LA REALTÀ IN PRESA DIRETTA IN LA BOCCA DEL LUPO
di MARTINA BONICHI
Durante
un dibattito sul cinema documentaristico, intorno agli
anni Cinquanta, in un cineclub italiano, Joris Ivens raccontò come il suo problema fosse quello di
trovarsi là dove succedeva “qualcosa di importante per un futuro migliore del
mondo”. Un regista che, accanto ai grandi nomi di Flaherty, Grierson e Vertov, dedica
al cinema documentario la propria carriera, donando al suo lavoro un
particolare ritmo, al tempo stesso di furore ed esaltazione per l’impegno
sociale e politico che trasmette attraverso i suoi film, ma anche una peculiare
lentezza e precisione nella constatazione oggettiva di una realtà ripresa nella
sua immediatezza.
Ed
è accanto ad una figura di tale carisma che, nei primi anni Sessanta, si
avvicina il giovane cineasta Valentino Orsini, che nella figura di assistente,
lavora con lui a un film girato in Italia.
Il
richiamo ad un regista poliedrico come Orsini,
attraverso l’esibizione di alcune immagini tratte da un film che girò negli
anni Sessanta, Sopraelevata, è quello
al quale si affida il giovane regista italiano Pietro Marcello, vincitore
dell’ultima edizione del Festival di Torino, con La bocca del lupo.
Tra
il documentario e il melodramma,
nella messa in atto di un esibito sperimentalismo, attraverso cui il film si dà
a vedere, il regista accetta la sfida di un film su commissione e racconta la
storia di due emarginati, che innamoratisi in galera, si legano tra loro,
lasciando che il mondo li metta da parte. Un criminale ed una transessuale,
Enzo e Mary, si raccontano, prima di mostrarsi insieme di fronte alla
telecamera in una doppia intervista, attraverso le proprie voci e i propri
racconti. Messaggi d’amore sul nero di uno schermo introducono la storia ed i sogni, semplici, del tutto normali e di una ingenuità
disarmante, di due innamorati.
Bracci
meccanici lungo le rotaie di un treno e le macerie accumulate in una strada
sono le immagini che ritraggono la realtà che Enzo trova ad aspettarlo fuori
dalla prigione, mentre percorre una città che non è più quella che ricorda.
Veloci controcampi lasciano supporre che lui, seduto di fronte al porto,
ricordi come fosse la città quando, da bambino, v’è arrivato con i suoi dalla
lontana Sicilia, negli anni del boom, quando Genova era una città moderna.
Percorrendo
esitante i luoghi che anni prima aveva visto, quegli stessi luoghi dove altre
persone prima di lui erano state, nella figura del protagonista sembrano
fondersi quelle di molti destini, di gente messa al bando, che non trova
un’adeguata realtà nella quale inserirsi, che vaga senza meta in una città che
non riconosce e dalla quale non viene riconosciuto.
“Uomini ed ombre del nostro tempo”, sono le parole di una voce
fuori campo che apre il sipario su un lento susseguirsi di immagini che
raccontano il lungo cammino della città di Genova. I nuovi uomini non sono più
marinai ma trasmigratori, migranti, che si trovano
nella brutale condizione di emarginati ma che fanno della propria solitudine la
loro forza. Un campo lungo apre il film abbracciando il mare ed in una esplosione di luce compare il titolo: La bocca del lupo. “Ascolta la mia voce, ascolta la mia preghiera,
lasciati andare”, recitano le parole di L’eau
à la bouche, la canzone di Serge Gainsbourg, che narrano, accanto ai testi del poeta
Franco Fortini, e ricordando alcuni passi del romanzo omonimo di Remigio Zena,
della condizione di profonda solitudine, di miseria, che si trovano a vivere coloro che vedono aprirsi le porte di un carcere verso una
libertà che non si riconosce più, che lascia increduli, smarriti, profondamente
indietro rispetto al tempo che vede la nuova gente affollarsi nelle strade e
dove le macchine sfrecciano. Di nuovo, come prima di entrare in carcere, Enzo è
una facile preda di una realtà che sembra poterlo sbranare, così come la bocca
di un lupo.
Accanto
ad un lento racconto di voci sporche, di volti contratti, di realtà
disgraziate, si susseguono l’un l’altra le immagini di
un tempo che fu: le figure di chi si tuffa dal porto della città ricordano
certe fotografie dei primi Novecento di Muybridge, le
sue prime sperimentazioni, quelle che lo portarono, nello studio della
scomposizione del movimento, ai primi rudimenti di quello che fu il linguaggio
cinematografico. Certe immagini fumettistiche si lasciano abbracciare dall’eco
degli spari che raccontano del tragico e grottesco evento che portò Enzo in
prigione la prima volta. Accostate l’una all’altra, quasi a richiamare un
montaggio eisensteiniano delle attrazioni, le figure
generano da sole un proprio significato, intervallate dalla calma, lirica
presenza di una voce che cerca di dare un ordine ad un
caos immaginativo di figure che, veloci, si susseguono. Nelle immagini seppiate di inizio secolo si evidenzia un uso ipertestuale di
fotografie che ritraggono la città negli anni Sessanta, mentre quelle più
sporche, ombrate e sgranate sono le foto dell’oggi, quelle in cui il presente
si racconta attraverso i vicoli e i sobborghi, lasciando che il film si narri
da solo, attraverso uno stile ibrido, sui generis, del tutto inusuale nel
panorama italiano, doloroso ma anche fiero, misero e al tempo stesso cosciente.
Un luogo i cui emarginati protagonisti si mostrano desiderosi solo di raggiungere un semplice, banalissimo sogno: vivere lontano
da tutto, in campagna, distanti da una realtà che li rigetta.
Messaggi
d’amore, tra le lettere e le registrazioni, sono le didascalie sonore di un
inesorabile fluire del tempo, nella descrizione di figure verghiane,
un coro che si racconta nei sobborghi di Genova, nell’alternanza continua e
spasmodica di immagini di repertorio. Quando Visconti,
più di sessanta anni fa, mette in scena la parabola della miseria in La terra trema,
il tema della solitudine e di una folle lotta individuale sembra lui stesso a
viverla, come uno dei suoi pescatori protagonisti di Acitrezza,
quando in mezzo al mare, all’improvviso sentono sotto di loro le onde
ingrossarsi e una violenta tempesta distrugge ogni cosa, un’evoluzione
drammatica si fonde a delle precise leggi estetiche che qui, in nome di una
pretesa visione antinaturalistica, il film rigetta. Qui il mare è ripreso da
lontano: lo si contempla, lo si ammira, se ne ha
nostalgia ma la sua immagine evoca la figura del naufrago, del superstite il
cui fallimento si è compiuto sulla terra.
Ed
ecco ancora, prima che una voce over dia inizio all’epilogo, sfilare sullo schermo la realtà in presa diretta,
guardata attraverso un obiettivo, nel quale si riflettono le figure di marinai
stanchi, di pescatori ormai vecchi, lungo il porto di una livida città in cui,
come topi, si nascondono mascalzoni e transessuali, i reietti, i vinti della
storia, e dalla storia, che vede nuove costruzioni,
nelle immagini delle raffinerie e sulle macerie di una città, in cui i luoghi
che si attraversano raccontano dell’archeologia di una memoria, in cui solo il
moto ondoso del mare segna il fluire del tempo.