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RICONQUISTARE L'INNOCENZA

TRA VAMPIRI, REPLICANTI E ANGELI

TENEBRE E LUCE TRA CINEMA E FOTOGRAFIA

 

su Let the Right One In (2008, di Tomas Alfredson)

e Let Me In (2010, di Matt Reeves)

 

di MASSIMILIANO CAMELLINI

 

I commenti precedenti all'uscita di Let Me In di Matt Reeves hanno parlato di un remake tipicamente “americano” di un copione filmico già scritto, quello di Let the Right One In di Tomas Alfredson – ispirato all'omonimo romanzo di John Avjide Lindquist, Låt den rätte komma in –, quindi solo un tentativo di mettere sul mercato un prodotto con una maggiore cura della componente horror, al fine di confezionare una proposta maggiormente appetibile per il mercato americano. Let Me In invece – presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nell'autunno del 2010 –, anche se riprende gran parte della sceneggiatura del film di Alfredson [1] , riesce, ad una attenta e incondizionata analisi, ad accentuare in modo più drammatico ed universale (e più incisivo) il senso profondo della storia e la sua attualità. Questo avviene attraverso la studiata scelta degli attori protagonisti, Chloe Moretz e Kodi Smit-McPhee, che esprimono una grande emotività ed intensità interpretativa, molto diversi dai due giovani protagonisti di Alfredson, Lina Leandersson e Kare Hadebrandt, che rispettivamente interpretano un’ambigua e asessuata Eli e il coetaneo Oskar, quest'ultimo dall'aspetto bambinesco e moccoloso, anche se questi ultimi forse più somaticamente vicini all'immagine descritta nel romanzo di Lindquist. Let the Right One In di Alfredson si dimostra più fedele al romanzo anche sul piano dell'ambientazione geografica e storica e nel rigore diacronico delle scene.

Let Me In presenta alcuni aspetti di scostamento dal primo film nella sceneggiatura. Notiamo la mancanza di alcune scene e personaggi rispetto al film di Alfredson, quali ad es. Virginia, Gösta ed i suoi gatti, l'uccisione di Lacke quale vittima accidentale. Inoltre il mondo degli adulti dipinto da Matt Reeves è significativamente diverso da quello di Alfredson: nel primo film la storia è popolata da adulti sconcertanti, e per questo ben visibili e comunicativi, frutto di un'umanità arida, alcolizzata e senza passioni, il cui obiettivo è la semplice sopravvivenza. Let Me In vuole invece fare solo intra-vedere gli adulti, tutti tagliati dall'inquadratura, non solo per eleggere Abby ed Owen unici protagonisti emotivi della storia, ma anche per rendere assente il mondo circostante, senza parole e senza persone. Il mondo di Let the Right One In è oltremodo negativo e condannato a perire, le vittime di Eli infatti non sono casuali o accidentali – salvo il caso di Lacke, come ricordato, che è comunque vittima predestinata – ma apertamente significanti una non velata “vendetta” contro la cialtroneria e la violenza che soffoca e viola l'innocenza, di cui Oskar è impersonificazione fin troppo esplicita. La nemesi portata dal vampiro nel mondo e la catarsi che ne consegue permeano l’opera di Alfredson, e già la storia di Lindquist nel suo titolo originario parla proprio del giusto (the right one) che deve essere fatto entrare per portare l'effetto “correttivo” ad un'umanità malata, per fare entrare un orrore necessario all'eliminazione di un orrore ancora più grande.

Let Me In, sommessamente, pone entrambi i protagonisti su un piano di comune debolezza, sorpresi sempre più dalla loro inspiegabile ed intima vicinanza, e il mondo circostante è visto come colpevole non per il fatto di essere immaturo e arido, come nella visione etica e politica di Alfredson, ma per un'assenza che equivale a dis-umanità, una quasi estraneità alla dimensione umana, per gli incubi e le paure che incute, per il suo malvagio disdegno dell'innocenza. La scena di maggiore violenza del film di Reeves – forse una delle scene più violente della storia del cinema – è la scena della violenza sessuale subita da Abby nel suo remoto passato, ad opera di un uomo che esce dal sogno come figura sfuocata di padre-mostro-carnefice, che viene trasmessa telepaticamente ad Owen e che lo sconvolge più di qualsiasi altra immagine di sangue e di morte di cui è stato o sarà protagonista: il mondo degli adulti è connotato da un'assenza da cui traspare qualcosa di demoniaco, di estirpante la vita e l'innocenza.

Altro elemento interessante è il rapporto oscurità-luce nella poetica di Reeves. Let Me In è caratterizzato da una costante fotografia in low-key [2] , il buio e l'oscurità sono la cornice dell'anima dei protagonisti, e qualche bagliore di luce soltanto illumina i loro volti. Gli attacchi del vampiro sono inframezzati da subliminali bagliori elettrici, la famosa "scena della piscina" è proiettata in altra dimensione, l'illuminazione improvvisamente viene meno, per essere sostituita solo da lampi. Questo ispira analogie sulla figura del vampiro come angelo caduto, come vittima, non come mostro, e riprende il racconto sul difficile rapporto tra il non-umano e l'umano, racconta di un'esistenza vissuta nel dolore come elemento comune alla natura dolente di entrambi i protagonisti, alla ricerca della luce oltre la soglia. Il loro viso deve brillare necessariamente e cinematograficamente di una luce/forza interiore che fuoriesce dall'oscurità/dannazione che li circonda e li unisce.

In Let Me In Abby e Owen sono entrambi alla ricerca di qualcosa che è patrimonio dell'infanzia prima ancora che dell'adolescenza, l'innocenza che Abby non ha mai vissuto o che troppo presto ha perso perchè condannata ad una non-morte/non-vita, e che Owen sta perdendo e ha paura di non potere più riconquistare. 

William Butler Yeats – che ha sempre riconosciuto in se stesso la forte attrazione verso i temi romantici – ha scritto: the innocent and the beautiful have no enemy but time [3] . Questi versi possono rappresentare un'interpretazione dell'irreale e magica storia dei due adolescenti: entrambi hanno – troppo presto – perso il “tempo dell'innocenza”, e condividono l'inizialmente timida ma nello stesso tempo disperata riconquista del tempo perduto, Abby che da troppo tempo ha 12 anni [4] e Owen a cui il mondo sta impedendo di ritrovare i suoi 12 anni.

Ricordiamo che la necessità di riconquistare una dimensione innocente coinvolge anche Hakan – è il nome del compagno di viaggio di Eli nel romanzo ispiratore delle due opere cinematografiche –, il quale, nel condurre un’intima e costante lotta con la sua “bisessualità” e complicità omicida, vive anch’egli il dramma dell'innocenza perduta. Nell’attesa della sua ennesima e necessaria vittima, pensa «ma nel mio cuore vorrei essere un bambino» [5] .

Matt Reeves adotta un linguaggio sussurrato per i due giovani Owen e Abby, e questo esalta il recupero della tenerezza e della grazia, ed esprime la segretezza e  la pudicizia del loro rapporto, il loro più grande valore. Le due scene gemelle del superamento della soglia da parte di Abby/Eli sono quelle in cui l’horror rimane per un attimo sospeso, per fare spazio a un simbolismo che richiama nuovamente la figura dell'angelo dolente proprio di altre pellicole, prima fra tutte Blade Runner.

Questo collegamento tra Blade Runner e gli angeli dolenti emerge anche dalla lettura del romanzo gotico Angeli di Alessandro Defilippi [6] . L’autore torinese ha scritto una storia molto cinematografica – così definita da Alessandro Barbero in un’intervista con l’autore – ambientata negli anni ‘30: in una Torino fascista misteriosi omicidi vengono smascherati come opera di enigmatici angeli caduti sulla Terra (come raccontati nel Libro di Enoch, testo apocrifo parte delle antiche scritture), angeli scacciati sulla Terra a causa del loro amore e dell’invidia troppo forte per l’uomo e la sua anima, e condannati a spargere il male. Il romanzo è fortemente permeato da un dolore che filtra tra le righe, il dolore degli umani di fronte a un Dio dipinto come un gomitolo oscuro da cui la luce traspariva a fatica [7] ma soprattutto il dolore di chi è stato privato dell'anima, del senso. Gli angeli sono vittime di un destino crudele che colpisce gli "innocenti".  

In Angeli, Semenzaya, angelo sopravvissuto e disperatamente vivo, testimonia una crudeltà verso gli umani fatta di dolore più che di malvagità, perchè non riesce a superare la soglia del mondo degli uomini, a riappropriarsi dei loro significati [8] ; analogamente, il replicante dolente di Blade Runner, Roy Batty, vive la mancanza di senso, e, per avere amato ed invidiato la vita degli umani, spera e trova nella morte artificiale la sua personale rivincita e la pace. Tornando ai due film, la soglia di casa è veramente il limen simbolico e invisibile tra due mondi diversi che si attraggono, e la volontà di superarla sembra carica di un terrore generato dal rischio e dall'insicurezza di poter creare una nuova genìa, una nuova umanità, al di là della natura e del sangue. Abby ed Eli provano una tragica attrazione per le motivazioni del mondo degli umani, per la precarietà della vita, per la potenziale innocenza del mondo che vedono e che è all'opposto della loro non-vita. La forza di entrare nel “mondo del senso” continua a animare la loro non-vita dolorosa, quel dolore che appare negli occhi dei protagonisti, nei loro sguardi bassi che cercano, e temono al medesimo tempo, lo sguardo del coetaneo.

Il vampiro quindi entra, varca la soglia anche per provare l'orrore della sfida, le sue implicazioni, il sangue che scorre dal suo corpo, facendo capire al coetaneo il rischio di combattere per cercare la salvezza. Attraverso le visioni di alcuni protagonisti del suo romanzo, anche Defilippi richiama molte volte il sangue che scorre, che inonda, come se l’angelo caduto (i vampiri sono raccontati dal mito anche come angeli caduti) fosse costretto a passare dal sangue e dallo strazio del corpo umano per attuare il suo compito, quello che Dio comandò nel Libro di Enoch.

Tornando alla scena del superamento della soglia la disperatamente viva Abby è sola con il suo silenzio per un attimo interminabile. Il silenzio e l’attesa puntualizzano la preghiera tacita del mostro di potere essere ammesso nel mondo degli umani, dell’innocenza, dell’amore. Come risposta al silenzio-richiesta, Owen, innocente ed innamorato, la lascia entrare senza invito, per de-ritualizzare, esorcizzare la paura della non-morte, come solo l’innocenza può fare.

Lo sguardo dei due protagonisti è il manifesto della loro diversità ma al medesimo tempo sono portati a cercare l'abbraccio salvatore del compagno. La tenerezza di questo istante non può che richiamare la lenta caduta, sotto la pioggia, che accompagna la fine del replicante Roy in Blade Runner [9] , il replicante come angelo che, ormai prossimo alla fine del suo tempo, sorride, abbracciando anche lui un essere vivente, una colomba. Così sorride l’angelo Semenzaya dopo il suo lancio dalla finestra abbracciato a Padre Ferraris in una stretta gelidamente luminosa (ossimoro efficace che richiama il gelo proprio del contatto corporeo con i non-morti/non-umani, e la luce come simbolo di salvezza) [10] : in tutte e tre queste immagini ritorna la ricerca costante dell'abbraccio dell'umano o comunque di un essere che vive il mondo degli umani per rendere lieve e fiducioso il destino, la morte .... forse un’altra vita. Ulteriore analogia tra vampiri, angeli e replicanti è anche la mancanza di sesso. L'adolescente vampiro/a Eli, nel film di Alfredson, viene sbirciato dalla porta da Oskar mentre si veste e viene scoperta la mancanza di organi sessuali. I vampiri non sono destinati alla riproduzione, ma semmai a diffondere il contagio che porta ad infoltire la schiera dei non-morti, e la loro condanna ad una non-vita rende inutile ogni sessualità, e quindi identità sessuale. Così gli angeli sono privi di ombelico perchè non-nati-di-donna, e quindi invidiosi degli umani che possono portare sul loro corpo le tracce della loro nascita. La nascita non è nemmeno propria della storia dei replicanti di Blade Runner, perchè nemmeno essi hanno avuto nascita nè infanzia, e sono privi finanche di ricordi, quelli che hanno sono stati innestati e quindi sono artificiali, quindi anch’essi sono alla ricerca spasmodica del significato dell'esistenza – ed arrivano al punto di essere vendicativi nei confronti degli umani che li hanno creati privi di emozioni e senza risposte.

Lo sconvolgimento della coscienza di Owen – accentuato dall’ineludibile desiderio di volere credere nella vita e nell’amore – non conduce ad una scontata in-coscienza, ma all'accettazione della non-vita del non-morto: questo ci proietta direttamente al finale, tanto semplice quanto di grande potenza filmica, che riesce a spazzare via il sangue e l’orrore precedenti, tanto espliciti quanto mai scusabili.

La scena finale di Let Me In si auto-elegge incontestabilmente a manifesto della riconquista del futuro e ripercorre – ancora analogie... – le stesse regole costruttive della scena finale di Blade Runner.

Il primo elemento comune alle due scene è un mezzo di trasporto che simbolicamente traghetta i protagonisti nel tempo oltre che nello spazio verso un incerto futuro: in Let Me In è un treno sul quale viaggia Owen accompagnato dalla cassa della sua compagna di vita, in Blade Runner un non definito mezzo volante, sul quale viaggiano Racquel, la replicante senza data di termine, e Deckard, il suo carnefice-salvatore, ed in entrambe le scene sono simboli di trasporto in una dimensione metafisica, dove il tempo è oramai solo quello dell'anima [11] .

In entrambi il vampiro/replicante/angelo [12] trova la speranza. Sia in Let Me In  che in Blade Runner la fotografia sceglie il forte controluce del sole rispetto al passato girato in low-key, centrando l’obiettivo di cancellare simbolicamente le paure dei protagonisti e di portarci a sognare in un fuoco di luce le emozioni che vivranno. Altro straordinario punto di contatto delle due scene è la vicinanza fisica di due coppie composte da esseri molto diversi, uno mortale (Owen-Deckard) e quindi destinato a finire la sua esistenza, l’altro invece non-umano (Abby-Racquel), vuoi perchè artificiale, vuoi perchè appartenente ai non-morti. Entrambe le coppie realizzano che solo jointly [13] si può trovare la vera vita, attraversando ad occhi socchiusi l'incendio di un controluce, sfidando simbolicamente proprio quella “luce” che ha sempre rappresentato la morte per il vampiro.

Si potrebbe immaginare una simile visione fotografica anche quando gli “incendiati” di Antonio Moresco si chiedono, per lo stesso motivo, come gesto estremo di passione e di speranza di vita, «vuoi bruciare con me?». [14]

Ricordiamo solo altre due immagini che evocano ed usano il contro-luce come portatore (e cornice) della salvezza-innocenza: La conversione di San Paolo di Caravaggio [15] e l'immagine fotografica di Eugene Smith conosciuta come The Walk to Paradise Garden (quest'ultima vanta una sconcertante similitudine compositiva con una delle immagini locandina dell'opera di Matt Reeves) [16] . Nella tela di Caravaggio è la luce è l’autentica protagonista dell'immagine, una luce che abbatte e acceca San Paolo, che deve chiudere gli occhi per vedere la verità, una luce questa volta irreale, che viene dall'alto, come il controluce del finale di Blade Runner, come in Let Me In il sole attraverso il finestrino del treno investe di luce la cassa dove è rinchiuso il vampiro, ma ormai è una luce che non fa più paura, che penetra il vetro invisibile [17] che divide le due esistenze.

La locandina scelta da Matt Reeves per presentare al mondo Let Me In è l'immagine di un bambino ed una bambina per mano, di spalle, che affrontano la tormenta di neve, come i due bambini di The Walk to Paradise Garden, per mano, di spalle, affrontano con fiducia il futuro, anche qui in un controluce che brucia i profili, che offre nuova luce e nuova dimensione al loro futuro. Non è una coincidenza la forte emozione provocata dalle due immagini, il cui punctum comune è l'abbandonarsi con fiducia al destino, senza paura, perchè non si è soli. I due americani (Matt Reeves e Eugene Smith) sono artefici inconsapevoli di un’unica immagine, che racconta l'innocenza e l’unione come speranza per la salvezza, rievoca ancora il limen tra tenebra e luce, inferno a paradiso, disperazione e felicità. Questo incrocio involontario tra fotografia e cinema non è casuale, perché, come dice Susan Sontag, «la predilezione americana per i miti della redenzione e dannazione è ancora uno degli aspetti più stimolanti e seducenti della nostra cultura nazionale» [18] .

Let Me In in definitiva si sviluppa nel buio e del buio fa la sua necessità di sopravvivenza, sia emotiva che mitologica, perchè la luce è morte per i diversamente vivi [19] , e proprio il buio è coerentemente accompagnato da un necessario, segreto e criptico linguaggio, che va oltre i sussurri, quell'alfabeto Morse fatto di piccoli colpi e fruscii, prima sulle pareti divisorie delle stanze adiacenti dei due adolescenti, e poi – in un silenzio fuori dal tempo ed oltre il tempo – sul coperchio della cassa che trasporta Abby. La frase tratta dal Romeo and Juliet di Shakespeare, scritta sul biglietto lasciato da Eli a Oskar nel romanzo di Lindquist (I must be gone and live, or stay and die), ora può essere riletta per coglierne un significato altro: il viaggio verso l’ignoto è ipotesi di vita e possibile riconquista, il rimanere vuole dire solo sopravvivere senza vere speranze, quindi è come morire. In Let Me In (come peraltro anche in Let the Right One in) fra i tanti oggetti dell'infanzia che rende portatori di taciti messaggi di aiuto, colpiscono in particolare quelle che definirei le caramelle del traghettatore: le caramelle che entrambe le vampire Abby e Eli (qui ineluttabilmente bambine) accettano di assaggiare non per ingannare in modo demoniaco il coetaneo sulla propria natura, ma per potere uscire dalla cassa, per sfidare ancora una volta quelle maledette tenebre!

L'ansia di riconquistare l’innocenza affligge chi è condannato da un oscuro destino primordiale alla morte o alla non-vita, le nostre due tenere vampire, i replicanti di Blade Runner, gli Angeli dolenti di Defilippi: questi esseri sono tutti accomunati da questa profonda – talvolta violenta – invidia per gli umani, che emerge in modo palesemente romantico negli occhi di Abby e di Eli, e testimonia significati eterni.

Quello che si continua a ri-cercare nella storia, e che abbiamo cercato di riscoprire e reiventare tra cinema e fotografia, riecheggia magistralmente nei versi di Francis Thompson, non a caso poeta romantico, errabondo e tormentato:

 

Sai cos'è essere bambino?

è credere nell'amore, è credere nella grazia, è credere nel credere,

è sapere trasformare le zucche in carrozze, i topi in destrieri,

la meschinità in cose sublimi

... e di niente sapere fare tutto. [20]

 

Lasciare entrare nella propria vita una bambina/vampira può essere rischioso, ma è molto più rischioso rinunciare ad essere bambino: umano e innocente. 

 



[1] Let Me In racconta del vampiro moderno incarnato in una bambina adolescente dodicenne (Abby), condannata a sopravvivere dando la morte, che giunge in una piccola città del New Mexico in un inverno rigido e che instaura un'amicizia con il coetaneo Owen, abbandonato dalla famiglia e vittima del bullismo dei coetanei, il quale trova in Abby il suo "rifugio", la sua unica amica e salvatrice.

[2] Diversamente, Let the Right One In è caratterizzato da una fotografia meno drammatica, in cui le luci elettriche, innaturalmente accentuate rispetto all'ambientazione notturna, assottigliano i contrasti e rendono l'ambientazione non solo meno “intima”, ma anche priva di quel nero e di quella oscurità che è il “colore dell'anima dei protagonisti”.

[3] «L'innocenza e la bellezza non hanno altri nemici che il tempo», è un verso tratto dalla poesia In memoria di Eva Gore-Booth e Con Markiewicz pubblicata all'interno di W. B. Yeats, Poesie, Mondadori, Milano 1974, pag. 242.

[4] «Ho dodici anni, ma li ho da tanto tempo», così dice Eli in John Ajvide Lindquist, Lasciami entrare, Marsilio, Padova 2006, pag. 267

[5] Ivi, pag. 26.

[6] Alessandro Defilippi, Angeli, Passigli, Firenze 2002.

[7] Questa è la definizione di uno dei protagonisti, Padre Ferraris, ivi, p. 220.

[8] Parla l'angelo Tamiel in Angeli di Defilippi: «Era bello il mondo prima che arrivaste voi, poi Lui disse c'era qualcos'altro, l'anima la chiamava. Disse che voi (gli umani) la possedevate, ma noi no. Noi non avevamo bisogno dell'anima. L'anima era parte degli uomini, il loro destino, noi avevamo la vita eterna» (ivi, p. 218). Prosegue l'angelo Semenzaya: «Ci manca sempre qualcosa: una brezza, un bicchiere di vino, il tocco delle mani, forse la sensazione di essere precari... ed il senso è forse davvero questo» (ivi, p. 282).

[9] Proprio Blade Runner viene più volte richiamato da Defilippi nel suo romanzo, come film che l'autore ama moltissimo, ed è prova del rapporto mistico vampiro-angelo-replicante.

[10] «Padre Ferraris […] continuando a fissare l'angelo lo abbracciò a sua volta e, con una forza che non sapeva di possedere, si mosse, balzò in avanti, quasi volò; stringendo quel corpo gelidamente luminoso lo spinse contro la finestra senza incontrare resistenza e nello spingere, nel volare così nel vuoto, nello schianto dei vetri, vide, sul volto dell'angelo, un sorriso di pace» (Alessandro Defilippi, Angeli, cit., p. 285).

[11] Padre Ferraris è su una barca che raggiunge l'isola dove l'angelo Tamiel gli darà il Libro dei Giganti, consegnato al Giusto che non sa del suo destino (ivi).

[12] «Le testimonianze del fatto della piscina erano concordi: era stato un angelo», J. A. Lindquist, Lasciami entrare, cit., pag. 459.

[13] "Congiuntamente": il termine, diverso dal comune together (insieme), esprime proprio non la semplice vicinanza, ma la compenetrazione di due corpi e due anime dalle risorse "diverse", funzionali l'una all'altra.

[14] «E poi un giorno, forse, la sua luce ci arriverà, e allora, forse, ci sarà anche chi la vedrà, e allora tutto lo spazio si aprirà, si riaprirà, e allora tutto il cielo si accenderà, e tutto l'universo risplenderà, la fornace della vitamorte si squarcerà, esploderà, splenderà, e allora non ci sarà nient'altro che quella nuova luce che ci sarà, fuoco e oro» da Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori 2010, pag. 182.

[15] Tela custodita nella Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, del 1600-1.

[16] Eugene Smith realizzò l'immagine nel 1946 e voleva simbolizzare, dopo il marasma della guerra, la speranza di una nuova vita, attraverso l'immagine dei suoi due figli che si tengono per mano e si dirigono verso una radura, incorniciati da un magico controluce. The Walk to Paradise Garden doveva essere anche il titolo di una monumentale opera fotografica di Smith progettata nel 1959 e che non vide mai la luce.

[17] Oskar chiede a Eli, «C’è forse un vetro che non vedo?», battendo con le mani sulla soglia invisibile ed immaginaria che divide la non-vita del vampiro e quella degli umani.

[18] Susan Sontag, On Photography, Farrar, Strauss & Giroux, New York 1973, ed. italiana Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 2004.

[19] Il termine è stato coniato per significare l'esistenza di «vivi per così dire in parallelo ai “normali” viventi, come a sfidare l'ordine delle cose, come a mettere continuamente in discussione con il loro non morire il senso e la (provvisoria) solidità del nostro vivere»; è anche titolo della mostra realizzata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e dell'omonimo volume di Peppino Ortoleva e Giulia Carluccio (a cura di), Diversamente vivi, Il Castoro, Torino 2010.

[20] Testo originale: «Know you what it is to be a child? ... it is to believe in love, to believe in loveliness, to believe in belief; .... it is to turn pumpkins into coaches, and mice into horses, lowness into loftiness, and nothing into everything», ed. inglese di Francis Thompson, Shelley: an Essay, Dodo Press,  Gloucester 2011.

 

 

 

 

 

 
 

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