TRA ISTANZA NARRATIVA E CODICE DIGITALE
su Il regista di
matrimoni (2006, di Marco Bellocchio)
di MARIO LUCIO GENGHINI
Troppo spesso nel cinema contemporaneo l’uso del digitale e di tutta
una serie di costrutti virtuali, che dovrebbero creare “un effetto di realtà”
attraverso una esteriorizzazione simulacrale, corre il
rischio di mettere lo spettatore in uno stato di “libertà vigilata” ove tutto
si dispone e si concentra. Inoltre l’impiego delle nuove tecnologie di
frequente conduce o alla realizzazione di film che seguono stilemi e linguaggi
stereotipati, senza svilupparne quindi le potenzialità, oppure ad un eccesso incoativo, a un estetismo che non ha più nulla
a che vedere con la narrazione, che sollecita all’abbandono emozionale dei
giochi virtuali che vengono proposti. Entrambe le modalità hanno come fine di selezionare e programmare quegli aspetti che si ritengono
utili alla promozione di un edonismo deteriore, ostruendo le nostre capacità
elaborative, e non rendono giustizia alla peculiarità artistica filmica.
Tuttavia c’è dell’altro nel panorama attuale su cui vale la pena riflettere. Ma andiamo per gradi avvalendoci del supporto della
riflessione di uno dei più grandi registi e teorici del cinema.
Ejzenštein nella Teoria
generale di Montaggio (1937) presenta una tripartizione interna non solo
alla storia ma anche, e soprattutto, al concetto di montaggio. Nella prima
fase, di composizione, il montaggio
lavora all’interno dell’inquadratura, nella seconda, sequenziale, il montaggio crea effetti di senso grazie alla
correlazione tra le immagini. La terza fase, sulla quale vorrei soffermarmi è quella audiovisiva.
Con questa correlazione il regista anticipa non solo l’innesto del sonoro nel
cinema, ma anche una fase successiva, che giunge oggi alla sua compiutezza
attraverso l’elettronica. Qui gli effetti di senso si ottengono attraverso quel
rapporto smaterializzato che è lo
spazio–tempo che si apre tra le modulazioni dell’immagine (forma, colore,
movimento, angoli di ripresa) e le modulazioni del suono (rumore, musica,
parola, silenzio). Il montaggio lavora sul duplice livello sequenziale e
simultaneo, creando una forma complessa che mobilita tutti i registri
espressivi del film. Inoltre è opportuno chiarire che tutte e tre le fasi di
montaggio individuate dall’autore sono imprescindibilmente connesse al tema
della rappresentazione del fenomeno e
dell’immagine (che non ha a che fare
solo con l’elemento visivo), intesa come generalizzazione del fenomeno nella
sua essenza. «Esse sono inseparabili
nella loro unità non solo come presenza, ma anche come apparizione e
conversione dell’una nell’altra».
Per rappresentazione dobbiamo dunque intendere l’ordine delle cose,
ciò che è dato, mentre con immagine dobbiamo intendere la decostruzione di
quest’ordine e la sua ricostruzione significante. Ma non solo, come scrive
Pietro Montani in L’immaginazione narrativa: «L’immagine mira a farci risalire fino
a quell’attività originaria che rende possibile la comparsa (il ‘darsi’) di qualcosa in quanto cosa che abbia senso. […] L’immagine, dunque, non è affatto la promozione
espressiva della rappresentazione, è piuttosto il ritorno della
rappresentazione alla sua radice “poietica”». Nel
montaggio audiovisivo il piano della
rappresentazione viene assunto dalla successione sequenziale
delle inquadrature mentre il piano dell’immagine viene assunto dal rapporto tra
rappresentazioni visive e sonore in modo tale che i due piani lavorino
simultaneamente. In questa fase opera il rapporto smaterializzato
spazio–tempo, un’immaginazione
narrativa, così come l’ha definita Montani, che è un andare alle radici del
racconto, è lavorio interminabile, non conclusivo, tra il venire alla presenza
di ciò che è rappresentato e la sua riconfigurazione significante, che richiede
e sviluppa tempo. Questa dimensione temporale si manifesta come pausa, indugio
all’interno della narrazione, mettendo lo spettatore nelle condizioni di
lavorare attraverso molti registri, ed è costitutiva ad un’apertura ad esiti imprevedibili. Secondo Montani una certa cinematografia,
di cui Ejzenštein è uno dei massimi rappresentanti, ci fa sentire questo
processo immaginativo ove possiamo riscontrare lo specifico della narrazione
filmica oltre–letteraria, ovvero di una narrazione che non è traducibile con gli
schemi e le categorie della letteratura.
Alla luce della riflessione del regista russo, voglio ora tentare di
accennare a come oggi sia possibile riformulare il concetto di condizione
immateriale dello spazio–tempo, rimodulandolo all’interno delle esigenze
dettate da un cinema multi–mediale, spettacolare, e di spiegare perché
queste si inseriscano in un progetto di
riqualificazione estetica.
Molti sono gli esempi che potrei citare, di opere che rimettono in
questione l’immagine visiva pervasiva, da Kiarostami a Von Trier, da Higgins a
Greenaway, da Lynch a De Palma. Scelgo di soffermarmi su alcuni passaggi del Regista di matrimoni (2006) di Marco Bellocchio.
Riassumo brevemente la trama. Un regista, Franco Elica, entra in crisi
creativa perché non riesce a girare l’ennesima versione dei Promessi sposi. Così decide di interrompere il lavoro e si reca in
un paesino della Sicilia, dove incontra un uomo che si guadagna da vivere
girando filmini di matrimoni e un regista che si spaccia per morto per ottenere
finalmente il riconoscimento mai avuto prima “in vita”. Conosce anche il
principe Ferdinando Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone
di dirigere il film del matrimonio di sua figlia,
Bona. Questa aveva già provato ad incontrare il
regista a Roma, volendo partecipare ad un provino per il film tratto dall’opera
manzoniana, ma non era riuscita nel suo intento perché costretta a fuggire a
causa dell’irruzione di body-guards (che si paleseranno come ripresentazione
dei bravi del Manzoni) che vogliono ricondurla al suo “destino” matrimoniale.
Franco si innamora immediatamente della bellissima
principessa e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza. Questo
riassunto è volutamente lacunoso, ma lo è perché siamo dinanzi ad un film
irriducibile ai canoni della tradizione letteraria. Questo non vuol dire che
Bellocchio rinunci a narrare, ma lo fa secondo la specificità dello strumento
filmico che ho precedentemente menzionato. Non
proponiamo qui un’analisi esaustiva dell’opera, ci limiteremo a riflettere su due
sequenze, o per lo meno su alcuni elementi di queste: la prima è l’incontro tra
Franco e Bona nella chiesa di Sant’Orsola; la seconda è quella iniziale quando
il protagonista assiste alla cerimonia nuziale di sua figlia.
1.
Franco Elica si reca nella chiesa indicatagli dal principe di Gravina
per osservare Bona, così da poter trarre ispirazione per il film del matrimonio
della ragazza. Al termine della funzione i due incominciano a parlarsi
teneramente. Elica viene a sapere da Bona che si trova dinanzi la ragazza che è
scappata via prima di fare il provino per I
promessi sposi; Micetti il suo assistente gli aveva accennato qualcosa a
riguardo. Bona racconta al regista che da bambina leggeva spesso l’opera del
Manzoni alla madre malata e che per non annoiarsi giocava a trasformarla, ad immaginarla in tanti altri modi. La ragazza, dopo la
morte della madre, confessa di essersi “addormentata” e di aver perso quella
capacità di immaginare. Ma una volta venuta a conoscenza che Elica voleva
girare un film sui Promessi sposi si era precipitata a Roma per incontrarlo,
convinta che la sua vita potesse ancora cambiare. «Ma si vede che era destino», conclude con amarezza la ragazza, e Franco le fa eco.
Bona si alza e scompare dietro una porta che da accesso alla cripta della
chiesa. Elica la segue a tentoni, quasi sonnambulo. I
due incominciano a baciarsi, mentre si possono udire una serie di rumori e il
soffiare del vento, appena accennato, che conferiscono un senso enigmatico e di
sospensione a quanto sta accedendo. I due si addentrano nella cripta, dando
luogo ad una sorta di inseguimento danzante.
Continuano a spostarsi e a baciarsi, come se dovessero trovare il luogo giusto
dove abbandonarsi alla passione. Tutto ciò viene filmato dall’alternarsi del 35mm a colori e il bianco e nero delle videoamere
di sicurezza a circuito chiuso, di cui Bellocchio fa largo uso nel film, che
riprendono i due ma mai nell’atto del baciarsi. Ad un
certo punto vediamo, attraverso l’inquadratura di una delle telecamere di
sicurezza, uscire fuori campo i due, che da quel momento saranno ripresi solo
in 35mm. Elica e Bona continuano a baciarsi, lei si china, uscendo fuori
dall’inquadratura che rimane su Franco di spalle e a questo punto accade
qualcosa…
Si susseguono due inquadrature che raddoppiano gli spazi della cripta
nei quali avevamo visto prima i due, ma questa volta senza di loro. Le
inquadrature vengono offerte alla nostra visione
ancora con le telecamere di sicurezza, mentre percepiamo il soffiare del vento
che si è fatto intenso. Fermiamoci qui, in questo punto. Cosa
sta accadendo? Bellocchio ci trattiene per alcuni interminabili secondi su
queste inquadrature, ci distoglie dall’azione e ci pone in una pausa. Quanti
schemi di intelligibilità, quante modalità ricettive
siamo chiamati a mobilitare? Cosa sta accadendo in
campo e soprattutto cosa sta accadendo fuori campo? Bona sta forse compiendo
quell’atto di sottomissione sessuale nei confronti di Franco, suggeritole
dall’assistente del regista, Micetti, a Roma? (che,
forse, ordisce un complotto contro Elica, sollecitando le attrici che devono
sottoporsi ai provini a proporsi “liberamente”, in maniera naturale, per una
fellatio, così da provocare una denuncia per molestie sessuali). Si sta,
dunque, rompendo quel sofisticato gioco erotico che si
andava delineando fra i due? La nostra capacità di rielaborare in questo
passaggio sta lavorando ad un tempo tra
campo–digitale e fuori campo, tra il soffiare del vento extra diegetico e
il silenzio della cripta, tra bianco e nero e colore. In questo momento ci
siamo collocati in quello spazio–tempo smaterializzato descritto da
Ejzenštein, tra il venire alla presenza di ciò che è rappresentato e la
sua riconfigurazione significante che richiede e sviluppa tempo. Ma c’è qualcos’altro. Bellocchio rende funzionali alla
narrazione filmica, oltre–letteraria, le telecamere di sicurezza, che
dovrebbero penetrare così prepotentemente la realtà da farci vedere anche al
buio, rovesciandone la matrice. Quelle inquadrature infatti non possono rendere testimonianza del dramma erotico–esistenziale di Bona
ed Elica. Eppure nell’articolazione del montaggio audiovisivo, costituito
dall’intreccio di campo e fuori campo, visibile e
invisibile, dall’interazione di effetti sonori, noi vediamo attraverso di esse
distogliendoci da esse, non più cristallizzati all’interno di un’immagine
controllata, quanto sterile. Quando l’azione riprende, di nuovo a colori in 35mm, vediamo Elica tirare su Bona, che ritorna così in
campo, e baciarla timidamente. Adesso siamo certi che la ragazza stava cercando
di compiere quell’atto di sottomissione nei confronti di Elica, ma non c’è
niente di risolutivo in ciò, rimaniamo in uno stato di incertezza,
modulata sulle espressioni dei volti dei due. Rimangono degli interrogativi:
Bona avverte ciò come un rifiuto? O cercava il rifiuto? Stava mettendo alla
prova Elica? La sequenza termina con la ragazza che scappa e Franco che rimane immobile, ma quella fuga appare enigmatica. E lo è ancora di
più perché ripresa ancora una volta con una videocamera di sicurezza, che a
questo punto non assicura più nulla, perché non ci restituisce nulla di quanto
sta accedendo, lasciandoci in un orizzonte di indecidibilità
rispetto agli eventi. Bellocchio con questa sequenza ci fa risalire alle radici
del racconto ponendoci in un territorio liminare tra tecnologia e istanza narrativa.
2.
Questo tema si ripropone, e non solo, nella
sequenza iniziale, quando Elica nel corso del matrimonio della figlia, filma il
volto di lei con una videocamera digitale. Ma il volto
della figlia, è pietrificato, dietro il velo dell’abito da sposa (e
dall’immagine stessa). Il regista si avvicina con la sua videocamera sempre di
più, quasi sprofondando nell’immagine immersiva.
Qui Bellocchio sceglie di filmare operando un raddoppiamento visivo, alternando
le immagini del volto della promessa sposa filmate con la videocamera e quelle
in 35mm di quello stesso volto e del padre che lo sta
filmando. Si crea un gioco di discontinuità tra le immagini riprodotte da Elica
in digitale e quelle che ce lo fanno vedere nell’atto
di filmare, producendo così una sorta di distanza rispetto al supporto
tecnologico che il protagonista sta usando. Elica, inquietato, da quel viso
algido, chiama sua figlia: «Chiara rispondi, ma non mi senti?», ma lei rimane
imbalsamata, anestetizzata, quasi a configurare l’istanza spettatoriale distratta ed intrappolata nei dispositivi mediali. A questo punto
Franco compie un gesto di ribellione, solleva il velo della figlia con impeto
come a volerla rianimare, sollevando così il velo anche su quelle immagini
pietrificate che aveva appena filmato. Una selva di fotografi e regesti si avventa su Elica, a sottolineare il gesto doppiamente scardinate che rompe la
partitura sempre uguale del rito matrimoniale e dei film sui matrimoni. Sarà
solo in questo momento che la figlia riconoscerà suo padre, rianimata,
restituita ad una vitalità espressiva.
Bellocchio articola le due sequenze che abbiamo presentato, così come
l’intera opera, come un film di storie potenziali che s’intrecciano. In questo
modo il regista non rinuncia a narrare, ma non sceglie una mimesi forte, perché in essa vi rimane sempre un elemento non
decodificabile che agisce nella storia e nella configurazione dei personaggi.
Il finale, o se volgiamo i tre finali, del
film rovesciano il senso della celebre frase manzoniana, «questo matrimonio non
s’ha da fare», perché da interdetto si trasforma in affermazione creativa. Il regista di matrimoni è la storia di
matrimoni potenziali che mai si concludono, perché i
suoi protagonisti sono liberi da qualsiasi assoggettamento, in quanto si
ribellano all’adempimento di un destino. Inoltre, l’intreccio dei tre finali
possibili su cui le videocamere a circuito chiuso non intervengono più, ci
colloca in un orizzonte di apertura, di imprevedibilità,
ci fa sentire un cambiamento profondo nel modo di percepire ed elaborare.
Questo film, a nostro avviso si colloca in un confine poietico. Crea senza mai cadere
nell’eccesso incoativo o di rappresentazione, di anestetizzazione o di ipersollecitazione. È riconfigurazione
temporale che ci distoglie dal flusso della rappresentazione, facendoci
indugiare in un territorio di confine ove si mobilitano un’ampia gamma di modalità di intelligibilità e ricettive. È un film più che
interattivo, forse sarebbe opportuno dire dialogico nel senso radicale del
termine (dià-logos). Produce una distanza costruttiva tra noi e ciò che vediamo. Infine potremmo
definirlo un’ascetica, una pratica,
che istruisce un’interrogazione profonda sui dispositivi tecnici e
spettacolari. Infatti, questi non vengono rigettati
come alterità irriducibile ma vengono resi immanenti al progetto narrativo ed
artistico. Questa ascetica, che è simultaneamente prassi e interrogazione
critica, raddoppia il codice
digitale, tecnico e spettacolare, rapportando i dispositivi al loro limite costitutivo, alla loro impossibilità ad accedere a
una totale visibilità del mondo della vita, riattivando così l’aisthesis, non più frustrata nel selezionare
solo quegli aspetti “utili” dell’universo materiale.