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GLI SGUARDI DELLA MEDUSA

su La promessa dell’assassino (2007, di David Cronenberg)

di GIANLUCA PULSONI

 

 

   Una musica ipnotica rarefa e trasporta lo sguardo come un alone, verso lo stacco, verso un altrove urbano: la brutalità dei primi due avvenimenti esposti. In serie.

   Esterno. È sera. Piove, diluvia. La mdp, su dolly, fa un movimento breve, di raccordo descrittivo e spaziale. Stasi.  Da un’insegna di barbiere, ‹‹Azim››, guardiamo per un attimo la strada. E la moltitudine “in nero”. Un ragazzo corre verso l’edificio profilato.

   Interno. Il ragazzo è il nipote del barbiere. Abbassa le serrande del negozio. Closed. Un movimento della mdp, di raccordo, semi-panoramico, breve. Stasi. E subito vediamo lo zio, Azim, e un cliente. Un russo. Primi piani. Espressioni tangibili. Fine dei convenevoli.

   È già dato il primo taglio.

   Ed è il primo crisma che introdurrà poi metà cuore del film.

   Continuum.

   È sera, notte. Buio. Acqua. Sporco. Il dettaglio di due piedi nudi sul suolo urbano che attraversano la strada, le pozze, il marciapiede. Thrilling. Ma il movimento dell’occhio meccanico s’allarga. Ecco. Una donna, una ragazza. Malinconia pura. Una farmacia davanti.

   All’interno una classica scena del quotidiano. Un farmacista e una cliente. E la giovane che si avvicina. Solite parole, solite risposte. Ma la ragazza non riesce in tempo a chiedere aiuto. Sangue. Sviene. Sangue.

   Una nuova vita chiama, è il secondo taglio, il secondo crisma che ci farà scoprire l’altro cuore del film.

 

   L’incipit di La promessa dell’assassino è uno spaesamento: l’oUverture di una sinfonia “nera”. In un’aura della visione “corroborante”.

   E nell’ottica di David Cronenberg quest’aura è un imprinting che localizza nella tessitura del visibile e della mimesis angoli inediti di fuga dagli schemi della rappresentazione. Fin dalle prime battute visive e sonore.

  La fissità dei piani della prima sequenza e il ritmo del découpage imprimono subito un rapporto frontale e complementare tra visibile e avvenimenti. E una staticità del movimento. Inoltre, intesi come margini filmici, sotto l’operato di una densità cromatica e percettiva crescente, si connotano come un contrappunto perfetto alla narrazione in levare. Come è ancor più marcato nella seconda sequenza, dove l’ “atmosfera” horror, sospesa da una regia “classica” che nasconde e occulta – si sente ma non si vede, come da paradigma della regia hollywoodiana – è trasportata da “tagli” precisi di montaggio, un maquillage iperrealista sui corpi – che tende ad avvicinare l’attore di Cronenberg ad una variazione laica del modello bressoniano, esaltazione dell’ottusità barthesiana. E da un lavoro “filmico” sul set.

   Occorre allora riprendere una felice tesi sul cineasta [1] : il tono materico come cifra tassonomica di uno stile.

   Egli opera sull’inquadratura verso una profondità meta-discorsiva del set; mantenendo sempre alta nella drammaturgia l’ambiguità del visibile; estrapolando dalla gamma cromatica una “linea” pittorica sotto il segno dell’opacità della luce e del nero delle crome. Per una alonatura malsana degli spazi.

   Attraverso una sintassi prosastica, il suo stile compositivo connota dunque un paesaggio urbano di “impressioni di realtà” sospese e ricche di forza di significazione, ma irriducibili a schemi narrativi – la pioggia battente, le incrostazioni cromatiche, il dettaglio dei piedi della ragazza, etc. Che inscrivono alcune sequenze in una spettralità da simulacro.

 

Nell’abisso delle città, l’isolamento. La paura, il più delle volte.

Dove anche un cuore nero ghiaccia.

 

   Solo dopo le due morti, Soyka e Tatiana, veniamo a conoscenza che lo scenario delle azioni è “Londra”. Attraverso un’inquadratura volatile d’esterno giorno.

   Lo sguardo di Cronenberg sancisce così da subito l’adesione al realismo del set e alle promesse di storie e però, allo spazio, inteso come metafora d’identità, imprime subito una silenziosa modalità sottrattiva. In una trama avviluppata, la mimesis agisce per diversificazione: o portando l’occhio meccanico a ridosso dei corpi, isolati e spesso immersi in moduli spaziali che sono topòi del cinema del canadese (gli ospedali, per es.); oppure de-costruendo location significative della narrazione per forza di stile e messa in scena (lo spazio realistico e simbolico, focalizzato con humour sadico, della morte del nipote di Azim). Oppure attraverso un basso rilievo del tono materico che produce una specie di patina sugli scenari, equivalente dell’incrinatura poetica. Un processo di divenire-anomico dello spazio. Membrana, lacaniana omelette.

   Uno spogliare allora, per far affiorare una nuda vita.

   E, sotto questo aspetto, il trattamento filmico-alchemico del ristorante “Trans-Siberian” diventa esemplare.

   Il rosso, anzitutto. Da principio, osserviamo il luogo come spazio “codificato”, in un campo medio e attraverso un travelling funzionale che “illustra” la scena e presenta alcuni characters. Ma, da subito, la forte connotazione cromatica del rosso – tovaglie, lustrini, cibi, vestiti, tappezzeria etc. – attira l’occhio in un sensibile “a parte”. È un rosso che prende la scena come marcatore di una “interiorità” tanto visibile quanto violenta.

   Man mano che prosegue la narrazione, il ruolo del ristorante si scopre sempre di più nella sua vera valenza narrativa come coacervo della malavita russa, e insieme assume un corrispondente valore “cromatico” significante, contrappunto alle superfici “sporche” e “sudice” caratteristiche del mondo là fuori, del mondo propriamente cronenberghiano.

   Due carrelli seguenti, ritaglianti il set in un “quadro” iperrealista, presenteranno successivamente due tavolate di pasti, e volti giovani e vecchi, tanto icastici quanto deplorevoli, in una trasparenza di necrosi palpabile e senza soluzione di continuità sotto tali cromatismi sgargianti.

   In questo “arcipelago Londra”, city abnorme, scoppiata, melting pot, grigia e coloured, Cronenberg sembra aver trovato, dopo Spider (id., 2002), linfa per il suo genius loci, estrapolando dagli spazi la metallicità della luce. E una piena risonanza “climatica” che satura l’aria.

 

Promesse di vita, premesse di storie.

La realtà, nient’altro che questo. Dispersione.

 

   La modulazione statica del ritmo, i calibrati movimenti della mdp, l’andatura ellittica del montaggio che nega una curvatura dello sviluppo, scolpiscono una narrazione “cartesiana”. Esaltando poi il materialismo dell’interiorità compositiva, la “relazione” densa, centralizzata, dello sguardo filmico con i corpi, figure in senso estetico e narratologico non finite, che incarnano gli scenari possibili di una mappa drammaturgica aperta e mancante, in tutte le palpitazioni e la scopofilia del visibile.

   Seguendo la voce di Tatiana [2] , fantasma del reale, ci muoviamo lungo non un percorso, ma attraverso un discorso che detta le peregrinazioni di più vite dentro il fantasma di una storia.

   E così, come lei, anche Anna (Naomi Watts) è alla ricerca di un senso-segno: se una è stata madre e ha lasciato la vita per un’altra vita, l’altra, Anna, ha perso la vita a cui (si) teneva. Ed ora sospesa a un bivio, quando le si presenta la sua chance di “tornare” ad essere, che diverrà il suo incontro con l’Altro.

   Nikolai (Viggo Mortensen) è invece un corpus-cesura di “mondi” (il nucleo del ristorante e quello della famiglia di Anna; ma anche il nucleo della criminalità e quello della giustizia). Il massimo dell’ambiguità del visibile. È l’altro coincidente con lo stesso, il familiare e l’estraneo, in uno stesso ritratto. Metafora blanchotiana della potenza del neutro. Macchina disumana, post-mortem, i cui tatuaggi, premesse di segni d’identità, sono un falso essenziale a dare rilievo alla sua “presenza assoluta”, che, nonostante lo svelamento, rimarrà invariante. Sospesa e non inquadrabile in un preciso destino. Come una promessa di vita piena ma irrelata: come – e le parole sono quelle iniziali del suo lamento – la voce-promessa ripetuta di Tatiana, nel finale, rivela.

   Le frasi-immagini [3] che incidono le vite di Nikolai e Anna sono cesellate da una simile ambiguità comportamentale, declinata in modi sessuati, per l’ostinazione ad avanzare ciecamente negli eventi, in lei – un vuoto da riempire – , e per il permanere, nella propria immagine, in lui – un vuoto da difendere. Ma differenti sono invece le pieghe delle loro “frasi”, laddove quella di lei, alla fine, è l’unica che si realizza, mentre l’altra, quella di lui, si formulerà come parallela (come si evince dal “finale” aperto, e in montaggio parallelo): rimarrà incompiuta, una “promessa”. Leit-motiv costante in altri.

   Così infatti è per Kirill (V. Cassell), corpo “succube” la cui connotazione sessuale rimane inespressa; così è per Semyon (A. M. Stahl), solo una mask sulfurea dalla violenza del visibile e raccordo tra sociale e criminale, come da vero vor v zakone. Come modello di ethos, di cui il Nikolaj chauffeur può essere visto come un calco. A fior di immagine.

   Anime o animali con segni “purgatoriali” sono allora le connotazioni di queste figure “sospese” (Semyon, Kirill, Nikolai, Tatiana etc., a diversa gradazione), laddove questi due indici valutano nient’altro che le diverse incrinature di un manque tra immagine-del-sé e ruolo sociale-drammaturgico, che l’entomologo canadese scruta e tesse.

   Inoltre, da History of Violence (id., 2005), questo cinema continua a sperimentare un discorso critico sul binomio immagine-identità, non cercando la rottura formale, ma sovrapponendo in un regime estetico di trasparenza opacizzante violenza del visibile e profanazione dell’alterità, per indagare sofisticate discontinuità e dissomiglianze percettive in tale sovrapposizione imperfetta.

   Credendo nell’immagine come incorporazione criptica [4] della realtà.

   E se poi in passato la potenza di rottura dell’immagine nel canadese aveva prestiti figurativi e soluzioni narratologiche dal genere body horror, in una visione del mondo come cristallo d’autore e di genere, oppure a tali aspetti tangente, oggi, con le ultime produzioni, egli translittera l’operatività sul coté dell’horror per modulare con altre forme, aderenti a canoni più narrativi (come il gangster movie in questo caso), lo stesso discorso esclusivo e privato sull’uomo come invenzione. E sul “realismo” come de-stabilizzazione dei generi.

   Con lo stesso “occhio” penetrante. E ora secolarizzato. Tatuato.

   Lo sguardo ora è più teso verso un contenimento delle peculiari tematiche, ricercando però tutte le varianti “irrappresentabili” della messa in scena. Le sfumature dell’immagine, le crepe sul visibile. Suggerendo. Liberando potenze impensate. Come nei primi piani di Tom Stall nella sua “storia di violenza”, o di Nikolai. Con la sola variante narrativa stavolta, visto che il primo si “conquista” una immagine totale, ambigua e mimetica nel “finale”, mentre il secondo deve mantenere quella stessa immagine di sé, nonostante tutto, nonostante sia “incompiuta”.

   La promessa dell’assassino dimostra poi come la forma di questa regia sia originalmente vicina, nella sua formulazione, all’importante edificio retorico nietzschiano, base della sua inattualità: il grande stile. Nozione di un’operatività in cui la forma non sia opposizione ma variazione dell’informe; in cui il gioco delle forme si pieghi ad una estetica della lotta e in cui il soggetto sia distante dal mondo.

   Qui Cronenberg non fa altro che imprimere un giro di vite consono alla sua obliquità di sguardo, nelle fessure di un Reale quanto mai lacaniano: in uno stile che è il risultato di una relazione asimmetrica e contrappuntistica tra una narrazione polivocale in progressiva parentesi “formale” e una enunciazione della messa in scena intransitiva al “simbolico”. Ma rigorosa, metallica, radicata e secolarizzata in un “crescendo” nel visibile. E, questa relazione, in momenti cardini – nel ristorante, l’investitura a vor, la lotta – assume i segni-sintomi di una infezione che inscrive dentro queste sequenze, brani di un corpo filmico splendidamente rigidi e auto-immuni, una enunciazione peculiare del suo stile: un trattamento di scrittura porno-grafica [5] dei corpi, delle immagini e dei segni, che però fonde solo alle temperature più fredde della forma.

   David Cronenberg è un cineasta apollineo [6] .  

 

 

NOTE

 

[1] Cfr. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano, 1993, pp. 11-12.

2 Cfr. F. Cattaneo, La voce di Tatiana, in ‹‹Cineforum›› n. 471, febbraio 2008, p. 10.

3 La nozione di questo termine è di J. Rancière, in Il destino delle immagini, L. Pellegrini editore, Cosenza 2007, p. 81.

4 Per una esaustiva ricognizione del concetto di incorporazione criptica lo snodo testuale d’obbligo è in Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, pp. 100-101.

5 La nozione di “porno-grafia” è formulata e radicata in opere come quella di C. Bene e P. Klossowski quale scrittura che rigetta la forma, svuotando il sostrato “simbolico” del linguaggio ed esaltando tutte le qualità invisibili della rappresentazione. In Cronenberg tale concetto agisce per praticare un anti-psicologismo di fondo che muove tutta la sua opera.

6 Apollineo nell’accezione della filosofia di Giorgio Colli, come indole complementare, contigua e non più oppositiva al dionisiaco nietzschiano: fusione di forza barbarica e sguardo “neoclassico”, posato sulle cose.



 

 

 

 

 

 

 

 
 

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