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THE ADDICTION

 

QUEST’ATOMO OPACO DEL MALE

 

di ELISA SUBINI

 

 

 

Tra filosofia e teologia nel Bronx degli anni Cinquanta

 

 

Abel Ferrara nasce nel Bronx nel 1951 da una famiglia di italo-irlandesi.

Il nonno è la figura centrale della sua infanzia, un salernitano emigrato

negli Stati Uniti all’inizio del secolo che si è sempre rifiutato di integrarsi.

Il padre bookmaker era anche un giocatore: «come uno spacciatore che si droga» [1] ,

commenta il figlio. Probabilmente perché il padre si è messo nei guai, a 13 anni Ferrara

si trasferisce nella periferia povera di New York, dove stringe amicizia con

Nicholas St. John, suo futuro sceneggiatore. Nei primi anni Settanta, ispirati dai

Rolling Stones, formano insieme un gruppo rock con Ferrara come cantante.

«I film – ricorda Ferrara – sono venuti dopo, quando abbiamo capito che non

avremmo mai potuto comporre merda di valore» [2] . Tuttavia, le loro canzoni

seguiranno i loro autori, entrando spesso a far parte delle colonne sonore dei loro film.

Il suo primo lungometraggio è un film hard, Nine Lives of a Wet Pussy (1977)

Nessun critico è mai riuscito a vederlo e Ferrara ha fatto del suo meglio per

tenerlo nascosto, anche perché pare vi figuri, oltre che come regista, anche

come attore. Dietro alla ridda di pseudonimi che affollano i credits del film

figurano i futuri collaboratori del cinema di Ferrara, tra cui anche St. John,

che scrive la sceneggiatura e compare in un ruolo non hard [3] .

Di St. John – pseudonimo misticheggiante atto a creare un alone di mistero

intorno alla sua figura – si conosce molto poco. Di origine calabrese, ha

sposato un’italiana. Il suo legame forte con il cattolicesimo si coniuga con

una formazione classica e successivamente con gli studi in filosofia e teologia

in Germania. Insegna catechismo ai bambini di una piccola città fuori New York,

dove vive con la famiglia. In una delle poche dichiarazioni rilasciate afferma:

«L’unica cosa che ho da dire è “Amate Dio e amiamoci tra noi, è questa la verità

della vita ed è quello che i film cercano di dire”» [4] .

Il punto di vista di credente praticante di St. John rappresenta la controparte dialettica dell’inquietudine religiosa di Ferrara, che così parla dell’amico: «La fede è parte integrante della sua vita. Per lui la Bibbia è la verità. Sa esattamente in che cosa crede. Anche se la questione sembra facile, io non posso rispondere così. La risposta di uno come Nicky St. John è semplice: Gesù ha parlato agli uomini (…). Il punto principale per me è che da una parte lui è credente, dall’altra che questa è la cosa più dura del mondo. Io sono un credente, ma sono un praticante? La differenza fra me e Nicky parte qui» [5] . St. John è la dottrina, il dogma; Ferrara il dubbio che scaturisce dalla frizione con la realtà. «Mi interessa – confessa Ferrara – chiunque tenti di mettere ordine nel caos e di comprendere che cos’è la vita; non può trattarsi di qualcosa di inesplorato o apocalittico. Quindi mi interessa anche Heidegger e la filosofia negativa» [6] . L’opera di Ferrara scaturisce dal continuo dialogo tra il pensiero inquieto e interrogante del regista e la fermezza teologica dello sceneggiatore, tra la filosofia e la teologia. Abel Ferrara e St. John vedono dunque nel cinema la possibilità di indagare il rapporto con Dio, un rapporto per nulla pacificato, che implica innanzi tutto un confronto e scontro fra due spinte dell’animo umano che sembrerebbero apparentemente antitetiche, il desiderio di dissoluzione morale e quello di salvezza. Come spiega bene Pezzotta: «I personaggi drogati, omicidi e autodistruttivi dei film di Ferrara sono il teatro migliore per i drammi metafisici in cui lottano colpa e redenzione» [7] .  

 

Un film di genere. E nulla più?

 

The Driller Killer (id., 1979) è il primo film ufficiale di Ferrara. Racconta la storia di un pittore che diviene un serial-killer. Fin da questo momento Ferrara e St. John nutrono piena fiducia nel fatto che la rappresentazione del peggio, ossia del sacrilego, della sopraffazione, del delitto e del degrado umano, comporti la possibilità di un accesso alla dimensione del sacro: «Per noi il sangue non è un effetto speciale, ma qualcosa che riflette la realtà del mondo. Nel mondo accadono cose orribili, e noi non cerchiamo di nasconderlo. Ma non si tratta di spettacolo. Quello che conta è che a qualcuno venga fatto del male. Diventa un problema religioso» [8] . Il trattamento della violenza non è quindi mai sensazionalistico: anche l’immagine più scioccante – come quella del trapano che affonda nel cranio di una vittima innocente – ha una sua ragione. E ce l’ha proprio perché gratuita, inspiegabile: «Non so cosa renda la gente violenta, ma so che è lì fuori e anche dentro di me. E mostrando la violenza, cerchi di confrontarti con essa» [9] . Non si tratta quindi semplicemente di constatare la violenza, come anche il male o il vizio, bensì di intraprendere un cammino personale, un’esperienza innanzi tutto interiore, dalla quale può scaturire un reale cambiamento [10] . poiché

Di questo parla anche The Addiction. Il film tuttavia conduce con radicalità ancora maggiore un’indagine sulla natura umana: perché l’uomo commette il male? Siamo forse ontologicamente malvagi? Tale questione, posta al centro dell’attenzione fin dalle prime scene, è sviluppata all’interno delle maglie del genere, che il film in qualche modo fa esplodere e alla fine snatura. Tutto il cinema di Ferrara è giocato su questo contrasto: affrontare le più complesse questioni esistenziali e metafisiche attraverso film di genere. The Driller Killer è un film horror come The Addiction. Nel caso di The Bad Lieutenant possiamo parlare di un poliziesco. Seguono poi un film di fantascienza come Body Snatchers (Ultracorpi - L’invasione continua, 1993) melodrammi metacinematografici, come Dangerous game (Occhi di serpente, 1993) e Blackout (id., 1997), e film gangster, come King of New York (id., 1990) e The Funeral (Fratelli, 1996).

Specie agli inizi della sua carriera, i film di Ferrara sono stati letti come film di genere che manifestavano ambizioni d’autore. In realtà, come sottolineato da Pezzotta [11] , si tratta piuttosto di film d’autore che fanno leva sugli stereotipi anche più rozzi dei film di genere: solo in questi ultimi è possibile trovare le rappresentazioni estreme e “all’ingrosso” del male, che il regista poi ricontestualizza all’interno di un progetto più sfaccettato. In The Addiction, per esempio, siamo messi di fronte, da una parte, a considerazioni sul libero arbitrio su alcuni protagonisti della filosofia occidentale e sugli orrori della storia; dall’altra a morsi e sangue (tale contrasto è presente anche nella colonna sonora, in cui lo slang dei pezzi rap si accompagna alla musica di Vivaldi e a Eine Sylvesternacht di Nietzsche). La scelta di fare un film di vampiri è spiegata da Ferrara stesso con queste parole: «È un racconto popolare che esiste in tutte le culture del mondo. È qualcosa di radicato nell’anima umana. L’idea dell’immortalità. L’idea della vita di notte. L’idea di nutrirsi del sangue degli altri» [12] . Ferrara vuole quindi far leva su un sentire comune, giocare su un terreno noto e largamente accessibile per affrontare i problemi più inquietanti dell’esistenza. Il mito del vampiro diviene il teatro di indagine della questione del male e della dannazione eterna: «La gente si aspetta certe cose quando si parla di “film di vampiri”; ma noi gli proponiamo qualcosa di diverso: una tragedia morale dietro un film di vampiri» [13] .

Dunque, il bianco e nero in The Addiction non è volto solo a eliminare l’equivoco dello splatter-movie. È posto anche in continuità con gli archetipi dei film sui vampiri (pensiamo ai primi rappresentanti del genere: Nosferatu di Murnau [id., 1922], Dracula di Browning [id., 1931], interpretato da Bela Lugosi, e Vampyr di Dreyer [1932]). Il dominio dell’oscurità sulla luce è la rappresentazione cromatica di una realtà cupa, in cui il Male sembra prevalere nella sua lotta eterna contro il Bene; una realtà descrivibile solo attraverso sfumature del grigio, dissolvenze sul nero e inquadrature di un niente che fa da sfondo a un mondo incomprensibile.

Ferrara, rispetto ai modelli precedenti, elimina la cornice melodrammatica comune a numerosi film sui vampiri. In The Addiction non troviamo più il sacrificio dell’innocente (pensiamo a Ellen in Nosferatu o Mina in Bram Stoker's Dracula di Coppola [1992]), bensì il sacrificio di chi da vittima si è trasformato in carnefice, come era già accaduto in Ms. 45 (L’angelo della vendetta, 1980) Inoltre il rapporto eros-thanatos viene svuotato della componente sentimentale e romantica (ravvisabile, ad esempio, nel rapporto passionale fra Mina e il principe Vlad nel Dracula di Coppola). La dinamica del desiderio e del piacere si dà piuttosto nella forma dell’inclinazione della vittima al cedimento, nell’esperienza dello smarrimento, della perdita di sé. La macabra orgia finale è il climax di questa stretta relazione tra piacere della carne e perdizione morale, in cui riecheggia il tradizionale tabù cattolico del sesso. Non a caso il vampiro a cui Kathleen non saprà dir di no è un’attrice femminile, il cui nome – Casanova – allude chiaramente alla seduzione del male [14] .

Infine, i vampiri di The Addiction sono dei tossici, dipendenti dalla più potente droga del mondo: il male. Il titolo stesso indica questa dipendenza: «“Addiction” significa tendenza, forte propensione a qualcosa. Nello slang significa anche dipendenza dalla droga o dall’alcool» [15] . Lapidarie in tal senso le parole di St. John: «La nostra dipendenza dal male: ecco quale è la nostra reale droga. Ecco quale è la nostra lussuria sanguinaria» [16] .

In The Bad Lieutenant [17] c’è una sequenza in cui droga e vampirismo sono comparati in modo esplicito: «I vampiri sono fortunati. Si nutrono degli esseri che trovano. Invece noi [drogati] divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare per poter andar via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo. Dobbiamo divorarci da soli finché non resta nient’altro che la fame». In The Addiction questa distinzione cade: tossici e vampiri sono accomunati dall’esperienza del “dipendere da”. Ma tale dipendenza, almeno in uno stato germinale, è cosa di tutti noi. Ed è proprio in questo senso che la questione del male viene radicalizzata.

Inoltre, come spiega Pezzotta, il vampiro può essere visto come «una specie di Cristo rovesciato che ruba il sangue anziché donarlo, perché usa gli stessi strumenti della redenzione, ma li perverte» [18] . Cristo è infatti l’unico che si dimostra estraneo alla logica del divorare e divorarsi senza senso, accettando la propria morte per dare nuova vita ai suoi figli.

 

Pecco, ergo sum?

 

Il film inizia mostrando le foto del massacro di My-Lai, in cui un gruppo di soldati americani trucidò l’intera popolazione di un villaggio vietnamita. In seguito la protagonista vede una mostra fotografica sull’Olocausto e un servizio televisivo sulla pulizia etnica dei serbi.

Le parole del filosofo spagnolo George Santayana (1863-1952): «coloro che non imparano dalla storia, sono destinati a ripeterla» sono per Kathleen una menzogna poiché secondo lei «la Storia non esiste», ossia non può in alcun modo essere – secondo il detto ciceroniano – magistra vitae. All’uomo non è dato apprendere nulla dall’esperienza storica, né migliorarsi in base ad essa. Neppure è possibile riscontrare una Provvidenza, in base a cui i fini particolari di volta in volta assunti dagli uomini possano essere interpretati come un che di strumentale al disegno divino. Parimenti risulta vano appellarsi a una filosofia della storia, dal momento che il passato non è pensabile come una concatenazione di eventi dotata di una sua intrinseca e necessaria ragion d’essere: vige una cieca voluntas schopenhaueriana.

Kathleen non solo constata come le azioni malvagie si siano sempre ripetute nel corso del tempo – e con quale crudeltà – ma scopre anche dentro di sé quella folle propensione a propagare il male in cerchi sempre più ampi. Sono allora i singoli ad essere colpevoli, oppure lo è piuttosto l’umanità nel suo complesso?

Il professore di Kathleen propone di risolvere “filosoficamente” tale quesito. Nel corso di una lezione vengono citati e poi annotati alla lavagna i punti di riferimento di quella che può genericamente dirsi “filosofia esistenzialista”: in particolare L’essere e il nulla di Sartre, Essere e tempo di Heidegger e  La malattia mortale di Kierkegaard (vengono anche citati le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica di Husserl e La volontà di potenza di Nietzsche).

Kathleen, tuttavia, rifiuta l’insegnamento libresco, accademico e astratto: non v’è niente di più lontano dalla sua esperienza personale, individuale, “esistenziale” appunto. La concettualizzazione didattica e manualistica, nel suo sforzo di generalizzazione, contravviene a pieno titolo all’appello al singolo di Kierkegaard, quell’appello a cui Kathleen ha saputo dare ascolto vivendo il male in prima persona invece di limitarsi a discettare su di esso. Mostrando come anche l’esistenzialismo possa essere equivocato e trasformato in un astratto elenco di filosofi da conoscere, Ferrara prende esplicitamente le distanze da quello sterile filosofeggiare che non riguarda in primo luogo la vita stessa, ma costituisce piuttosto un’evasione dalla sua problematicità. Il rimprovero che Kathleen muove al suo professore dà voce proprio a questa convinzione: «Non è lei che rifiuta la filosofia speculativa? Io comincio ad accettare la mia esistenza, ad applicare a me stessa quello che ho appreso». E più oltre, di fronte alla commissione di laurea: «La filosofia è propaganda. […] L’essenza viene rivelata dalla prassi. Le parole del filosofo, le sue idee, le sue azioni, non si possono scindere dai suoi valori, dai suoi intendimenti». L’esistenzialismo, e più in generale la filosofia, non è per Kathleen una dottrina, ma un metodo di indagine. E ciò che va indagato è l’agire, perché nell’azione risiede la scelta e quindi la morale.

Ma questa indagine porta Kathleen a scoprire che il male è una dipendenza, un vizio che ci rende tutti schiavi. Commettere il male non è solo frutto di un’inclinazione, ma è un bisogno, una necessità. Se il male è una dipendenza allora «l’appetito è insaziabile» e «la colpa è eterna». «La dipendenza ha una duplice natura. Da una parte soddisfa lo stimolo che scaturisce dal male, dall’altra ottunde la percezione del nostro stato. Come l’alcolizzato che beve per dimenticare di esserlo. L’esistenza diventa la ricerca di sollievo dal vizio, ma il vizio è l’unico sollievo che possiamo trovare». È data una via d’uscita da questo circolo vizioso? La consapevolezza della propria natura malvagia può essere decisiva per la salvezza?

Il determinismo propugnato dal professore a lezione sembra inequivocabile: da una parte stanno i non salvati, i predestinati all’inferno; dall’altra i credenti. I primi non sono consapevoli del peccato, non hanno rimorsi perché non riconoscono che il male esiste; gli altri invece possono sperare nella Grazia, poiché sono spinti dalla sofferenza e dal senso di colpa a cercare il perdono e la libertà. «Il senso di colpa ci dice che Dio disegna il nostro destino», così sentenzia il professore, evidenziando come la sofferenza possa costituire un veicolo di salvezza.

Casanova sembra essere ancora più radicale: l’unico possibile margine di scelta per l’uomo è quello dell’accettazione della propria natura malvagia. Si può raggiungere la serenità solo se si è in grado di fare le giuste distinzioni: «Non siamo cattivi a causa del male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo cattivi. Che scelta ha gente come noi? Direi che non abbiamo altre opzioni». Dunque, il senso di colpa non è più un indice della grazia, come presuppone il professore, ma dipende da un errore di prospettiva.

Saranno altri due incontri cruciali a mettere in dubbio il determinismo postulato dal professore e vissuto da Casanova. Il primo avviene con Peina, un maestro-asceta che ha imparato ad “astenersi”, a non farsi travolgere dal male, integrandolo in una condotta di vita apparentemente rispettabile. La figura del vampiro viene qui del tutto spogliata dei suoi tratti romantici e mostrata in una sinistra “normalità”. La sua vera natura si nasconde dietro un conformismo di facciata: si vanta di avere un lavoro, di riuscire a defecare e a bere il tè come tutti. Peina dimostra così a Kathleen che, oltre alle due vie individuate dal professore, è data una terza opzione: è possibile imparare a gestire la propria natura malvagia attraverso un’economia delle risorse, a regolamentare la propria vita di vampiro addestrandosi alla rinuncia. Grazie a questa capacità di autocontrollo lui è in astinenza da 40; i suoi maestri sono i tibetani, coloro che sanno vivere quasi con niente.

Perché anche Kathleen impari a convivere con fame e insoddisfazione non basta però che legga Il pasto nudo di William Borroughs: deve sperimentare sulla sua pelle cosa sia veramente l’astinenza e cosa comporti perseguirla fino in fondo. Una volta in preda alle convulsioni per la fame, Kathleen si rende conto che non è in grado di seguire la via indicata da Peina.

È a questo punto che si fa strada più esplicitamente una seconda alternativa alla concezione del pecco, ergo sum. Si tratta della via della fede, una possibilità che si nasconde tra le pieghe del film per essere esplicitata nel finale. Tale prospettiva è chiamata in causa ogni qual volta il concetto di libero arbitrio interviene a porre in discussione il determinismo che grava su Kathleen. Ciò avviene, per esempio, nella chance che il vampiro offre alla vittima nel momento in cui le chiede di allontanarlo con convinzione. In questo modo Ferrara sottolinea la dimensione della scelta così come la intende Kierkegaard, come «la possibilità angosciosa di potere». Ma potere cosa? Uscire dal piacere dell’inerzia. Tale piacere è la vera arma di seduzione del male, il quale è visto non solo come un’azione, ma anche e soprattutto come uno stato di resa [19] . Di fatto però nessuno riesce ad opporsi al morso del vampiro. Kahtleen viene esplicitamente definita «collaborazionista» da Casanova; e l’ingenua studentessa di antropologia viene rimproverata di non essersi opposta con fermezza: «È stata tua la decisione», le dice Kathleen.

Solamente un personaggio si rivela in grado di opporsi radicalmente al male e, non a caso, è un sacerdote. Attraverso il suo no risoluto irrompe esplicitamente nel film la religione, scardinando definitivamente l’impianto filosofico-morale di tipo deterministico che ha accompagnato Kathleen fino a quel momento, e che già era stato in parte scosso dall’esempio di Peina. Nella sequenza in ospedale Casanova si allontana per l’arrivo di un sacerdote (interpretato da un prete vero!), al quale Kathleen chiede perdono e benedizione. Nella scena successiva vediamo la protagonista porre sulla propria lapide un fiore e leggiamo, oltre alle date della propria nascita e morte (a cavallo del giorno dei Santi), il versetto di Giovanni: «Io sono la resurrezione».

Tutto ciò sembra confermare la prospettiva pienamente cattolica in cui si inserisce il film. Difatti, la vera dannazione per il cristiano è la convinzione che non possa esserci salvezza, la convinzione che l’uomo possa fare a meno di Dio. Rifiutare il progetto salvifico divino è l’unico peccato imperdonabile. Tutti gli altri sono perdonabili se si è disposti a cambiare [20] . E così avviene per Kathleen, il cui cedimento nei confronti del male si è convertito in resa fiduciosa e umile al perdono di Dio. Attraverso il riconoscimento della propria fragilità ha fatto spazio a ciò che trascende tale fragilità. L’abbandono del divino ha portato in extremis all’abbandono al divino [21] .

Eppure già due volte avevamo visto Kathleen tentare di uccidersi – tagliandosi le vene da Peina e all’ospedale – e in tutti e due i casi le era stato ricordato che ciò che è morto non si uccide. Come ha fatto allora a morire «se, in quanto vampira, aveva davanti a sé un’eternità di sofferenza? St. John risponde che “è il vampiro che è in lei che muore”, Kathleen risorge e “la persona è liberata di fronte alla vera luce”». [22] Anche l’ultima inquadratura del film focalizzata su un crocifisso può essere vista in questo senso. È ancora St. John a confermarcelo: «Perché una croce annienta un vampiro? Bisogna risalire alle origini e capire che un vampiro rappresenta il male e che la sola cosa che viene a capo del male è il bene» [23] .

Eppure la frase finale pronunciata da Kathleen di fronte alla propria tomba potrebbe rimettere in discussione ciò che sul piano religioso sembrava risolto con l’approdo alla benedizione in Dio: «Affrontare ciò che siamo veramente. Ci esponiamo alla luce e la nostra vera natura viene rivelata. La rivelazione del sé è l'annichilimento del sé» [24] . Si tratta forse della conferma estrema di una raggiunta prospettiva religiosa, all’interno della quale l’annichilimento corrisponderebbe all’idea cristiana di rinnegamento di sé e abbandono a Dio?

  [25] . Oppure, come sembrerebbe indicare il finale di Blackout [26] – non a caso primo film dopo l’uscita di scena di St. John – la morte può forse essere vista come rifiuto estremo di una realtà totalmente negativa, come scelta del nulla di contro ad un essere irrimediabilmente corrotto e degradato?

La rappresentazione del male in The Addiction farebbe forse propendere per questa seconda ipotesi. Siamo ben lontani infatti dall’immagine pacificata che di esso ne fornisce il Catechismo della Chiesa cattolica: «Non c’è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male. [...] Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene» [27] . Si tratta piuttosto di un cancro che si diffonde a macchia d’olio, contagiando chiunque incontri lungo il suo cammino. Un male endemico e perverso che, prima ancora di diventare protagonista della scena, si staglia all’orizzonte con le sue tinte oscure, rendendo sfuggevole ogni possibile via di scampo e lasciando in sospeso ogni presunta catarsi finale.

 



[1] Cit. in Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, Le Mani, Genova 1998, p. 34. La figura del padre è riconoscibile nel personaggio di Harvey Keitel in The Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992), poliziotto-bookmaker con il vizio del gioco e della droga.

[2] Ibidem, p. 31.

[3] Cfr. Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, Il Castoro , Milano 1998, pp. 16-19.   

[4] Cit. ibidem, p. 17. Cfr. anche Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., p. 46.

[5] Cit. in Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., p. 50.

[6] Ibidem, p. 32.

[7] Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, cit., p. 14.

[8] Così spiega St. John in una rara intervista televisiva riportata da Alberto Pezzotta (ibidem, p. 13).

[9] Ibidem, p. 11.

[10] Il sangue di Ferrara non può quindi essere confuso con quello splatter di Tarantino: è sangue liturgico, mai volto alla spettacolarizzazione (il bianco e nero di The Addiction [id., 1994] sembra muoversi anche in questa direzione scarnificante). È simile piuttosto al sangue di Scorsese, fondamentale punto di riferimento nella crescita artistica di Ferrara: entrambi newyorkesi, italoamericani e di formazione cattolica, entrambi ambientano nella città di New York le loro parabole religiose di autodistruzione. Così Scorsese parla di The Bad Lieutenant: «È uno dei più grandi film che siano mai stati fatti sulla redenzione… Fino a che punto si è disposti a scendere per trovarla… Avrei voluto che L’ultima tentazione di Cristo gli somigliasse» (Ibidem, p. 56).

[11] Cfr. Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, cit., p. 13 e 75.

[12] Cit. in Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., p. 184.

[13] Cit. in Pierpaolo Loffreda, Viaggio all’inferno senza ritorno, in Cineforum, n. 386, luglio-agosto 1999.

[14] Riguardo alla figura del vampiro nel cinema e agli sviluppi del genere horror si vedano: Kim Newman, L’Horror in Il cinema americano, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 2006, vol.1, pp. 850-863 e Simona Marani, Horror. Sedotti e abbandonati in Fino all’ultimo film L’evoluzione dei generi nel cinema, a cura di Gino Frezza, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 297-324; Giorgio Cremonini, Viaggio attraverso l’impossibile. Il fantastico nel cinema, Edizioni di Cineforum – Edizioni ETS, Bergamo – Pisa 2003, pp. 97-105.

[15] Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., p. 190.

[16] Cit. ibidem, p. 49.

[17] È interessante ricordare la giustificazione data da St. John per la sua mancata collaborazione: «Interrogativi troppo grossi, ai quali, come cattolico, non credo di essere pronto a rispondere» (Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, cit., p. 54). Ciò che un cattolico come St. John non potrebbe mai accettare di questo film emerge proprio nelle parole con cui la ragazza drogata commenta la condizione umana. Esse mettono in dubbio che la morte di Cristo sia servita a qualcosa: «Perché l’hai fatto? Ti abbiamo già dimenticato la mattina dopo. Peccato».

[18] Ibidem, p. 77.

[19] Questo processo di cedimento al male come complicità e desiderio è sottolineato fin dalle prime battute del film, quando una voce fuori campo commenta le immagini di Dachau ricordando tutti coloro che hanno assecondato il nazismo persino nei suoi aspetti più turpi. Cfr. Silvio Danese, Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., pp. 22-23 e pp. 192-193.

[20] Solo in questa prospettiva possono spiegarsi le parole pronunciate dalla suora in The Bad Lieutenant nei confronti dei ragazzi che l’hanno violentata: «Non incontrerò mai più dei ragazzi la cui preghiera sia così ardente, così chiara, così dolorosa».

[21] Cfr. Silvio Danese, Il cinema di Abel Ferrara Una parabola trasgressiva, in Il cinema delle parabole, a cura di Dario Viganò, Effatà, Cantalupa 1999, vol.1, p. 60.

[22] Alberto Pezzotta, Abel Ferrara, cit., p. 78.

[23] Ibidem, p. 77.

[24] Danese (Abel Ferrara L’anarchico e il cattolico, cit., p. 191) osserva giustamente che il doppiaggio italiano traduce impropriamente l’inglese “annihilation of self” con “distruzione del sé”.

[25] In Mc 8, 34 troviamo scritto: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Inoltre nella teologia cristiana la redenzione, e con essa l’acquisto della libertà dalle proprie colpe, richiede un prezzo salato da pagare (redemptio, -onis, derivato del p. pass. di redimĕre, ossia ricomprare, riscattare, liberare, ma anche guadagnarsi, acquistarsi): Cristo morto in croce insegna che non c’è salvezza senza sofferenza, sacrificio ed espiazione.

[26] Il film si chiude con l’immagine del protagonista che si immerge in un mare nero e nuota in direzione di un orizzonte sconfinato.

[27] Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, p. 95. E più oltre, a p. 97: «Che Dio permetta il male fisico e morale è un mistero che Dio illumina nel suo Figlio, Gesù Cristo, morto e risorto per vincere il male. La fede ci dà la certezza che Dio non permetterebbe il male, se dallo stesso male non traesse il bene, per vie che conosceremo pienamente soltanto nella vita eterna».

 

 
 

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