AUTOPSIA PER IL DOLORE
su Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (2009, di Werner Herzog)
di MAURIZIO INCHINGOLI
Un
serpente oscuro si aggira per le carceri di New Orleans appena inondate dalla
forza distruttiva dell'uragano Katrina. Insegue una traiettoria sinuosa, fino
ad arrivare al corpo quasi esanime di un detenuto che verrà salvato dal
coraggio cieco ed inaspettato di Nicolas Cage/Terence McDonagh, poliziotto
esperto di questa città-approdo che lavora fondamentalmente per se stesso, e
per i suoi numerosi guai personali. Nel disgusto, nella disgrazia di vivere una
condizione umana costretta a scendere a patti con la normalità, nella stringente
consapevolezza di stralciare la vita a suon di abuso di droghe e frequentazioni
poco ortodosse, specie per un uomo della legge. Senza la religione però, come
invece accadeva in quel capolavoro imperfetto delle anime perse di Abel
Ferrara, da cui questo film trasfigurato di Werner Herzog trae ispirazione. Lì era la
redenzione tutta cristica di Harvey Keitel a rimanere schiacciata tra le tare di un
fardello para-religioso, filosoficamente ingabbiato in un irrisolto rapporto
col mondo. Quì invece è la sola forza della natura umana, quindi
pericolosamente fallace, a rimanere ingabbiata attraverso i buchi della
memoria, senza costrutto religioso, celato sotto una coltre nero pece di
disperante forza vitale, con il corpo contuso, rovinato dalla salvazione
materiale, senza spirito, di un essere umano, in una missione volta a
parodizzare una figura, quella del poliziotto, che fa una gran fatica a
rimanere integerrimo di fronte al peccato, al puro fluire dei desideri, alla
sottrazione della morale, alla morte sfidata...
L'incedere drogato,
alterato della pellicola, che si fregia di ottimi comprimari di primo piano
come Brad-corpo consunto-Dourif e Val-pigface-Kilmer, è inscenato come un treno che viaggia a mille
verso una destinazione incompiuta, dalle numerose difficoltà, in un pedinamento
assai perverso, volutamente psichedelico, tutto rivolto verso una consunzione,
ancora, che davvero porta solo all'autodistruzione, quasi come nei personaggi
di quel disastroso e mostruoso road-movie che portava la firma di un genio folle della penna come Hunter S.
Thompson, Paura e delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998) per la regia di Terry
Gilliam. Un altro informe, chimico viaggio al termine dell'uomo che vedeva
protagonisti i due corpi distorti per eccellenza come quello di Johnny Depp e
di Benicio del Toro. Lì il risultato sembrava a dire il vero maggiormente folkloristico, mentre nel lavoro del regista di Woyzeck (1979)
il connubio droghe-immagini-musica si fa vero tour de force al limite della
sopravvivenza post-umana. Con risultati altrettanto mostruosi, in una caduta
all'inferno che ci lascia esterrefatti, annichiliti, come davanti ad una insana
e nera slapstick-comedy d'altri tempi girata da un demiurgo come Orson Welles,
che si mette a sniffare coca e a non dormire la notte pur di portare a termine
l'ennesima operazione falsificata, come in un Infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) monstre, come un noir
senza la femme fatale, senza la chiara, classica, santa trinità costituita
dall'omicida, il poliziotto e l'amante dei due uomini che tesse la tela della
storia. L'ombra lunga di un altro grande regista teutonico che ha fatto cose
egregie a Hollywood come Fritz Lang aleggia nascosta e quasi sorniona nel farsi
di questo lavoro sulfureo. Nicolas Cage, come un Edward G. Robinson moderno,
più scafato, si muove però più impacciato, storto, dinoccolato, tra le mille
difficoltà che sono disseminate ad arte sulla sua strada, sembra aver preso a
cuore il suo personaggio, pare quasi indossare una maschera sardonica che sa
tanto di diabolico e cinico proclama di morte, affiancato da una spalla
efficace come quella di Frankie, impersonata da un'affascinante e misteriosa
Eva Mendes. Quella morte che sfida come fosse un giocattolo, a colpi di
scommesse, di fiducia mal ripagata di fronte al suo angelo custode impersonato
da un grande e saggio Vondie Curtis Hall, regista-autore misconosciuto di un
piccolo gioiello drogato per davvero e altamente politico a nome Gridlock'd (1997) col rapper Tupac Shakur, e
splendida spalla ragionevole che ricorda tanto quella di Edward James
Olmos/tenente Martin Castillo che reggeva le sorti di un duo di malcapitati
poliziotti a Miami in Miami Vice (2006) di Michael Mann. Le assonanze col capolavoro,
versione televisiva compresa, del regista di Manhunter-Frammenti
di un omicidio (Manhunter, 1986) sono tante e
ragionevolmente nascoste agli occhi più distratti, mentre i più attenti
vedranno certamente un uso delle location e del mood musicale veramente
gemello, cadenzato, come in uno standard blues impazzito che accompagna
stridulo questi frame talmente vitali da togliere il fiato. Nelle scene di
maggiore impatto la sfida di Herzog si fa via via sempre più dissonante,
caotica, come un cervello che perde la bussola, come un corpo che gira stravolto
su se stesso, intercalato in una musica, quella di Mark Isham, non a caso
autore anche delle musiche del primo episodio di Miami Vice, che sicura arpeggia aliti di
morte con quelle sue note di chitarra livida che evocano sinistre ambientazioni
che tanto devono al lavoro secco ed evocativo di un genio come Ry Cooder, al
riparo da inutili barocchismi musicali, adatti solo per una zona paludosa,
stagnante, dove il cielo si è fatto tutt'uno con la terra melmosa in un vortice
di distruzione che porta solo al grado zero del principio vitale. Da queste
macerie si alza il grido di dolore del tenente McDonagh, che perso nei suoi
dèmoni, sbraita la sua liberazione, vede allucinazioni sottoforma di immobili
iguane farsesche, girate dallo stesso Herzog in un digitale sporco e finalmente
vero, per niente sovra-prodotto, solo un indispensabile v(u)oto tecnologico che
serve a ri-creare quella malsana sensazione che proviamo a descrivere (pur non
riuscendoci del tutto, dobbiamo ammettere) e nella quale assecondiamo tutte le
nostre paranoie come davanti ad una situazione che provoca nausea e divertita
presa di coscienza di esseri al culmine della disperazione, tuttavia riuscendo
a vivere fino in fondo la nostra condizione umanimale. A tal proposito fa al caso
nostro questa sincera affermazione sadica di Louis-Ferdinand Céline: se non mettete la
vostra pelle sul tavolo, è pura tiritera. Il protagonista del nuovo Cattivo Tenente sembra far suo questo assunto
estremo, con la quale siamo totalmente in sintonia, e si batte fino al limite
delle sue forze per riuscire in un'impresa disperata, quella di recuperare
soldi, prestigio, rispetto davanti ai suoi superiori ed alla sua famiglia. E ci
riesce pure.
Herzog
quindi inscena una follia tutta nascosta, a prima vista, celando le armi del
noir e del film violento, ma ad un tratto queste strutture mentali e fisiche si
palesano animalesche, altamente sadiche – la lezione del lavoro con Klaus
Kinski è servita pur a qualcosa – accompagnate dalle musiche indigene di
artisti legati al blues del Delta, a quel recupero e rispetto delle radici
basato sulla musica degli afroamericani che ha i suoi numi tutelari in mostri
sacri come Robert Johnson e Blind Willie Johnson – ci viene in mente a
questo proposito la splendida atmosfera della sua moaning-song Dark was the
night, cold was the ground – musiche certamente minori quelle di questo film, ma
sicuramente e doverosamente speculari all'ambiente e all'atmosfera nella quale
queste note isteriche si dipanano con pura forza distruttiva, in una perversa
dicotomia immagini-suono perfettamente riuscita. Una dicotomia tra due elementi
che apparentemente non vanno a braccetto, che si scontrano e provocano numerose
scintille, come quelle degli occhi di Cage, splendido corpo intrappolato in
un’idea di uomo dalla quale sembra voglia distaccarsi con violenza, ma che non
ci riesce del tutto, condannato eternamente a soffrire, ad esercitare
continuamente su di sé questa autoptica prova di sopravvivenza che si fa
cadavere ogni volta che sfida la sua carne. Un acre olezzo di morte esala da
queste immagini così perfette, livide, e si alza al cielo la sola forza del
pensiero nero, quello in grado di conservare a lungo un corpo che non c'è più,
fattosi mente e macchina perfetta. Come l'idea di cinema di Herzog, una serie
di eventi che hanno a che fare con la natura e la sua forza creatice,
selvaggia, racchiusa come uno scrigno esotico dell'anima in uno dei finali più
belli visti ultimamente al cinema: dietro un fondale marino, davanti a questa
gabbia per animali acquatici, il tenente e la sua salvata figura-simulacro
fattasi uomo, discettano sul senso della morte col sorriso beffardo sulle
labbra, e riflettono amaramente sulla consapevolezza di aver avuto ancora una
volta un'altra possibilità di salvezza.