LA RICERCA
DELLA VERITÀ COME ANABASI ESISTENZIALE
Nel cinema
di Sean Penn
di ANDREA FONTANA
Non amore, non denaro o fama, datemi la verità.
Henry David Thoreau, Walden ovvero vita nei
boschi
Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore.
Addio e che Dio vi benedica!
Messaggio di addio scritto da Chris McCandless
prima di morire
Alla base
del cinema di Sean Penn, composto di tensioni narrative ed emozionali sempre
più al limite della rappresentazione, c’è una fondata ricerca della Verità che
caratterizza il percorso dei suoi personaggi. La Verità non appare come una
meta precisa verso cui tendere, non rappresenta un fattore esogeno alle
vicende, bensì è elemento intrinseco all’avvenimento, spesso celato, che si
confronta in maniera dialettica con chi popola il cinema di Penn. Il risultato
finale, dunque, appare come una pulsione naturale verso una sintesi, che non
sempre risulta riuscita né indolore.
Già nei
primi due lavori di Penn appare evidente come i personaggi tendano verso una
dimensione che è il più coincidente possibile con una verità esistenziale
capace di modificare la traiettoria autodistruttiva del loro essere, sebbene
l’apparato concettuale, comunque ancora grezzo e pedante, non sia accompagnato
da un adeguato corredo tecnico-emotivo.
La
promessa, terza
fatica di Penn regista, è rappresentativo di una ricerca della Verità che
assume i toni dell’ossessione per poi ampliarsi e abbracciare implicazioni
esistenziali. Il protagonista è Jerry Black, un detective in pensione che
decide di risolvere un caso di omicidio dove la vittima è una bambina,
ferocemente stuprata e torturata. Alla presenza della madre della piccola
vittima, il detective si fa coinvolgere più del dovuto e promette di trovare l’assassino. Promette
«sulla salvezza dell’anima sua», usando l’espressione della madre. Ormai fuori
dalle strutture ufficiali di investigazione, Jerry impegna tutto ciò che ha
nella ricerca di un uomo, ma non lo fa per spirito di giustizia o per uno
stampo etico radicale che contraddistingue il suo essere, egli tende
all’autodistruzione perché conscio che il risultato finale avrà conseguenze
esogene al solo caso di omicidio. In ballo c’è la salvezza di un uomo, la sua
integrità morale, la Verità del mondo e delle cose. È come se Jerry vedesse in
quel caso la chiave per interpretare il mondo e se stesso. La Verità, oggetto
tanto arcano da non essere visto dai suoi colleghi, finisce per divenire il senso ultimo
dell’esistenza del personaggio. L’anabasi si struttura su due livelli. Da una
parte l’investigazione in sé, che poggia su basi narrative solide ed evidenti,
le quali percorrono gli stilemi classici del genere, quali interrogatori,
paralleli, incroci, per poi perdersi nel labirinto di una non-soluzione. In
questo il film si presenta come la trasposizione cinematografica delle
intenzioni di Friedrich Dürrenmatt, autore dell’omonimo romanzo da cui il film
è tratto, ovvero come una lucida distruzione dell’ossatura principale del
genere giallo/thriller, un po’ come aveva già fatto brillantemente Clint Eastwood
con il genere western ne Gli Spietati (The Unforgiven, 1992). Dall’altra abbiamo il travaglio personale del
protagonista, che si trova addirittura di fronte a una svolta decisiva per la
sua vita: Jerry ha l’occasione di donare colore e felicità a una vita
altrimenti segnata dalla solitudine e dal grigiore della monotonia, può rifarsi
una famiglia con la nuova compagna e la figlia di lei, può abbandonare lo
squallore e il degrado con cui ha dovuto convivere per anni a causa del suo
lavoro. L’alternativa rappresenta proprio la strada necessaria per raggiungere
quella Verità esistenziale tanto agognata. Ma Jerry è accecato dall’ossessione.
Poco importa che egli avesse ragione circa l’identità dell’assassino, poco
conta il fatto che per puro caso non sia riuscito a svelare la Verità che
ostentava con isteria alla centrale di polizia, mostrando le prove di una
serialità omicida. La Verità è, in questo caso, non tanto l’identità
dell’omicida, non tanto la soluzione del caso, quanto la felicità che
avrebbe potuto condividere con la sua nuova famiglia.
Il film
propone una struttura circolare, come avverrà per Into the Wild. Nella Promessa c’è una sequenza insistita sul
corpo attoriale ormai alla deriva, totalmente annientato dal vuoto creato
proprio dal non raggiungimento della suddetta Verità e quindi dalla
consapevolezza di una solitudine dettata in primo piano dal proprio egoismo. Lo
stesso vale per il personaggio principale di Into the Wild, il quale, come vedremo, giunge
alla Verità solo pagando le conseguenze gravissime del proprio egoismo e della
propria cecità. Qui è la geografia ad essere al centro della ciclicità,
l’ambientazione scenografica (l’Alaska), non mero sfondo narrativo ma
protagonista assoluta dell’ultima pellicola penniana. A questo punto è rilevante
lo stretto legame fra l’incipit e il finale della pellicola. La prima immagine
vede una fotografia di Chris in secondo piano, che rimane sfuocata quando entra
in primo piano una donna che si sveglia e si dispera. La donna si rivelerà
essere la madre del protagonista. Quando la narrazione ha effettivamente inizio
(quando cioè Chris arriva finalmente nelle terre selvagge dell’Alaska), l’inquadratura è
dominata dal nulla e nella sua parte più estrema, a sinistra, scorgiamo un auto
avvicinarsi al limite “civile”, l’uomo che guida dice: «Non posso andare
oltre». Chris invece procede. Nel finale il padre (che all’inizio consolava la
moglie piangente) è steso a terra, disperato, conscio di un tragico vuoto
esistenziale. Proprio nel finale Chris, come vedremo, continua ad andare
“oltre”.
Se Jerry
Black fallisce la sua anabasi personale, mancando l’obiettivo della ricerca, il
protagonista del segmento girato da Penn per il film collettivo 11 settembre 2001 (11’ 09’’ 01 - September 11, 2002) raggiunge invece una
Verità che vorrebbe negata. Nell’unico cortometraggio girato da un regista
americano (non a caso il più lucido nel mettere in scena la portata
significativa dell’evento storico), un uomo vive convinto che la moglie amata
non sia morta. Penn lo riprende nella sua routine quotidiana, attraverso cui
l’uomo si auto-convince di una realtà che è effettivamente altra.
Il crollo
della prima Torre illumina la stanza dell’uomo, il quale prende coscienza di
ciò che non riusciva ad accettare. In un finale quasi surrealista, i fiori
ormai appassiti prendono vita, mentre l’uomo piange disperato l’assenza
dell’amata, sequenza ripresa quasi ironicamente in Into the Wild, quando l’anziano Frank parla
della luce di Dio e nello stesso momento il sole, prima nascosto dalle nuvole,
illumina le loro figure. Al di là dell’eccessivo simbolismo, che peraltro
caratterizzava anche un altro film fortemente politico come I Figli degli
uomini (Children
of Men, Alfonso
Cuaròn, 2006), ciò che ci interessa è che in questo caso la Verità assume i
toni di una tragedia senza soluzione. Se in La promessa la Verità avrebbe dato a Jerry la
soluzione definitiva ad una crisi esistenziale, il segmento sull’11 Settembre
sembra proporre un pessimismo radicale che inevitabilmente usa lo strumento
della metafora per affrontare un discorso più complesso (sebbene l’apparato
metaforico sia privo dell’astrattezza di Shohei Imamura, autore del segmento
che chiude il film, dove un uomo comincia a comportarsi come un serpente). Nel
discorso penniano, il cortometraggio sembra rappresentare una sorta di ponte
verso l’apertura di Into the Wild. Si parte da una Verità opzionale che sfugge a causa
dell’ossessione in La Promessa, si passa per una Verità obnubilata dalla paura della
solitudine che, una volta raggiunta, provoca coscienza da un lato e
disperazione dall’altro; si arriva infine alla Verità di Into the Wild in cui essa dona pace interiore
al protagonista ma a prezzo della sua vita. In ogni caso il raggiungimento di
una conoscenza assoluta delle cose comporta conseguenze di notevoli dimensioni
e di immanente tragicità.
Into
the Wild, oltre
ad essere il miglior risultato registico di Penn, è anche la naturale
prosecuzione di quanto detto finora, nonché l’ideale manifesto dell’anabasi
individuale. Il protagonista, Chris McCandless, intraprende un viaggio di due
anni che lo porterà ad attraversare buona parte del territorio statunitense,
fino all’Alaska, dove troverà la morte per inedia. Il suo vagare assume i toni
di una fuga, mascherata da viaggio di formazione. Chris quando incontra le
persone che andranno a costituire i riferimenti obbligati del suo viaggio,
ostenta una volontà di ricerca che punta ad approfondire la saggezza personale,
a mutare la percezione del mondo per arrivare a comprendere in maniera assoluta
l’esistenza, il sé, la contingenza. Apparentemente questo viaggio potrebbe
rappresentare la ricerca della Verità, che si struttura nell’andamento
schizofrenico costituito dal viaggio del protagonista, il quale diviene anabasi
grazie alle difficoltà, alle esperienze, agli incontri. Ma l’anabasi del
personaggio si discosterebbe in tal modo da quella descritta nei lavori
precedenti. Chris vuole raggiungere una conoscenza assoluta delle cose, intende
realmente diventare Sostanza, parte magmatica e fluida del Tutto. Ma nel fare
ciò perde temporaneamente di vista le motivazioni del viaggio che, compiendo un
movimento circolare e fortemente significativo, diventano gli obiettivi
essenziali grazie ai quali abbracciare la Verità.
Grazie
alla voce fuori campo della sorella di Chris, si intuisce quanto nelle scelte
esistenziali del fratello avesse un ruolo determinante il rapporto con i
genitori. L’ipocrisia che ha definito tale rapporto, la superficialità che ha
istituito i caratteri primi dell’affetto genitoriale, l’ambiente sociale
alto-borghese e un affetto posticcio hanno portato Chris a distaccarsi da quel
mondo, addirittura rifiutarlo, annullarlo, tramite il gesto importantissimo ai
fini concettuali della pellicola di cambiare nome: da Christopher Johnson McCandless,
identificativo di una vita priva di sincerità, amore, purezza, ad Alex
Supertramp (e in una fase intermedia Alex McCandless), rappresentante invece
della libertà e dell’anarchia cui aspira, anche ingenuamente, il personaggio.
Già in La
città incantata (Sen
to Chihiro no kamikakushi, Hayao Miyazaki, 2001) la coincidenza fra nome e personaggio era
indicativa del carattere individuale, che si esponeva ad un grosso cambiamento,
quello del passaggio all’età adolescenziale. Tale passaggio veniva effettuato
tramite la temporanea soppressione del nome, ma scaturiva da forze esogene, non
da una volontà consapevole, a differenza di Chris. Persino nel maestoso Miami
Vice (Michael
Mann, 2006) il cambio d’identità, e conseguentemente del nome, era identificativo
di un’immersione nella libertà più assoluta, scevra di regole e imposizioni,
quella libertà che il tassista Max in Collateral (Michael Mann, 2004) poteva solo
sognare attraverso lo sguardo, col vedere una cartolina.
A questo
punto il viaggio del personaggio non può assumere i toni del road movie (pur contenendo alcuni elementi
del genere), semmai quelli di una ricerca interiore che Chris insegue nella
dimensione che lo circonda, nella natura selvaggia, nel vivere senza regole, in
completa libertà, slegato dalle rigide imposizioni sociali e giuridiche che
costituiscono la spina dorsale della società contemporanea. È la reazione
perfettamente proporzionata alla claustrofobia che caratterizzava la sua
esistenza prima di intraprendere quest’avventura, nella quale gli incontri che
vanno a comporre le tappe del suo viaggio sono tasselli che lo spingono verso
una Verità più ampia e a un ritorno inaspettato. La scelta del regista di
suddividere l’anabasi in sezioni di apprendimento (dalla nascita alla saggezza)
non comporta necessariamente una crescita tout court di Chris; non a caso nel lungo
finale, indicativo delle intenzioni poetiche di Penn, egli arriva a
riconsiderare le scelte attuate finora e le convinzioni ideologiche che lo
avevano plasmato. Lo stesso Jon Krakauer, che ha scritto con passione e cura di
dettagli il libro da cui è tratto il film, afferma: «A differenza di Muir e
Thoreau, McCandless si avventurò nella foresta non tanto per riflettere sulla
natura e sul mondo in generale, quanto per esplorare il paesaggio interiore
della propria anima».
Nel
finale, Chris ormai morente si rende conto che «la felicità è reale soltanto se
condivisa». E questa
Verità gli è sempre stata suggerita nel corso del suo viaggio: era felice solo
quando in compagnia della sua nuova, ampia famiglia (Wayne, la coppia hippy, la
giovane adolescente innamorata, l’anziano che vuole adottarlo). Ma Chris era
ancora cieco per comprenderlo e aspirava a un totale sprofondamento nella
solitudine, il cui corrispettivo oggettivo era appunto il territorio splendido
e desolato dell’Alaska. Le similitudini fra Chris e Timothy Treadwell,
protagonista di Grizzly Man (Werner Herzog, 2005) potrebbero ingannare lo spettatore.
Entrambi i personaggi hanno fatto dell’isolamento e del contatto con la natura
selvaggia (l’Alaska) il motore primo delle proprie azioni, nonché il senso
ultimo delle loro esistenze. Entrambi sono stati travolti dalla propria
ingenuità idealistica. Ma se Timothy, come si evince dal film di Herzog, trova
nel contatto con gli orsi un motivo di vivere, un’alternativa all’alcolismo,
l’adrenalina necessaria per impegnarsi a raggiungere un obiettivo, Chris vede
nell’isolamento e nell’immersione in un ambiente ostile e primitivo la scelta
di aderire a un manifesto morale e intellettuale di lucidità sorprendente. Nei
diari ritrovati insieme alla salma di Chris questo è esplicito: la meta era
raggiungere una consapevolezza maggiore di sé. Nel film di Penn essa avviene
tramite un ideale ricongiungimento familiare.
L’Alaska
diviene dunque la meta, simbolo al tempo stesso dell’aridità necessaria a Chris
affinché egli raggiunga la Verità. L’anabasi non è costituita unicamente dalla
difficile vita di stenti che il personaggio deve affrontare nelle terre
estreme, ma
proprio dal percorso di solitudine che lo porta verso una Saggezza assoluta.
Ecco che nel finale, quando Chris arriva a comprendere la Verità a costo della
vita, egli abbraccia i suoi genitori riappropriandosi di una dignità
esistenziale che lo aveva tormentato da sempre. La mdp compie un movimento
ascensionale in dolly (alla maniera di Tarkovskij in Solaris, 1972) che porta Chris oltre le
sue spoglie mortali, oltre il limite fisico della conoscenza, verso uno sguardo
che finalmente coglie il tutto nell’attimo, portandolo a chiederci:
«Riuscireste a vedere quello che vedo io?».
La Verità
coincide con il saper finalmente vedere.