IL MIRACOLO DELL’INVISIBILITÀ
su Lourdes (2009, di Jessica Hausner)
di MARTINA BONICHI
Tutto ha
inizio nelle campagne francesi ai piedi dei Pirenei, quando una insolita ed improvvisa folata di vento richiama l’attenzione di una
giovane contadina. Incuriosita dal fruscio delle foglie, si gira verso la
grotta vicina e vede di fronte a sé una figura celestiale.
Oltre
centocinquanta anni sono passati dalla prima apparizione della Vergine alla
giovane Bernadette che, nella grotta di Massabielle, senza alcuna conoscenza
delle dottrine cristiane, vide, all’interno di una nicchia, sospesa nell’aria,
manifestarsi una divina apparizione.
Così,
come la gente racconta ormai un fatto divenuto leggenda, il regista francese
Jean Delannoy lo
mette in scena, alla fine degli anni Ottanta, dando alla vicenda un
intenzionale taglio documentaristico e – pur
rimanendo un film per lo più romanzesco – restando fedele ai fatti più di
quanto non lo abbia fatti negli anni Quaranta, in Bernadette, il regista Henry King. Entrambi raccontano la storia
– tra l’incredulità degli ecclesiastici e la
cieca devozione dei concittadini – di come, immersa nel chiarore, appaia
ad una ingenua Bernadette la figura di Maria, e di come intorno a lei si
rinfocoli la fede nei miracoli.
«Fragile
impasto di sordidi vizi, colpevoli debolezze, splendide virtù, l’uomo reca in
sé la propria condanna e la propria salvezza», recita la didascalia che
introduce uno dei più magici e controversi film di Buñuel: L’angelo sterminatore. Questo film, che
si apre sul dettaglio di una strada, la via della “provvidenza”, oltre a essere
evocato da una certa asciuttezza e sobrietà nella rappresentazione, sembra essere
un punto di partenza della storia raccontata giovane regista austriaca Jessica Hausner in Lourdes.
Nessun riferimento
alla figura di Bernadette, nessun omaggio alla santità
della sua figura, ma solo, espressa in una livida rappresentazione, la messa in
scena del luogo dove tutto questo avvenne. Qui l’immagine di Bernadette appare
solo per un istante, nell’ambulatorio medico in cui ci si accerta delle
presunte guarigioni miracolose, e la cittadina di Lourdes diventa un ideale
pretesto per mettere in atto una riflessione sulla sofferenza, sulla solitudine
di fronte alla malattia e alla diversità degli uomini. Christine, l’esile
paraplegica che arriva a Lourdes quasi senza pretese e senza fede diventa
spettatrice di una ritualità distorta, mercificata, dove, a viaggio concluso,
si organizzano le premiazioni, di consolazione, per il miglior pellegrino.
Incredula
e al tempo stesso lucida, seduta nella sua sedia a rotelle vede il mondo che la
circonda da un’altezza diversa, sia per un’insolita prospettiva fisica ma anche
per lo scetticismo riflesso nei suoi occhi che le dà modo – guardando gli
altri pellegrini come poveri ingenui, ricchi di speranza e di fede – di
diventare un personaggio a sé, una figura sullo sfondo, quasi discordante
accanto agli altri credenti per il suo sguardo così implacabilmente oggettivo.
Un
viaggio come un altro, una meta turistica tra madonnine contenenti l’acqua di
Lourdes e souvenir che ricordano il viaggio della speranza.
Un luogo
in cui malati, sofferenti e paraplegici si confondono nelle file di fronte alle
piscine, alla grotta e alla Basilica del Rosario, tra i giovani volontari che
spesso sognano, per l’anno a venire, un’altra vacanza. Non v’è l’ombra di una
qualunque allucinazione, di un qualunque tipo di isterismo,
come in Delannoy o King, né tantomeno la presenza di
esaltazione e rivelazione celeste come nel Dreyer in Ordet o di La Passione di Giovanna D’Arco, bensì l’inquietante
rappresentazione di una cieca rassegnazione, a ogni fine viaggio, che il tanto
sospirato miracolo neanche questa volta sia avvenuto.
Presente
alla 66a Mostra del cinema di Venezia e vincitore di ben sette premi,
nell’immobilismo quasi costante delle riprese, in cui vige un regime della
sottrazione, dei fatti, delle immagini, delle quali rimangono impresse le
istantanee turistiche di gruppo, in una scenografia in cui i simboli cattolici vengono svuotati del proprio valore, nella presenza
perturbante del rosso delle vesti dei volontari appartenenti all’ordine di
Malta e del nero delle tonache dei preti, questo film è una riflessione sulla
speranza che non ha nulla a che vedere con la fede cattolica, ma è propria di
chiunque voglia guarire dalle proprie malattie, nel corpo e nell’anima. Lourdes, definito dalla
critica documentaristico, si fa documento di una realtà mercificata,
costruita ad hoc, per dare ancora il pretesto a milioni di pellegrini di
arrivarvi. Un luogo in cui, spersi ed infelici viaggiatori possano sperare di
guarire delle proprie sofferenze, perché in fondo: «Dio guarisce chiunque, è
solo che certe guarigioni sono meno evidenti». Lourdes – in cui l’immagine della Vergine rimanda ad una bottiglia di acqua benedetta e dove il crocefisso
diventa un amuleto, così come accade nel film precedente della regista (Hotel) – si mostra incomprensibile
e crudele dove il Dio beffardo lascia che si sorrida e poi si pianga, che si
gioisca e poi si soffra e che dopo un ballo lascia che si ricada sulla propria
sedia, costretti a non rialzarsi.
Come in
un teatro spoglio, sulle note dell’Ave Maria di Schubert, ripresa dall’alto
compare la sala da pranzo nella quale arrivano gli ospiti/pellegrini, ed ogni
giorno è messa in scena la giostra della speranza, un palcoscenico in cui la
disperazione cede il passo al sogno di rinascita ad una nuova vita, battezzata
dall’acqua benedetta delle piscine di Lourdes.
Sembra
un villaggio turistico dove la meditazione si riduce alle preghiere recitate la
sera prima di addormentarsi, lasciandosi cullare, nel buio della notte, da una
cieca speranza, sognando il miracolo.
Ed il miracolo sembra avverarsi,
di notte, mentre Christine è distesa nel suo letto: le mani irrigidite e
contratte sembrano liberarsi da una morsa. In un sogno, che si scopre
premonitore, la vergine appare sussurrandole qualcosa, invitandola ad alzarsi
per ascoltare le parole divine. E improvvisamente si alza, Christine, cammina
arrancando fino al bagno, dove si specchia. Di nuovo, la sua immagine riflette
una donna normale, come tutte le altre, si vede attraente ed attratta dalla
vita, finalmente rassicurata di andare incontro ad un futuro normale.
Ripercorrendo ogni luogo con le proprie gambe, solo aiutata da un bastone,
sente l’incredulità e l’invidia malvagia (quasi un omaggio a Buñuel) negli altri pellegrini che continuano a chiedersi:
«Perché lei e non io?».
Nessuna
rivelazione però sembra infine essere avvenuta, solo la speranza
di essa. Nessuna epifania di luce, nessun chiarore le
si mostra dinnanzi come grazia divina, ma appena un mancato miracolo,
durato solo lo spazio di un ballo, che frenetico nella sua immobilità, la fa
sentire felice, ormai lontana dalla sua vita costretta su una sedia a rotelle.
Un movimento
dopo l’altro, il volteggiare nella sala accanto ad un uomo, e poi le gambe
cedono, i piedi non si sollevano più da terra, l’inciampo.
Lungo la
via della provvidenza, a Lourdes, l’apparenza di un miracolo, di un avvenimento
sorprendente, lascia sbigottiti e confusi. Eppure nella sua invisibilità, il
prodigio sembra una magia avvenuta, crudele perché passeggera, inspiegabile
perché irreale, intangibile eppure, riflessa negli occhi di un’invalida, una
magica speranza dà modo di rinascere al desiderio di vivere una vita
normale.
Sulle
note di Felicità, Christine va
barcollando ad appoggiarsi al muro. Qualcuno le si avvicina con la sedia e lei, esitante, sbigottita, ancora affannata per il ballo, e la
caduta, si siede e ritorna a guardare il mondo, mentre gira vorticoso
dispensando la fortuna ora ad uno ora a un altro, da
seduta.