PARANOID
PARK VISTO UN SABATO POMERIGGIO
COME UNA TELA DI GEORGE SEURAT
su Paranoid Park (2007, di Gus Van Sant)
di FLAVIO DE MARCO
C’è
sempre uno spazio intero, che già esiste nella
sua totalità,
sul quale
sono tracciati i simboli e le immagini utilizzando soltanto
la
porzione di spazio necessaria. Accanto al modello familiare del tempo
pre-registrato
che si svolge su un tracciato lineare,
ne esiste
un altro parallelo, collegato con la tecnologia moderna.
Bill
Viola, 1982
Nel film Paranoid
Park, non appena superati i 45 minuti di visione, si vede l’immagine del
protagonista, Alex, che fa la doccia nella casa del suo amico Jared, poco dopo
l’incidente che lo ha visto coinvolto nella morte di una guardia ferroviaria.
La sequenza dura poco più di 2 minuti ma si presenta come un condensato
dell’intera pellicola, come unità filmica da cui ogni sequenza precedente e
successiva si riorganizza attraverso la temporalità-matrice di quest’ultima. È
evidente fin da subito come non c’è allineamento tra il tempo della scena
filmata, la doccia, all’apparenza di raccordo tra due eventi, la morte della
guardia e il ritorno di Alex a casa dei genitori, e il tempo che la sequenza
occupa nella durata totale del film. Gus Van Sant esplicita in questa sequenza
il nucleo del suo cinema, visibile fin dai primi minuti ma culminante nella
ripresa della doccia, e, rovesciata ogni tentazione narrativa, apre un discorso
sul cinema come persistenza dell’immagine e non come sequenza delle scene, un
discorso dove il montaggio è sempre minato, e in qualche modo rimontato, dalla
dilatazione dei singoli piani-sequenza. Questa sequenza-matrice mostra
semplicemente un getto d’acqua su una testa reclinata, ma l’immagine sembra
perdere qualsiasi rapporto con quello che la precede e la succede. L’immagine
sembra esistere in sé e rimandare ad un altro tempo, un tempo in cui l’uso del
ralenti sottolinea l’appartenenza. Ritengo, non solo nella sequenza della
doccia ma nell’intera pellicola, che difficilmente si possa parlare di ralenti
per come normalmente viene utilizzato, inteso cioè come dispositivo che tende a
marcare la narrazione, quanto si tratti piuttosto di una dilatazione del tempo
che si fa tanto più necessaria quanto più non descrive, riferendosi più a sé
stessa che alla storia di cui sembra essere un approfondimento. Quindi non più
un dispositivo che s’inserisce in un’azione in tempo reale ma realtà senza
tempo per cui quell’azione può essere percepita come altro dal reale. In breve
l’uso del ralenti da parte di Gus Van Sant non è mai una tecnica ad effetto
inserita nel tempo del racconto, come a evidenziare una maggiore prossimità tra
spettatore e storia. Qui è l’intera narrazione ad essere strutturalmente
rallentata (o accelerata), nel senso che il tempo reale in Paranoid Park è sempre lo spazio orizzontale di raccordo tra la
verticalità temporale delle immagini su cui lo sguardo si apre come durata. E
come se in virtù di questa durata il film si leggesse come un percorso di
cavità di grande diametro, le sequenze isolate, collegate l’una all’altra da
sottili strisce di spazio interposto, la continuità in tempo reale della
storia. Così la prima cavità è la corsa accelerata delle auto sul ponte nella
prima sequenza del film, mentre l’ultima è il sonno di Alex di fronte al
microscopio della scuola che genera visioni in super 8. Ma restando sulla
sequenza della doccia, la sequenza-matrice, ci si accorgerà che l’immagine
contiene ancora un altro livello, ovvero che la sua relazione non è soltanto in
un rapporto di distanza dal resto della pellicola ma va anche ad investire lo
stesso autore che la sta generando. Nella scena difatti la figura, la testa di
Alex, e lo sfondo, la cabina-doccia, passano da un rapporto di nero su nero ad
un altro di nero su bianco nella stessa unità spazio-temporale, l’interno di un
bagno illuminato a luce elettrica. In questo modo, modificando l’esposizione
fotografica nel mentre della ripresa, l’immagine slitta da ciò che stiamo
vedendo nel film a ciò che si sta rendendo visibile in quanto film. Van Sant
mantiene così in equilibrio l’arte e il discorso sull’arte attraverso una
scelta metalinguistica esibita nello stesso farsi dell’opera, scartando
un’immagine parallela o in aggiunta, come, ad esempio, l’ingresso in campo di
microfoni o l’allargamento del campo ad includere l’immagine stessa del
regista. Questo utilizzo discreto del metalinguaggio chiarisce, a mio avviso,
l’atteggiamento con cui il regista utilizza il resto dei dispositivi filmici,
ralenti e fuori fuoco (quest’ultimo nelle due declinazioni tra soggetto e
spazio, Alex che sale sulle scale mobili del centro commerciale, e tra soggetto
e soggetto, nel dialogo con il padre) ma anche l’assenza spesso del sonoro (nei
corridoi della scuola) o la sua presenza isolante (la musica di Amarcord nel
dialogo con Jennifer), nel senso di una logica della visione che rifiuta il
sensazionale per il sentimentale. (A proposito di sonoro verso la fine della
doccia al suono dell’acqua si sovrappongono dei cinguettii di uccelli.
Provengono forse dagli uccelli rappresentati in trompe-l’oeil dove finiscono le
mattonelle alle spalle di Alex?). A questo sentimento partecipa direttamente
anche l’autore, esponendosi in prima persona attraverso l’artificio
tecnologico, attraverso il suo essere di fronte alla scena che sta filmando,
esponendo continuamente il cinema e i suoi mezzi, il cinema nel suo svolgersi,
come se all’improvviso apparisse nella parte bassa dello schermo un sottotitolo
con il nome di Gus Van Sant e il giorno e l’ora in cui ha eseguito la scena,
come fu all’epoca di Jan Van Eyck nella casa dei coniugi Arnolfini.
A questo punto, considerando Paranoid Park come un costante equilibrio tra linguaggio e
rappresentazione, potremmo valutare il film come il risultato di una sorta di
“divisionismo cinematografico”, il prodotto di una tecnica in cui le unità
linguistiche del cinema si organizzano costantemente nella struttura del film,
mentre il film, di contro, non fa che ritornare sempre ad esse. Quando
nell’anno 1885 George Seurat dipinge i borghesi parigini sulle rive della
Grande-Jatte, presenta sostanzialmente un’idea della pittura attraverso una
rappresentazione pittorica. Non fa astrazione ed è assolutamente lontano da
ogni realismo. La sua opera abita nel mezzo, nel rovescio dei due termini verso
un terzo. L’immagine dipinta appare dal continuo gioco tra la pennellate
ridotte ad unità elementari e discontinue e l’aggregazione di queste singole
unità nella complessità e continuità dell’immagine, attraverso la fusione
ottenuta sulla retina dello spettatore. «»È interessato non tanto alla realtà,
nelle sue forme finite, e nemmeno al procedimento percettivo, istantaneo e
bruciante, che era alla base dell’opera di Monet, quanto all’analisi degli
elementi linguistici di base e alle regole della loro organizzazione: il quadro sembra perdere di peso, si
assottiglia, lasciando intravedere, in trasparenza, la griglia strutturale
della pittura» (F. Menna, 1975).
L’impressionismo, poiché troppo sbilanciato verso la percezione retinica,
risulta quindi insufficiente ad un discorso sulla rappresentazione in grado
mantenere, sul medesimo spazio, un’immagine e la sua costruzione, il quadro e
la pittura, e, nel caso di Van Sant, il film e la pellicola. Bisogna ricorrere
ad un metodo differente, il divisionismo in questo caso, un metodo apparentemente
scientifico, per poi, con piena consapevolezza, approdare all’opposto del
metodo scelto, negando l’analisi sulla stessa superficie, attraverso la
fisicità dell’immagine dipinta. Nel caso della Grande-Jatte qualcosa è in grado
di superare anche la tensione tra il quadro e la pittura, qualcosa che non abita
né la tecnica né lo spazio, una sostanza emergente dalla sensazione temporale
che l’immagine manifesta attraverso il modello scelto, una domenica di sole
sulle rive della Senna. Nel dipinto il tempo dell’immagine non è che l’assenza
di tempo, la possibilità che il “brano di vita” si trasformi in una scenografia
irreale. Le figure sono congelate e isolate sulla tela, sembrano non avere
alcuna relazione l’una con l’altra. Il borghese con il cilindro e la donna con
la gonna rialzata in primo piano sembrano negare la loro stessa prossimità,
come dichiara il loro sguardo assente. Come queste due, tutte le restanti
figure nel dipinto sembrano raccolte in uno stesso spazio per testimoniare la
reciproca invisibilità, partecipano della medesima assenza, così come il
paesaggio stesso, il prato, gli alberi e il fiume, sembrano elementi innestati
nell’artificiosa tranche de vie di una realtà mai vista. L’impressione è che il
paesaggio e le figure rispondano ad una logica isolante che gioca di sponda con
le micropennellate che li presenta come figure dipinte e non come icone
dell’immagine. La Grande-Jatte, truccata con il sole e gli ombrellini, scopre
lentamente, nel tempo di uno sguardo prolungato, l’angoscia del suo vero volto:
la doppia incomunicabilità consumata tra figure e paesaggio e tra figure e
figure. La Grande-Jatte è una zona ad alta tensione popolata da fantasmi, la
versione diurna di Paranoid Park, dove skaters e borghesi si ritrovano per un
contratto di felicità a tempo determinato. Le due zone si toccano
nell’astrazione dei percorsi circoscritti, intorno ad una riva o ad una rampa,
e si sovrappongono nel comune traguardo verso l’incomunicabilità. L’ultimo
abitante di Paranoid Park, Alex, è seduto sullo skateboard a contemplare le
salite e le discese di uno spazio che non percorrerà, la cui accessibilità è
interdetta dal suo scollamento verso un quotidiano in cui non è mai
protagonista. La figura in primo piano sulla tela di Seurat, la donna con la gonna
rialzata e l’ombrello, fissa un orizzonte al di fuori dello spazio di
rappresentazione, per ritrovarsi nel memento mori della vita di tutti i giorni.
I ragazzi di Portland si ritrovano come i borghesi parigini nel recinto di un
paesaggio artificiale in cui si muovono senza nessuna direzione, dove gli
skates e gli ombrelli sono le protesi per attraversare il giorno e la notte di
una quotidianità che ha perduto la memoria del presente. Gli spettri diurni
della Grande-Jatte si equivalgono nella loro reciproca assenza, vestiti di
tutto punto espongono l’eleganza del lutto, del cadavere che non giace ancora
nella bara ma è già prossimo alla decomposizione. Gli spettri notturni di
Paranoid Park differiscono nella loro reciproca indifferenza, armati degli stessi
strumenti lottano per la conquista di una comunicazione senza parole, guerrieri
urbani non ancora muti che hanno perso il sentimento del gesto di conquista.
Se nella Grande-Jatte il tempo del quadro è
l’effetto di uno sguardo prolungato che rovescia la luminosità del paesaggio
nella penombra della vanitas o della natura morta, in Paranoid Park il tempo del film è l’effetto di un montaggio che
descrive in 35 mm e in super 8 una lacerazione progressiva, ma si riserva dal
rappresentarne lo strappo finale. Nelle due opere il tempo lavora per una
costruzione della sospensione, stringendo personaggi e paesaggio in una
reciproca esclusione. In Paranoid Park il montaggio ricorsivo torna ripetutamente sulle medesime scene e, invertendo
le unità di tempo, rilascia ad ogni incursione nuovi particolari della storia,
approfondendo il già visto senza procedere verso una conclusione. Dopo 15
minuti di visione riappare la scena iniziale del film, l’inquadratura è molto
simile, si vede Alex in casa con lo zio, ma la scena simula soltanto una
ripresa della storia da quel punto narrativo, per poi svelare una differente
unità temporale. Dopo il trentesimo minuto il regista ripete ancora una volta
un’inquadratura già vista, Alex che scrive su un quaderno il nome di Paranoid Park,
ma anche questa volta il protagonista si trova in un luogo diverso da quello
precedente. Difatti, successivamente, vediamo Alex che ritorna dalla panchina
su cui è stato seduto a scrivere e cammina verso la città, ha il mare alle
spalle, e la scena è simmetrica ma opposta a quella vista in precedenza, quella
in cui Alex cammina nell’erba andando verso il mare, per andare a scrivere
sulla panchina, mentre si lascia la città alle spalle. La sequenza è stata
tagliata in due parti e nel mezzo Van Sant ha mostrato fatti che la linearità
del racconto non ha ancora svelato. Ma il dispositivo narrativo del film cresce
e si nutre di variazioni sul tema, il tema appunto del tempo e della sua
differita. La scena in cui si vede, per una sola volta, la morte della guardia
sui binari è compresa ancora in una sequenza spezzata. In questo caso si tratta
dell’interrogatorio collettivo nella scuola, che nella storia precede quello in
cui Alex è interrogato da solo ma che nel film vediamo per secondo. La
differenza con l’altra sequenza, quella in cui Alex scrive sulla panchina,
concerne la dilatazione dei medesimi registri: il tempo filmico considerato
nella sua durata oggettiva e il tempo della storia considerato come esposizione
lineare dei fatti. Nella sequenza in cui Alex scrive sulla panchina, il tempo
filmico che trascorre tra le due parti spezzate è maggiore rispetto alla
sequenza dell’interrogatorio e comprende nel mezzo l’esposizione di fatti non
direttamente legati alle due parti, nel senso di un rapporto di causa-effetto
non immediato, come nel caso di un interrogatorio per omicidio e della morte di
una persona. Nella sequenza in cui Alex è interrogato con i compagni di scuola,
il tempo filmico tra le due parti è molto più breve e nel mezzo il regista ci
fa vedere, per una volta soltanto, la notte della morte della guardia. Questa
variazione linguistica determina automaticamente un significato differente.
Mentre nei fatti compresi nella sequenza spezzata della panchina si tratta di
realtà narrate in ordine di tempo differente, non siamo più sicuri se la scena
della morte della guardia è un ricordo di Alex durante l’interrogatorio oppure
se è la realtà così come si è svolta. Lo sfalsamento non è più tra realtà e
realtà ma realtà e memoria e ciò che determina lo slittamento dei piani è, in
entrambi i casi, proprio il tempo filmico che intercorre tra i due spezzoni e i
fatti che questi due comprendono all’interno come ulteriori parti della storia.
A questo punto l’immagine della guardia che trascina con le braccia la metà del
proprio corpo amputato potrebbe non essere quello che realmente è accaduto ma
piuttosto quello che Alex sta ricordando, ovvero qualcosa che è molto prossimo
a ciò che è accaduto ma distorto nella ricostruzione terrorizzata del
protagonista. In breve, l’amputazione della guardia potrebbe non esserci mai
stata, nonostante poi la guardia sia realmente deceduta. Da una comparazione
delle due sequenze si evince la sostanza dell’opera, ovvero la mancata
corrispondenza tra realtà percepita e realtà vissuta, tempo reale e tempo
filmico, l’incongruenza in cui dimora lo sguardo come soglia del visibile, quel
baratro in cui il pre-registrato non è quasi più contiguo al tempo reale ed il
tempo reale è già prossimo alle chirurgie isolanti del registrato. Van Sant descrive
questa modalità in modo esemplare nella scena in cui Alex è in macchina. Qui si
vede Alex che ride, all’esterno piove poco, non c’è musica, poi il regista
spezza il piano unico per saltare in avanti, e si vede Alex, sempre in
macchina, cupo in volto, la pioggia intensa sul parabrezza e la musica
all’interno dell’abitacolo. L’effetto è come di aver saltato alcuni fotogrammi,
come se la realtà procedesse per addizioni discontinue. Tra la realtà percepita
dai personaggi dei film e la realtà filmata dal regista, affiora la realtà
dell’immagine rappresentata nello spazio necessario della macchina da presa,
come puntuale abbandono di un presente visibile, ovvero come visibilità
restituita al presente soltanto attraverso una costante dialettica tra memoria
e origine, anacronismo deformante che riformula di continuo l’apparire
dell’immagine. «C’è una struttura che agisce nelle immagini dialettiche, ma non
produce forme ben formate, stabili o regolari: produce forme in formazione,
trasformazioni, dunque effetti di perpetue deformazioni […] È dialettica, perché procede come un momento di risveglio, perché folgora la veglia nella memoria del sogno e
dissolve il sogno in un progetto di ragione plastica» (G. Didi-Huberman). Così
la struttura puntiforme che ci presenta il paesaggio della Grande-Jatte non è
altro che la deformazione anamorfotica di una natura morta composta da un
teschio e un vaso di fiori, la vita colta nel “qui e ora” assolato di un “dopo”
oscuro che non sarà mai più, ma che adesso pulsa nel presente dell’erba appena
tagliata sotto la frescura degli alberi. Così, ancora, il montaggio anacronico
di Paranoid Park risveglia la linearità della storia nella durata fuori tempo
delle singole sequenze, la cui persistenza filmica scavalca la stessa memoria del
film per ritrovare il “qui e ora” dello spettatore in sala, il suo essere
seduto su una poltrona a guardare, in sostanza, la sua stessa vita che passa.
Nel silenzio della sala e nella quiete immobile della Grande-Jatte non si
registra che una sola frequenza, il movimento intermittente dell’occhio (e, in
qualche modo, del cuore), la palpebra che si apre e si chiude, la cui
istantaneità comprende, tra la vita e la morte di chi guarda, tutto il visibile
in quanto vita del soggetto prestata ad una visione del mondo.
Flavio de Marco
Roma, maggio 2008
P.S.
Nel 1998, prima che lo studio di Francis Bacon
fosse trasferito da Londra a Dublino, Perry Ogden è stato invitato a scattare
una serie di fotografie nel luogo in cui l’artista aveva lavorato dal 1961 al
1992, anno della sua morte. Questa serie di immagini sono raccolte in un libro
intitolato 7 Reece Mews. Francis Bacon’s
Studio. Lo studio è ritratto in tutte le sue stanze e da differenti punti
di vista. Sono rimasto molto colpito da una foto in particolare: l’immagine
ritrae un tavolo su cui sono poggiati vari barattoli di colori, alcuni vuoti,
altri con più pennelli all’interno, insieme a fogli accartocciati e uno
stivaletto nero con i lacci. Su tutte queste cose accumulate, come ultimo
oggetto poggiato a mantenere in vita un precario equilibrio, occupante quasi
metà dell’immagine, spicca un catalogo bianco, con una grande macchia rossa
sulla parte inferiore e alcune macchie gialle, blu e bianche sul resto della
copertina. In alto c’è il titolo del catalogo con una scritta blu tutta in
maiuscolo: Seurat. L’artista irlandese aveva forse compreso la tragicità
dell’opera del pittore della Grande-Jatte, i cui paesaggi non sono altro che il
rovescio delle gabbie dove lo stesso Bacon andrà a chiudere le proprie figure?
Riferimenti
bibliografici
George Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze, Fazi Editore, Roma 2008
Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975
Valentina
Valentini (a cura di), Bill Viola. Vedere
con la mente e con il cuore, Gangemi Editore, Roma 1993