IL POTERE DELLE BUGIE
su Una
separazione (2011, di Asghar Farhadi)
di MASSIMO SCALVINI
Nader
(Peyman Moadi) chiude una porta ed esclude la propria figlia Termeh (Sarina Farhadi, figlia del registaproduttoresceneggiatore del film) dal
dialogo che sta avendo con la moglie Simin (Leila Hatami), da cui si sta
separando per volere della donna. Se volessimo dare un significato simbolico a
questo gesto verrebbe spontaneo attribuirgli il valore di esclusione del
Futuro, la figlia, dalla conoscenza della verità. Ma la verità che il film ci
racconta è sempre ellittica: vetri opachi e porte si chiudono per escludere qualcuno
dalle parole che si dicono. La parola è il centro nevralgico: buona parte delle
accuse rivolte a Nader si concentrano sulla dimostrazione che lui abbia sentito
o meno le parole di Miss Ghahraii (Merila Zare'i), l’insegnante di Inglese di Termeh. L’ellissi visiva
invece si applica ai due episodi centrali della vicenda: lo scontro tra Razieh
(Sareh Bayat), la donna che era stata assunta da Nader per curare il vecchio
padre (Ali-Asghar
Shahbazi) malato di Alzhemeir, ed
un’automobile, e l’effettiva portata della spinta data alla donna da parte dell’uomo
quando la caccia per aver abbandonato suo padre da solo in casa, legandolo al
letto. Lo spettatore è costretto ad un continuo slittamento interpretativo, ad
una continua risignificazione di ciò che accade che è anche una riassegnazione
di valore e di senso ai concetti morali di verità e giustizia – anche
sociale.
La separazione di cui parla il titolo è anche
quella interna alla diegesi, tra i vari personaggi, significata dalle barriere
fisiche che si creano, soprattutto nella scena finale in cui i due coniugi sono
ormai divisi, seduti immobili, separati da un porta a vetro di passaggio,
ignorati dalle persone che continuamente camminano in quel corridoio e appesi
alla decisione che la giovane figlia deve prendere. Ma è anche la separazione tra chi vede e non sa e i
protagonisti che sanno e non dicono. Ed è una separazione di sguardi che non si
incrociano più. Come nell’ascensore, in ospedale, quando Simin e Nader, pur in
uno spazio esiguo, guardano in direzioni diverse. Oppure nella scena finale: la
donna guarda il marito attraverso il vetro mentre lui ha lo sguardo rivolto di
fronte a sé e, quando è lui a girarsi verso Simin, lei gira il capo altrove.
Anche quando c’è un’alternanza di inquadrature costruite sul raccordo degli
sguardi si ha sempre la sensazione che ci sia uno spazio immenso tra i
personaggi e che lo sguardo si perda in questo spazio; oppure sono i vetri, le
porte, le finestre, i posti occupati in automobile a dividere. Il film è pieno
di barriere visibili tra personaggi che ormai si sfiorano non riuscendo mai più
ad incontrarsi, si lasciano vincere dall’isolamento su posizioni precostituite:
l’ostinazione di Nader nel difendere il proprio punto di vista anche a costo di
tradire la fiducia della figlia, la difesa della scelta di separarsi dal marito
di Simin, l’integralismo religioso, si direbbe superstizioso, di Razieh –
che comunque ha paura che la punizione divina si scateni sulla figlia.
Il
rapporto tra spettatore e personaggio è centrale nella dialettica etica tra la
parola/dissimulazione e la parola/verità. Sotto l’aspetto metaforico è facile
individuare una profonda, proprio perché mai esplicitata, critica all’Iran
moderno. Nella sequenza iniziale il giudice rimane fuori campo, è un àcusma e
come tale gli ì«vengono attribuiti, nell’immaginario cinematografico,
l’essere-ovunque (ubiquità), il vedere-tutto (panottismo), il sapere-tutto
(onniscienza) e il potere-tutto (onnipotenza)». Egli
vuole conoscere il perché Simin voglia andarsene, perché ritenga di non avere
un futuro in quel paese: è la voce del Potere che pretende di controllare le
vite dei propri sudditi, che non concede critiche, che giudica senza accordare
replica. Tant’è che la donna non risponde, perché sa che non le è permesso. Cerca
di sostenere che il problema sia il futuro della figlia e per farlo si alza e
si avvicina al giudice fino a far coincidere lo sguardo verso l’uomo/àcusma con
uno sguardo in macchina e, agli spettatori, rivela quello che sembra il nodo
cruciale del film: il futuro delle nuove generazioni. Il giudice decide
d’imperio che il problema dei due coniugi sia di poco conto e consiglia alla
donna di mettere a tacere qualsiasi aspirazione al cambiamento e di tornare
alla vita di sempre.
Il padre avrà un atteggiamento distaccato, di strumentalizzazione
affettiva nei confronti della figlia, molto spesso autoritario e umiliante, ad
esempio nella scena del distributore di benzina. Sembra essere disinteressato
alla reale portata che ha per la giovane il suo non voler minimamente indietreggiare
dalle proprie posizioni e, in modo vigliacco, delega alla figlia decisioni che
dovrebbero essere sue, per farla sentire responsabile e quindi colpevole del
futuro della coppia. Al punto che la giovane imparerà dal padre a fingere di
fronte ad un giudice: quando Termeh scopre che il padre ha mentito sul fatto di
sapere o non sapere se Razieh fosse incinta lo asseconda negando che l’uomo
conoscesse questo fatto.
Tra la figlia e il vecchio padre, Nader sceglie di difendere il
vecchio che ormai non comunica più, che non sa riconoscere i propri figli –
anche se i figli continuano a riconoscere il padre –, continua cioè a
sentirsi legato a un Potere che ormai non ha più nulla da dire, perché reso
sterile dall’arroganza di figli inetti, incapaci di andare oltre le formalità,
che lo difendono per partito preso.
L’unica persona
che il vecchio riconosce e che desidererebbe restasse è Samin. La donna che
vorrebbe cambiare le cose con un gesto eclatante, ma che si rivelerà inutile di
fronte alla chiusura e alle accuse pretestuose di Nader.
Il vecchio malato
di Alzheimer sa riconoscere nell’abbandono di Samin la pericolosità per
l’equilibrio della famiglia, e quindi di un’intera società. Nader no.
In una delle
scene più significanti del film il vecchio padre tiene con la mano il braccio
di Samin per impedirle di andarsene, ma, in un piano della scena, dell’uomo
malato di Alzheimer vediamo solo la mano, il resto del corpo è fuori campo: una
presenza assenza forte perché carica di legami storici, culturali e
affettivi, debole perché malata,
ingombrante perché di ostacolo alla libertà.
Diversa la
posizione di Nader che continua a pensare che sarebbe stato un fatto
temporaneo, che la moglie sarebbe tornata o che comunque si arrocca dietro le
sue posizioni senza avere il coraggio di chiedere alla moglie di tornare,
almeno per il bene della figlia.
Quando
il vecchio chiede a Samin dove stia andando, la donna pronuncia la prima bugia
del film – che si rivelerà una bugia nel momento in cui abbandonerà
definitivamente il marito, perché nelle sue intenzioni il distacco doveva
essere temporaneo – dicendo che se ne sarebbe andata solo per pochi
giorni. Il film si costruisce sulle bugie. Anche visive, quando ci viene negata
la possibilità di sapere come effettivamente sia andata la vicenda della spinta
o dello scontro con l’automobile. Immagini e parole sono costantemente
ellittiche e menzognere: Nader che nasconde di sapere che Razieh fosse incinta,
Razieh che nasconde al marito il suo lavoro e non rende noti subito i suoi
dubbi sulla reale causa della perdita del figlio, l’insegnante di Inglese che
tenta di usare la piccola figlia di Razieh per accusare falsamente il marito
della donna, la nuora di Razieh che non dice nulla al fratello riguardo al
lavoro che lei stessa le ha procurato, Samin che non rivela a Nader di conoscere i dubbi di Razieh, Termeh che
difende con una menzogna il padre di fronte al giudice.
Chi paga
le conseguenze di questo circolo viziato sono: la giovane Termeh che viene
corrotta dalla negligenza etica del padre e vedrà i suoi genitori separarsi
definitivamente – mentre lei restando col padre e difendendolo cercava
disperatamente di tenerli uniti – e Hojjat (Shahab Hosseini), marito di Razieh, che è sempre all’oscuro di
tutte le vicende e tenta ostinatamente di difendere la propria dignità
continuamente frustrata dalle sue vicende personali. L’uomo ha perso il lavoro,
è coperto dai debiti, continuamente vessato dai creditori, sempre sull’orlo di
una crisi di nervi, sedato dagli psicofarmaci, umiliato dal giudice, costretto
ad accettare il denaro di Nader per disperazione, ancora una volta mortificato
dalla moglie di fronte ai creditori. Un povero disperato che il Potere
costringe alla disperazione, ma che rappresenta la parte migliore, più onesta
del film e che induce chi guarda a riflettere su come il Potere costruisca la
propria esistenza sulla depressione continua e sadica delle forze umili e rette
della società, coadiuvato dagli inetti (Nader), dai paurosi (Samin), dai
superstiziosi (Razieh).
Termeh
viene confusa dall’ambiguità del padre che prima afferma che «ciò che è
sbagliato è sbagliato, chiunque lo dica e dovunque si scriva» e poi afferma il
falso di fronte all’autorità. Ma probabilmente quella frase le fa capire che
anche il padre può essere messo in discussione e poiché nemmeno la prova di
fedeltà maggiore – la bugia – lo spinge a trovare l’umiltà di
chiedere alla madre di tornare, Termeh decide di abbandonarlo e seguire la
madre. Almeno temporaneamente, perché il film si chiude con la giovane posta di
fronte al giudice, i genitori allontanati dalla scena, ormai eticamente distanti
da Termeh, e lei sola con una decisione immorale da prendere. Non tanto perché
debba scegliere se vivere col padre o con la madre, ma perché deve scegliere
tra due opzioni entrambe ingiuste: perpetuare il potere corrotto delle bugie
del padre o assecondare la fuga paurosa della madre?