Un film di genere. E nulla più?
The Driller Killer (id., 1979) è il primo film ufficiale di Ferrara.
Racconta la storia di un pittore che diviene un serial-killer. Fin da questo
momento Ferrara e St. John nutrono piena fiducia nel fatto che la
rappresentazione del peggio, ossia del sacrilego, della sopraffazione, del
delitto e del degrado umano, comporti la possibilità di un accesso alla
dimensione del sacro: «Per noi il sangue non è un effetto speciale, ma qualcosa
che riflette la realtà del mondo. Nel mondo accadono cose orribili, e noi non
cerchiamo di nasconderlo. Ma non si tratta di spettacolo. Quello che conta è
che a qualcuno venga fatto del male. Diventa un problema religioso». Il trattamento della violenza
non è quindi mai sensazionalistico: anche l’immagine più scioccante –
come quella del trapano che affonda nel cranio di una vittima innocente –
ha una sua ragione. E ce l’ha proprio perché gratuita, inspiegabile: «Non so
cosa renda la gente violenta, ma so che è lì fuori e anche dentro di me. E
mostrando la violenza, cerchi di confrontarti con essa». Non si tratta quindi
semplicemente di constatare la violenza, come anche il male o il vizio, bensì
di intraprendere un cammino personale, un’esperienza innanzi tutto interiore,
dalla quale può scaturire un reale cambiamento. poiché
Di questo parla anche The
Addiction. Il
film tuttavia conduce con radicalità ancora maggiore un’indagine sulla natura
umana: perché l’uomo commette il male? Siamo forse ontologicamente malvagi?
Tale questione, posta al centro dell’attenzione fin dalle prime scene, è
sviluppata all’interno delle maglie del genere, che il film in qualche modo fa
esplodere e alla fine snatura. Tutto il cinema di Ferrara è giocato su questo
contrasto: affrontare le più complesse questioni esistenziali e metafisiche
attraverso film di genere. The Driller Killer è un film horror come The Addiction. Nel caso di The Bad Lieutenant possiamo parlare di un poliziesco.
Seguono poi un film di fantascienza come Body Snatchers (Ultracorpi - L’invasione
continua, 1993)
melodrammi metacinematografici, come Dangerous game (Occhi di serpente, 1993) e Blackout (id., 1997), e film gangster, come King of New York (id., 1990) e The
Funeral (Fratelli, 1996).
Specie agli inizi della sua carriera, i film di Ferrara
sono stati letti come film di genere che manifestavano ambizioni d’autore. In
realtà, come sottolineato da Pezzotta, si tratta piuttosto di film
d’autore che fanno leva sugli stereotipi anche più rozzi dei film di genere:
solo in questi ultimi è possibile trovare le rappresentazioni estreme e
“all’ingrosso” del male, che il regista poi ricontestualizza all’interno di un
progetto più sfaccettato. In The Addiction, per esempio, siamo messi di fronte, da una parte,
a considerazioni sul libero arbitrio su alcuni protagonisti della filosofia
occidentale e sugli orrori della storia; dall’altra a morsi e sangue (tale
contrasto è presente anche nella colonna sonora, in cui lo slang dei pezzi rap
si accompagna alla musica di Vivaldi e a Eine Sylvesternacht di Nietzsche). La scelta di fare
un film di vampiri è spiegata da Ferrara stesso con queste parole: «È un
racconto popolare che esiste in tutte le culture del mondo. È qualcosa di
radicato nell’anima umana. L’idea dell’immortalità. L’idea della vita di notte.
L’idea di nutrirsi del sangue degli altri». Ferrara vuole quindi far leva su
un sentire comune, giocare su un terreno noto e largamente accessibile per
affrontare i problemi più inquietanti dell’esistenza. Il mito del vampiro
diviene il teatro di indagine della questione del male e della dannazione
eterna: «La gente si aspetta certe cose quando si parla di “film di vampiri”;
ma noi gli proponiamo qualcosa di diverso: una tragedia morale dietro un film
di vampiri».
Dunque, il bianco e nero in The
Addiction non è
volto solo a eliminare l’equivoco dello splatter-movie. È posto anche in continuità con
gli archetipi dei film sui vampiri (pensiamo ai primi rappresentanti del genere: Nosferatu di
Murnau [id.,
1922], Dracula di Browning [id., 1931], interpretato da Bela Lugosi, e Vampyr di Dreyer [1932]). Il dominio
dell’oscurità sulla luce è la rappresentazione cromatica di una realtà cupa, in
cui il Male sembra prevalere nella sua lotta eterna contro il Bene; una realtà
descrivibile solo attraverso sfumature del grigio, dissolvenze sul nero e
inquadrature di un niente che fa da sfondo a un mondo incomprensibile.
Ferrara, rispetto ai modelli
precedenti, elimina la cornice melodrammatica comune a numerosi film sui
vampiri. In The Addiction non troviamo più il sacrificio dell’innocente (pensiamo a
Ellen in Nosferatu o Mina in Bram Stoker's Dracula di Coppola [1992]), bensì il sacrificio di chi da vittima
si è trasformato in carnefice, come era già accaduto in Ms. 45 (L’angelo della vendetta, 1980) Inoltre il rapporto
eros-thanatos viene svuotato della componente sentimentale e romantica
(ravvisabile, ad esempio, nel rapporto passionale fra Mina e il principe Vlad
nel Dracula di
Coppola). La dinamica del desiderio e del piacere si dà piuttosto nella forma
dell’inclinazione della vittima al cedimento, nell’esperienza dello
smarrimento, della perdita di sé. La macabra orgia finale è il climax di questa
stretta relazione tra piacere della carne e perdizione morale, in cui
riecheggia il tradizionale tabù cattolico del sesso. Non a caso il vampiro a
cui Kathleen non saprà dir di no è un’attrice femminile, il cui nome –
Casanova – allude chiaramente alla seduzione del male.
Infine, i vampiri di The
Addiction sono
dei tossici, dipendenti dalla più potente droga del mondo: il male. Il titolo
stesso indica questa dipendenza: «“Addiction” significa tendenza, forte
propensione a qualcosa. Nello slang significa anche dipendenza dalla droga o
dall’alcool». Lapidarie in tal senso le parole
di St. John: «La nostra dipendenza dal male: ecco quale è la nostra reale
droga. Ecco quale è la nostra lussuria sanguinaria».
In The Bad Lieutenant
[17]
c’è una sequenza in cui droga e
vampirismo sono comparati in modo esplicito: «I vampiri sono fortunati. Si
nutrono degli esseri che trovano. Invece noi [drogati] divoriamo noi stessi.
Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo
arrivare per poter andar via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo. Dobbiamo
divorarci da soli finché non resta nient’altro che la fame». In The
Addiction questa
distinzione cade: tossici e vampiri sono accomunati dall’esperienza del
“dipendere da”. Ma tale dipendenza, almeno in uno stato germinale, è cosa di
tutti noi. Ed è proprio in questo senso che la questione del male viene
radicalizzata.
Inoltre, come spiega Pezzotta, il
vampiro può essere visto come «una specie di Cristo rovesciato che ruba il
sangue anziché donarlo, perché usa gli stessi strumenti della redenzione, ma li
perverte». Cristo è infatti l’unico che si
dimostra estraneo alla logica del divorare e divorarsi senza senso, accettando
la propria morte per dare nuova vita ai suoi figli.
Pecco, ergo sum?
Il film inizia mostrando le foto
del massacro di My-Lai, in cui un gruppo di soldati americani trucidò l’intera
popolazione di un villaggio vietnamita. In seguito la protagonista vede una
mostra fotografica sull’Olocausto e un servizio televisivo sulla pulizia etnica
dei serbi.
Le parole del filosofo spagnolo
George Santayana (1863-1952): «coloro che non imparano dalla storia, sono
destinati a ripeterla» sono per Kathleen una menzogna poiché secondo lei «la
Storia non esiste», ossia non può in alcun modo essere – secondo il detto
ciceroniano – magistra vitae. All’uomo non è dato apprendere nulla dall’esperienza
storica, né migliorarsi in base ad essa. Neppure è possibile riscontrare una
Provvidenza, in base a cui i fini particolari di volta in volta assunti dagli
uomini possano essere interpretati come un che di strumentale al disegno
divino. Parimenti risulta vano appellarsi a una filosofia della storia, dal
momento che il passato non è pensabile come una concatenazione di eventi dotata
di una sua intrinseca e necessaria ragion d’essere: vige una cieca voluntas schopenhaueriana.
Kathleen non solo constata come le
azioni malvagie si siano sempre ripetute nel corso del tempo – e con
quale crudeltà – ma scopre anche dentro di sé quella folle propensione a
propagare il male in cerchi sempre più ampi. Sono allora i singoli ad essere
colpevoli, oppure lo è piuttosto l’umanità nel suo complesso?
Il professore di Kathleen propone
di risolvere “filosoficamente” tale quesito. Nel corso di una lezione vengono
citati e poi annotati alla lavagna i punti di riferimento di quella che può
genericamente dirsi “filosofia esistenzialista”: in particolare L’essere e
il nulla di
Sartre, Essere e tempo di Heidegger e La
malattia mortale di Kierkegaard (vengono anche citati le Idee per una fenomenologia pura e
una filosofia fenomenologica di Husserl e La volontà di potenza di Nietzsche).
Kathleen, tuttavia, rifiuta
l’insegnamento libresco, accademico e astratto: non v’è niente di più lontano
dalla sua esperienza personale, individuale, “esistenziale” appunto. La
concettualizzazione didattica e manualistica, nel suo sforzo di
generalizzazione, contravviene a pieno titolo all’appello al singolo di
Kierkegaard, quell’appello a cui Kathleen ha saputo dare ascolto vivendo il
male in prima persona invece di limitarsi a discettare su di esso. Mostrando
come anche l’esistenzialismo possa essere equivocato e trasformato in un
astratto elenco di filosofi da conoscere, Ferrara prende esplicitamente le
distanze da quello sterile filosofeggiare che non riguarda in primo luogo la
vita stessa, ma costituisce piuttosto un’evasione dalla sua problematicità. Il
rimprovero che Kathleen muove al suo professore dà voce proprio a questa
convinzione: «Non è lei che rifiuta la filosofia speculativa? Io comincio
ad accettare la mia esistenza, ad applicare a me stessa quello che ho appreso».
E più oltre, di fronte alla commissione di laurea: «La filosofia è propaganda.
[…] L’essenza viene rivelata dalla prassi. Le parole del filosofo, le sue idee,
le sue azioni, non si possono scindere dai suoi valori, dai suoi intendimenti».
L’esistenzialismo, e più in generale la filosofia, non è per Kathleen una
dottrina, ma un metodo di indagine. E ciò che va indagato è l’agire, perché
nell’azione risiede la scelta e quindi la morale.
Ma questa indagine porta Kathleen
a scoprire che il male è una dipendenza, un vizio che ci rende tutti schiavi.
Commettere il male non è solo frutto di un’inclinazione, ma è un bisogno, una
necessità. Se il male è una dipendenza allora «l’appetito è insaziabile» e «la
colpa è eterna». «La dipendenza ha una duplice natura. Da una parte soddisfa lo
stimolo che scaturisce dal male, dall’altra ottunde la percezione del nostro
stato. Come l’alcolizzato che beve per dimenticare di esserlo. L’esistenza
diventa la ricerca di sollievo dal vizio, ma il vizio è l’unico sollievo che
possiamo trovare». È data una via d’uscita da questo circolo vizioso? La consapevolezza
della propria natura malvagia può essere decisiva per la salvezza?
Il determinismo propugnato dal
professore a lezione sembra inequivocabile: da una parte stanno i non salvati,
i predestinati all’inferno; dall’altra i credenti. I primi non sono consapevoli
del peccato, non hanno rimorsi perché non riconoscono che il male esiste; gli
altri invece possono sperare nella Grazia, poiché sono spinti dalla sofferenza
e dal senso di colpa a cercare il perdono e la libertà. «Il senso di colpa ci
dice che Dio disegna il nostro destino», così sentenzia il professore,
evidenziando come la sofferenza possa costituire un veicolo di salvezza.
Casanova sembra essere ancora più
radicale: l’unico possibile margine di scelta per l’uomo è quello
dell’accettazione della propria natura malvagia. Si può raggiungere la serenità
solo se si è in grado di fare le giuste distinzioni: «Non siamo cattivi a causa
del male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo cattivi. Che scelta ha
gente come noi? Direi che non abbiamo altre opzioni». Dunque, il senso di colpa
non è più un indice della grazia, come presuppone il professore, ma dipende da
un errore di prospettiva.
Saranno altri due incontri
cruciali a mettere in dubbio il determinismo postulato dal professore e vissuto
da Casanova. Il primo avviene con Peina, un maestro-asceta che ha imparato ad
“astenersi”, a non farsi travolgere dal male, integrandolo in una condotta di
vita apparentemente rispettabile. La figura del vampiro viene qui del tutto
spogliata dei suoi tratti romantici e mostrata in una sinistra “normalità”. La
sua vera natura si nasconde dietro un conformismo di facciata: si vanta di
avere un lavoro, di riuscire a defecare e a bere il tè come tutti. Peina
dimostra così a Kathleen che, oltre alle due vie individuate dal professore, è
data una terza opzione: è possibile imparare a gestire la propria natura
malvagia attraverso un’economia delle risorse, a regolamentare la propria vita
di vampiro addestrandosi alla rinuncia. Grazie a questa capacità di
autocontrollo lui è in astinenza da 40; i suoi maestri sono i tibetani, coloro
che sanno vivere quasi con niente.
Perché anche Kathleen impari a
convivere con fame e insoddisfazione non basta però che legga Il pasto nudo di William Borroughs: deve
sperimentare sulla sua pelle cosa sia veramente l’astinenza e cosa comporti
perseguirla fino in fondo. Una volta in preda alle convulsioni per la fame,
Kathleen si rende conto che non è in grado di seguire la via indicata da Peina.
È a questo punto che si fa strada
più esplicitamente una seconda alternativa alla concezione del pecco, ergo
sum. Si tratta
della via della fede, una possibilità che si nasconde tra le pieghe del film
per essere esplicitata nel finale. Tale prospettiva è chiamata in causa ogni
qual volta il concetto di libero arbitrio interviene a porre in discussione il
determinismo che grava su Kathleen. Ciò avviene, per esempio, nella chance che il vampiro offre alla vittima
nel momento in cui le chiede di allontanarlo con convinzione. In questo modo
Ferrara sottolinea la dimensione della scelta così come la intende Kierkegaard,
come «la possibilità angosciosa di potere». Ma potere cosa? Uscire dal piacere
dell’inerzia. Tale piacere è la vera arma di seduzione del male, il quale è
visto non solo come un’azione, ma anche e soprattutto come uno stato di resa. Di fatto però nessuno riesce ad
opporsi al morso del vampiro. Kahtleen viene esplicitamente definita
«collaborazionista» da Casanova; e l’ingenua studentessa di antropologia viene
rimproverata di non essersi opposta con fermezza: «È stata tua la decisione»,
le dice Kathleen.
Solamente un personaggio si rivela
in grado di opporsi radicalmente al male e, non a caso, è un sacerdote.
Attraverso il suo no risoluto irrompe esplicitamente nel film la religione,
scardinando definitivamente l’impianto filosofico-morale di tipo deterministico
che ha accompagnato Kathleen fino a quel momento, e che già era stato in parte
scosso dall’esempio di Peina. Nella sequenza in ospedale Casanova si allontana
per l’arrivo di un sacerdote (interpretato da un prete vero!), al quale
Kathleen chiede perdono e benedizione. Nella scena successiva vediamo la
protagonista porre sulla propria lapide un fiore e leggiamo, oltre alle date
della propria nascita e morte (a cavallo del giorno dei Santi), il versetto di
Giovanni: «Io sono la resurrezione».
Tutto ciò sembra confermare la
prospettiva pienamente cattolica in cui si inserisce il film. Difatti, la vera
dannazione per il cristiano è la convinzione che non possa esserci salvezza, la
convinzione che l’uomo possa fare a meno di Dio. Rifiutare il progetto
salvifico divino è l’unico peccato imperdonabile. Tutti gli altri sono perdonabili
se si è disposti a cambiare
[20]
. E così avviene per Kathleen, il
cui cedimento nei confronti del male si è convertito in resa fiduciosa e umile
al perdono di Dio. Attraverso il riconoscimento della propria fragilità ha
fatto spazio a ciò che trascende tale fragilità. L’abbandono del divino ha
portato in extremis all’abbandono al divino.
Eppure già due volte avevamo visto
Kathleen tentare di uccidersi – tagliandosi le vene da Peina e
all’ospedale – e in tutti e due i casi le era stato ricordato che ciò che
è morto non si uccide. Come ha fatto allora a morire «se, in quanto vampira,
aveva davanti a sé un’eternità di sofferenza? St. John risponde che “è il
vampiro che è in lei che muore”, Kathleen risorge e “la persona è liberata di
fronte alla vera luce”». Anche l’ultima inquadratura del
film focalizzata su un crocifisso può essere vista in questo senso. È ancora
St. John a confermarcelo: «Perché una croce annienta un vampiro? Bisogna
risalire alle origini e capire che un vampiro rappresenta il male e che la sola
cosa che viene a capo del male è il bene».
Eppure la frase finale pronunciata
da Kathleen di fronte alla propria tomba potrebbe rimettere in discussione ciò
che sul piano religioso sembrava risolto con l’approdo alla benedizione in Dio:
«Affrontare ciò che siamo veramente. Ci esponiamo alla luce e la nostra vera
natura viene rivelata. La rivelazione del sé è l'annichilimento del sé»
. Si tratta forse della conferma
estrema di una raggiunta prospettiva religiosa, all’interno della quale
l’annichilimento corrisponderebbe all’idea cristiana di rinnegamento di sé e
abbandono a Dio?
La rappresentazione del male in The Addiction farebbe forse propendere per
questa seconda ipotesi. Siamo ben lontani infatti dall’immagine pacificata che
di esso ne fornisce il Catechismo della Chiesa cattolica: «Non c’è un punto del
messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema
del male. [...] Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la
causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo
permette e, misteriosamente, sa trarne il bene». Si tratta piuttosto di un cancro
che si diffonde a macchia d’olio, contagiando chiunque incontri lungo il suo
cammino. Un male endemico e perverso che, prima ancora di diventare
protagonista della scena, si staglia all’orizzonte con le sue tinte oscure,
rendendo sfuggevole ogni possibile via di scampo e lasciando in sospeso ogni
presunta catarsi finale.