

fossanche la perdizione dell’uomo.

L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte.

Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista,
anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. [1]

 

 

Il grande poeta e sceneggiatore Tonino Guerra ricorda il periodo in cui il suo amico Andrej Tarkovskij cominciò ad utilizzare una fotocamera istantanea Polaroid. Era il 1977 e lo scrittore emiliano si stava per sposare a Mosca; nel frattempo ammirava l’artista, per il quale qualche anno più tardi avrebbe scritto la sceneggiatura di Nostalghia, trastullarsi con quella piccola macchina, all’inizio considerata solo un innocuo giocattolo dagli imprevedibili risultati cromatici.

Negli anni successivi il grande cineasta realizzò il suo ultimo film in Russia, Stalker, poi fu costretto, a causa dei gravi contrasti con i capi del partito comunista, a prendere la strada dell’esilio. Scelse dapprima l’Italia, poi la Svezia, dove realizzò il suo ultimo lungometraggio Sacrificio e, infine, Parigi, città dove morì di cancro e dove è tuttora sepolto.

In quegli anni tormentati quella piccola, e per certi versi stramba, macchina fotografica divenne un’insostituibile compagna di viaggio, un quaderno virtuale e immaginifico con il quale raccogliere appunti. La Polaroid fu lo “specchio” del regista; essa poteva rievocare i fantasmi di una patria lontana, i demoni della malattia che stava nascendo, ma anche le sensazioni rassicuranti di un passato mai dimenticato: i volti dei cari rimasti in Russia, i colori limpidi della campagna.

Gran parte di queste fotografie sono state raccolte nel volume Luce Istantanea (a cura di Giovanni Chiaramonte e Andrej A. Tarkovskij, introduzione di Tonino Guerra, Edizioni Della Meridiana, Firenze 2002) curato da Giovanni Chiaramonte e dal figlio di Tarkovskij. Tutti gli scatti presentati sono stati realizzati tra il 1980 e il 1984 e narrano il passaggio chiave della vita del cineasta; gli ultimi periodi nella sua terra natale e il soggiorno nel nostro paese, la proficua collaborazione con Tonino Guerra. Sfogliando le pagine notiamo i primi semi di quella che sarà la storia di Nostalghia; canto di fede e disperazione, di chi ha perduto le proprie radici a causa della storia.

Il volume è formato da due parti, cronologiche e tematiche, ben distinte: una prima, ambientata nella casa di Ignat’evo e una seconda, colta mentre il fotografo peregrinava per l’Italia in cerca di una storia, scrutando l’arte dei monumenti nostrani. Il cineasta cercò di trasfigurare il nostro paesaggio all’interno delle sue reminescenze, rendendolo così simile ai paesaggi boscosi russi. Le immagini esaltano gli elementi primigeni che hanno caratterizzato tutto il suo cinema: la nebbia e gli alberi, i sottili raggi del sole che filtrano sotto le foglie, che strisciano tra le fessure di vecchi edifici malandati ed erosi dalla natura e dall’incedere degli anni.

 

Le fotografie di Tarkovskij sono una testimonianza unica per comprendere la sua poetica e il dolore che accompagnò le ultime fasi della sua vita; in particolare pongono lo spettatore di fronte a due aspetti contenutistici fondamentali. In primo luogo emerge il ruolo chiave del concetto del tempo, il tempo nel cinema e nell’arte tutta, il tempo della vita. Il cineasta russo ha spesso scritto, e ribadito nelle interviste, la sua personale convinzione che il cinema non fosse altro che la scultura del tempo (da qui il titolo del celebre testo di analisi filmica scritto dall’autore).

 

Il tempo è uno stato. È la fiamma nella quale vive la salamandra dell’anima dell’uomo. Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra, sono le due facce di una stessa medaglia. [2]

 

Con queste parole l’artista russo delineava la sua particolare concezione della vita; una somma di pensieri che influenzarono la Settima Arte.

Secondo Tarkovskij, l’invenzione del cinema, come nuovo principio estetico, si ebbe nel momento in cui arrivò nelle sale il film dei fratelli Lumière L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat. Sullo schermo gli ignari spettatori videro l’inquadratura del marciapiede di una stazione ferroviaria e un treno che sfrecciava in direzione della macchina da presa; le persone a questo punto fuggirono repentinamente, senza accorgersi di aver presenziato alla creazione di un miracolo, di un dispositivo che riusciva a registrare direttamente il tempo, per poi riprodurlo all’infinito.

Questa qualità veniva definita di natura fattuale e dinamica; nel senso che il mezzo tecnico riusciva ad appropriarsi della realtà, e delle azioni da essa contenute, con algida esattezza cronologica. La grandezza di questa forma artistica stava nella capacità di donare agli uomini la possibilità di acquistare nuove esperienze, in un’epoca in cui la pesante industrializzazione di massa cominciava a sottrarre ad ognuno gran parte della vita. Il cinematografo ci rendeva sempre testimoni di nuovi fatti e ci arricchiva [3] .

Nella fotografia il tempo scorre attraverso il fluire della memoria e dei ricordi individuali. Congelando un frammento di realtà, il suo autore lo proietta in uno spazio infinito ed assoluto. Costruisce, in ultima analisi, un ponte indissolubile tra un passato, talvolta remoto, ed un presente che può spingersi fino agli spazi imperscrutabili di un futuro perpetuo.

La pratica fotografica, e ancora di più la fotografia istantanea, sono, nelle mani di Tarkovskij, i dispositivi per fermare il tempo e incanalarlo nel bacino dei ricordi. Si compiono in questo modo tutte le serie visive realizzate nella sua casa di campagna ad Ignat’evo; i paesaggi brumosi e le figure soffici di sua moglie e suo figlio, i loro sguardi indulgenti, attimi da portare sempre nel cuore. Sensazioni che somigliano ai profumi di un tenero addio, come ricorda Tonino Guerra nell’introduzione al libro.

La Polaroid, in quest’ottica, si pone come scelta fatalmente obbligata; già l’aggettivo che la definisce, istantanea, la pone in uno stato di eterna dialettica con la pressione del tempo. Così la sua tecnica, semplice e spoglia, priva di qualsiasi elaborazione secondaria in fase di laboratorio, la rendono il mezzo più efficace per eclissare la brevità della vita e cercare i momenti più intensi del passato. La resa cromatica e compositiva, spesso approssimativa e surreale, imprime agli scatti la patina invisibile che riveste le storie del nostro spirito. Il formato delle stampe risulta sempre uguale, molto piccolo, e costringe l’istante intrappolato a vivere dentro uno spazio limitato e inscindibile. Le immagini risultano sovraccariche, anche quando viene ripreso un campo solitario o un cielo spoglio; ogni minima particella acquista una connotazione plastica, persino l’aria e la sua atmosfera.

 

Nostalgia, per noi russi, non è un sentimento leggero

Come per voi, ma una malattia mortale

Che spinge a viaggiare, alla ricerca

Della propria patria perduta… [4]

 

Questa frase, amara e lapidaria, tratta dal fondamentale saggio Scolpire il Tempo, ci porta ad affrontare il secondo aspetto tematico che si evince dalla raccolta di polaroid: la nostalgia per la Russia, che si traduce nell’amore sconfinato per la propria casa.

La “casa” non è più lo spazio chiuso dalle quattro pareti, ma un paesaggio intimo e familiare verso il quale muovere i propri orizzonti, anche quando il nostro sguardo si posa su lidi lontani; un luogo che sconfina nei territori quasi inconsci dell’infanzia e del periodo pre-natale.

Come ricorda Giovanni Chiaramonte, nella postfazione al volume fotografico, Andrej lasciò il suo paese e viaggiò per l’Italia, amareggiato, serbando il conforto costante di poter trovare una nuova abitazione, dove la moglie Larisa e il figlio (chiamato spesso, nelle brevi descrizioni alle immagini, Tapja) potessero raggiungerlo, liberandosi dal giogo politico del potere di Mosca.

La ricerca di una “casa” è il fondamentale motore generatore di impressioni visive dell’artista russo; una dimora che travalichi gli spazi fisici per ergersi a luogo universale. Qui possono finalmente dominare i sentimenti della famiglia e del ricordo, soffici e tiepidi come la luce che invade le immagini.

Il lungometraggio Nostalghia ci mostra continuamente gli interni di case, spesso distrutte o vecchissime e cadenti. La pioggia si infiltra nelle intercapedini, mentre i personaggi del film le attraversano. Eppure avvertiamo la presenza calorosa di un nucleo umano, un nido rivelatore di immense verità. Questa caratteristica si ritrova già nella raccolta di Polaroid, in particolare nelle serie scattate durante i sopralluoghi per il film italiano, ma anche nella fattoria di Ignat’evo in Russia.

Nelle didascalie che accompagnano le immagini, l’autore ci racconta, ad un tratto, di un sogno in cui un grande albero vicino ad un monastero prende fuoco dalle sue radici. Il racconto termina con la constatazione che il chiostro senza quell’albero sarà come spento, senza storia. Accanto notiamo la visione fugace di una quercia, oltre il limitare scuro di un portone, accanto ad uno steccato. Nello sfondo un altro arbusto, perso nella foschia mattutina. Un’immagine catturata in patria che evidenzia perfettamente il ruolo giocato, per Tarkovskij, dalle piccole cose quotidiane. Attraverso questi dettagli possiamo sondare, anche in età adulta, la fragranza tutta particolare che avevano le storie della nostra infanzia, quelle che coinvolgono i nostri cari e ci rammentano dove comincia il sentiero che percorreremo per tutta la vita.

Ancora le visioni stupite delle case a Bagno Vignoni, adiacenti a quella piscina che poi concluderà la vicenda del poeta di Nostalghia. In altre pagine compaiono un piccolo cimitero e una fabbrica abbandonata a Civitavecchia, racchiusi da una vallata. Entrambi sono, all’apparenza, grigi e malandati, ma la loro particolarissima posizione rende quel posto un antro magico, tenuto al caldo dalla sapienza delle montagne circostanti.

La luce gioca un ruolo enorme in questo discorso; i raggi incidono le Polaroid e definiscono i contorni delle forme riprese. Il sole si insinua con una tonalità calda, benché pallida; talvolta irradia frontalmente le costruzioni, come nel fotogramma della chiesa di Bagno Vignoni, altre volte atterra lateralmente sul terreno; attraversa le betulle del bosco di Ignat’evo e dipinge le sagome del figlio Andrej e del cane Dak. La luce è onnipresente, si lancia dal cielo in filamenti vivi e cangianti, come ci ricorda lo stesso Tarkovskij, in un verso che accompagna un'altra fotografia. Anche nelle inquadrature più scure e chiuse, c’è sempre un forellino o il vetro rotto di una finestra che accoglie la luminosità dell’esterno ed è proprio in quel punto che il nostro sguardo si posa, volando poi sugli oggetti che ricevono i riflessi.

La particolare rifrazione prodotta dalle sorgenti luminose sull’ottica della Polaroid crea anche lo scontornamento di elementi altrimenti invisibili o eternamente nascosti, come la rugiada del mattino, le sottili ragnatele, il dischiudersi della nebbia. L’acqua è un elemento costante in tutta l’arte russa, a partire dalla tradizione pittorica delle icone (descritta dal lungometraggio Andrej Rublëv) fino ad arrivare ai versi di molti scrittori e poeti, tra cui il padre del cineasta, Arsenij Tarkovskij. Acqua come simbolo di fertilità e come involucro liquido per la nostra anima. Nei film del cineasta spesso notiamo grandi pozzanghere o fiumiciattoli che celano strani oggetti; le reliquie del nostro inconscio, protette in questo modo dai nemici dell’esterno. Nelle fotografie ci appaiono i laghi, che carezzano il profilo di Tapja e del suo immancabile cane, ma anche una costante ed impalpabile presenza liquida.

La luce, l’acqua e la natura morbida, insieme alle presenze di coloro che ha sempre amato; sono questi gli elementi che l’autore russo ha estrapolato dalla realtà per renderci la grandezza del suo mondo interiore. L’arte, secondo lui, era il mezzo che l’uomo poteva utilizzare per avvicinarsi a Dio, e compito di ciascuno era salire almeno un gradino nella scala che porta alla redenzione; la profonda conoscenza delle cose.

L’atmosfera familiare e nostalgica del suo cinema e delle sue Polaroid rimandano alla trama di un’esistenza perseguita nell’eterna ricerca di quella semplicità che può ricondurci ai motivi della nostra infanzia, e ancora a ritroso, al mondo uterino, all’universo che ci ha originato.

È questa la brama che invade le menti delle anime folli che popolano i film del cineasta; uomini semplici che rivendicano stili di vita non manomessi dall’artificio della materialità. C’è lo Stalker che guida i lussuriosi nella Zona alla ricerca dei desideri, senza mai poterne chiedere per se stesso, e poi Domenico, il profeta che alla fine di Nostalghia si erge sopra la statua del Marco Aurelio, a Roma, gridando lo sdegno per quello che definiamo il mondo dei “sani” e, quindi, si dà fuoco.

Tarkovskij era solito portare con se, prima di cominciare a scattare fotografie, una piccola agenda; dentro, legati dalle graffette, teneva vecchie immagini in bianco e nero di sua madre e di suo padre, in divisa militare. Da queste apparizioni che il “tempo” aveva concesso, il cineasta trasse l’idea di un film che percorresse al contrario la storia di un uomo; dalla morte fino alla nascita e ancora oltre. Era Lo Specchio, del 1974. I successivi approcci con la fotografia non sono altro che la continuazione di quel viaggio a ritroso, fino ad arrivare alla casa natale ideale; quella che in Solaris è persa nell’oceano rosso fluttuante e che in Nostalghia è risorta all’interno dell’abbazia di San Galgano.

La casa che ci portano i raggi del sole ogni mattina, quando ci chiamano dalla soglia della finestra, la casa che sogna la figlia dello Stalker, quando, china sul tavolo, muove i bicchieri che la circondano con la telecinesi, in attesa del ritorno del suo amato padre.

 

Claudio Capanna

 



[1] Andrej Tarkovskij, Diari. Martirologio, Edizioni della Meridiana, Firenze 2002, pag. 139.

[2] Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, pag. 55.

[3] Ibidem, pag.58 – 59.

[4] Ibidem.

 

 

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