STALKER
LA QUESTIONE DELLA SOGLIA
di FRANCESCO CATTANEO
Ma
dove è il pericolo, cresce
Anche
ciò che dà salvezza.
Friedrich Hölderlin, Patmos
Tarkovskij e San Paolo
Già entrato nella Zona, e anzi in vista del suo centro più
riposto e segreto (la Stanza), lo Stalker spiega ai suoi compagni di viaggio,
lo Scienziato e lo Scrittore, chi, secondo la sua esperienza, abbia un accesso
preferenziale alla Zona medesima. Alla domanda semplicistica e quasi ingenua
del Professore («Fa passare i buoni e ai cattivi taglia la testa?») lo Stalker
risponde con una spiegazione più complessa: «No, non lo so. A me sembra che
faccia passare solo quelli che non hanno più nessuna speranza. Non i cattivi o
i buoni, ma…gli infelici. Ma anche il più infelice morirebbe subito se non si
comportasse come si deve».
Come lo Stalker ribadisce più volte nel corso del film, la
Zona è l’ultimo rifugio dei disperati. Essa accoglie i reietti e gli esclusi
– in definitiva gente come lo Stalker stesso, che vive ai margini della
società e ha un passato da galeotto alle spalle (cinque anni di galera, come
gli rinfaccia la moglie nel corso del primo, sovreccitato, dialogo). Egli
preferisce continuare a traghettare illegalmente nuovi visitatori alla Zona,
piuttosto che dedicarsi al «lavoro normale, dignitoso» che pure gli era stato
offerto. «La prigione…per me dovunque è una prigione», sentenzia lo Stalker,
denunciando per intero l’inquietudine e lo sradicamento che lo attanagliano.
Come scrive Angelo Signorelli, egli «è un uomo dal passato difficile e dubbio,
uno che ha avuto problemi con la società, un clandestino rispetto alla legge,
ma anche e soprattutto rispetto all’esistenza».
Lo stesso accedere alla Zona equivale alla consumazione di
una violazione. Tarkovskij lo fa intendere tanto più chiaramente mediante la
messa in scena di un vero e proprio spazio concentrazionario, con soldati
armati, reti metalliche, filo spinato, cavalli di frisia, riflettori puntanti
intorno. Il superamento dello sbarramento predisposto è severamente proibito e chi
si avventura oltre diviene perciostesso un abusivo. Sul senso di questa
interdizione si tornerà dopo.
La disperazione non è solo la condizione interiore dei
viaggiatori; costituisce anche l’intonazione dello scenario da cui essi
muovono. Gli ambienti del prologo, che sono anzitutto gli spazi della
quotidianità (il bar, la casa), sono caratterizzati da un inarrestabile
decadimento, da uno stato di consunzione, di degrado, di desolazione, quasi
fossero stati abbandonati al logorio del tempo, alla cui azione l’uomo sembra
aver cessato di opporsi. C’è un senso pervasivo di senescenza, di marciume,
che, in circoli via via più ampi, riguarda i muri scrostati, rigonfi per
l’umidità; gli edifici diroccati e malridotti; i dintorni desertici, grigi,
pervasi dal sudiciume e dalla sporcizia. Ma questa impressione non è veicolata
solo mediante il profilmico. Tarkovskij accresce il pesantore delle immagini
facendo ricorso, a livello fotografico, all’uso di un bianco e nero tendente
all’ocra.
Siamo di fronte all’emblema di una catastrofe che ha
devastato ogni cosa, riconsegnandola, impotente, all’erosione delle forze della
natura – un retour à la nature che può darsi quindi solo come disastro, nient’affatto come ripristino di
una condizione primigenia.
In una pregnante sintesi Angelo Signorelli scrive:
«All’inizio il film si sviluppa dentro uno sfacelo diffuso, che determina un
forte, addirittura eccessivo, senso di oggettività: il paesaggio prevarica le
persone e i loro comportamenti. La sensazione è che nessuno sia in grado di
modificare alcunché, anche solo di rimuovere un manufatto caduto o
irrimediabilmente rovinato. È un mondo pericolante, come un edificio malmesso
che potrebbe crollare da un momento all’altro, senza che qualcuno, pur
abitandovi, si dia da fare per puntellarlo. Probabilmente ci troviamo in una
terra di confine, dove alcuni avamposti sorvegliano il declino di un sistema
produttivo che ha devastato la natura con la potenza dei suoi strumenti e con
la promessa di lavorare per la felicità della specie. Il posto reca i segni di
un’antica prosperità, del fervore lavorativo, del dominio della tecnica:
periodi che hanno riempito il territorio di muri, di strutture metalliche,
tralicci, binari, fabbricati. La scena lascia intendere che tutto è stato
posato molti anni prima; ora alcuni resti giacciono a terra, gli edifici sono
sventrati, i colori sono cambiati. Questi resti stringono l’atmosfera come una
morsa, la rendono irrespirabile e impraticabile come se ci si trovasse su un
altro pianeta». L’uso di spazi fatiscenti e
deteriorati risaliva almeno alla spiazzante rappresentazione dell’astronave di Solaris [Soljaris, 1972] (che all’iper-tecnologia del quasi
coevo 2001: Odissea nello spazio [2001: A Space Odissey, Stanley Kubrick, 1968]
contrapponeva un dècor assai dismesso) ed era destinato a ripresentarsi suggestivamente in Nostalghia [id., 1983]. Sovente si instaura in
Tarkovskij una sorta di rispecchiamento tra la realtà interiore e quella
esteriore: tanto è spiritualmente povero l’uomo, altrettanto è devastato il
mondo circostante, e viceversa. C’è una sorta di complanarità tra le due
dimensioni.
L’estremo squallore, tuttavia, si fa – seppure e
contrario –
latore di un’ulteriore possibilità, di un’oltranza. È in quel disastro che
cresce l’urgenza di una salvezza. È proprio in chi è disperato che più acuto si
fa l’urlo che invoca un’autentica alternativa. Finché la situazione non diviene irreparabile,
si può sempre rinvenire qualche illusoria via di fuga nelle abitudini più
rassicuranti, si può sempre scovare una scappatoia all’interno della realtà
data per scontata. Ma può ciò costituire un reale scampo? L’ipotesi di
Tarkosvkij è piuttosto estrema (profetica, si direbbe): non si può tornare indietro, ma
bisogna attraversare la povertà spirituale fino in fondo per riuscire a
preparare l’evenienza di una diversa via. Non si tratta di negare il proprio
tempo o di porsi in qualche modo fuori da esso. Bisogna anzi farsene carico,
radicarsi in esso e solo così portarlo oltre se stesso.
Tuttavia, in cosa consiste l’oltranza su cui ci si sporge?
***
Il ruolo della trascendenza in Stalker, e le modalità del rapporto con
essa, possono essere colte, almeno in prima approssimazione, attraverso un
accostamento del film alla Prima lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo di Tarso. In un appunto del suo Martirologio datato 28 dicembre 1979, l’anno
del completamento di Stalker, Tarkovskij cita due versetti della Prima lettera ai
Corinzi: «Sii
folle se vuoi essere saggio»; «La saggezza del mondo è follia agli occhi di
Dio».
Paolo operò l’evangelizzazione di Corinto durante il suo
secondo viaggio missionario (50-52 d.C.) Quale fu l’occasione per la stesura
della Prima lettera? Paolo risiedeva ad Efeso durante il suo terzo viaggio missionario
(53-57 d.C.). Pur essendo tutto dedito all’evangelizzazione di questa grande
metropoli e del suo vastissimo retroterra, non cessava di interessarsi alle
altre comunità e soprattutto a quella di Corinto. C’erano voci e testimonianze
secondo cui tale comunità era afflitta da abusi morali e da gravi sregolatezze.
Per questo motivo Paolo rivolse un primo ammonimento ai fedeli di Corinto, il
quale tuttavia è andato perduto. Quella che noi conosciamo come Prima
lettera ai Corinzi fu stesa e spedita in seguito, probabilmente a causa dagli scarsi risultati
conseguiti con il precedente richiamo. Secondo l’esegesi, si tratta della
lettera paolina più ricca di temi, di pensiero teologico, di spunti dottrinali
e disciplinari.
In 1 Cor 1, 18-31 Paolo si produce in un’ampia e
articolata trattazione sulla sapienza divina e su quella umana, sottolineando
l’insanabile dissidio tra le due. Egli spiega come Dio realizzi la salvezza con
mezzi e per vie che il mondo giudica stolti: «Il linguaggio della croce è
stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi che ci salviamo è potenza di
Dio. Sta scritto infatti: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annienterò
l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto?”. Dov’è
l’investigatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del
mondo? Poiché, infatti, nella sapienza di Dio, il mondo con la sapienza non ha
conosciuto Dio, piacque a Dio di salvare i credenti mediante la stoltezza della
predicazione. Sicché, mentre i Giudei domandano segni e i Greci ricercano
sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, stoltezza
per i Gentili; ma per quelli che sono chiamati,
sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, perché la
stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte
degli uomini» (1 Cor 1, 18-25). Per Paolo Dio si pone dalla parte dei più umili
proprio per far emergere la vanità della conoscenza dei dotti, soprattutto
quella dei Greci. La predicazione degli aspostoli è «stolta» perché Dio non
l’ha affidata ad abili dialettici o a individui di grande erudizione, bensì
alle persone più semplici, pescatori e gente modesta.
Lo stesso vale, in qualche misura, per lo Stalker, che si
definisce un verme, incapace di combinare alcunché, ma che al contempo è una
sorta di apostolo della Zona. Sul limitare della Stanza egli spiega
accoratamente: «Ma l’importante è solo credere. Ora potete andare». Anche qui
la saggezza del mondo viene completamente esautorata e svuotata, sia essa la
conoscenza del Professore, sia essa l’abilità affabulatoria e dialettica dello
Scrittore: l’ultimo passo può essere mosso solo per mezzo della semplicità del
credere.
In più passi della Prima lettera ai Corinzi (tra cui quello citato) viene
anche segnalata una feconda inversione, per cui la vera forza è la debolezza.
Tale principio risuona insistentemente in Scolpire il tempo e a esso sembra alludere un
intenso monologo di Stalker: «Che si avverino i loro desideri, che possano crederci e
che possano ridere delle loro passioni. Infatti ciò che chiamiamo passione in
realtà non è energia spirituale, ma solo attrito tra l’anima e il mondo
esterno. E soprattutto, che possano credere in se stessi, e che diventino
indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza e la forza è niente.
Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido. Così
come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile, quando è duro e secco,
muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità
esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà».
Lo Stalker viene ritenuto un folle dallo Scrittore e dal
Professore, che per di più non si fanno scrupolo di insultarlo e avvilirlo. La
povertà e miseria di quest’uomo è pari a quella degli apostoli, che Paolo
contrappone alla sopravvenuta ricchezza dei corinzi: «Io credo infatti che Dio
abbia destinato noi, apostoli, come ultimi fra gli uomini, come dei condannati
a morte, perché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini.
Noi stolti per Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti, voi
onorati e noi disprezzati. Fino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete
e la nudità, siamo schiaffeggiati e vaghiamo senza stabile dimora, ci
affanniamo a lavorare con le nostre mani, insultati benediciamo, perseguitati
sopportiamo, diffamati esortiamo con bontà: siamo diventati come i rifiuti del
mondo, la spazzatura di tutti fino ad ora» (1 Cor 4, 9-13).
Il compimento del “pellegrinaggio” nella Zona si ha con il
raggiungimento della Stanza, luogo della rivelazione e dell’epifania. Ciò che
si mostra in questo spazio recondito e appartato è la verità riguardo a noi
stessi, alla nostra più intima e celata essenza. Lo Stalker proferisce
enfaticamente: «Siamo arrivati alla soglia. È il momento più importante della
vostra vita. Come già vi ho detto, qui si compirà il vostro desiderio più
segreto, quello più sincero, quello più sofferto». A illustrare appieno il
senso di queste parole è la parabola esemplare del Porcospino, così come viene
riproposta nell’interpretazione dello Scrittore. Addolorato, il Porcospino
aveva contravvenuto a una delle regole degli stalker – che non devono mai
chiedere niente per sé – ed era entrato nella Stanza implorando la grazia
per il fratello. La Zona, in tutta risposta, lo rese ricco. Era la ricchezza
ciò che egli inconsciamente desiderava più di tutto. Resosi conto della sua
vera natura, il Porcospino si impiccò. «Chi mi giudica è il Signore
– scrive San Paolo – Quindi non giudicate nulla prima del tempo,
fino a che non venga il Signore, il quale metterà in luce perfino ciò che è
nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i consigli dei cuori, e allora
ciascuno avrà lode da Dio» (1 Cor 4, 5).
Una
messa in scena deteologizzata
Tuttavia, pur riscontrando tale vicinanza alla Prima lettera
ai Corinzi, non
bisogna trascurare un dato decisivo, che può suggerire l’apertura di nuovi
scenari interpretativi intorno a Stalker e alla religiosità di Tarkovskij: la soglia della
Stanza non viene varcata da nessuno dei tre personaggi; la rivelazione non si
compie. Il taglio delle riprese è tale che risulta impossibile scrutare
all’interno di tale “spazio sacro”. Il percorso compiuto dal film viene interrotto proprio a un passo dal
suo naturale coronamento. Tale interruzione dipende esclusivamente dalla
manchevolezza e dall’inadeguatezza dello Scrittore e del Professore? E che dire
della vita dello Stalker? È forse condannata all’incompiutezza? Non può essere,
invece, che questo rifiuto di mostrare la Stanza e l’effetto dei suoi poteri
rimandi a un diverso modo di stare nella Zona?
Innanzitutto occorre chiedersi: che cos’è la Zona? A
questo proposito un confronto con la fonte letteraria è illuminante. Come si
sa, il film di Tarkovskij si ispira molto liberamente a Picnic sul ciglio
della strada, scritto
nel 1972 dai fratelli Arkadi e Boris Strugatzki, maestri della letteratura
sovietica del fantastico. Nel prologo del romanzo gli autori, per dare qualche
notizia circa la Zona, ricorrono all’espediente di un’intervista fittizia a uno
scienziato, Valentin Peelman. Quest’ultimo è stato insignito del premio Nobel
grazie alla scoperta della cosiddetta “variante Peelman”. «È una faccenda
semplicissima – spiega il diretto interessato – Immaginate di far
ruotare una grande sfera, e di cominciare a far fuoco contro di essa con una
pistola. I fori prodotti sulla sfera si troveranno disposti lungo una curva
regolare. L’essenza di quella che lei chiama la mia prima scoperta è tutta in
questo fatto semplicissimo: tutte e sei le Zone della Visita sono disposte sulla
superficie del nostro pianeta come se qualcuno avesse sparato sulla Terra sei
colpi di pistola da un qualche punto sulla traiettoria Terra-Deneb. Deneb è
l’alfa della costellazione del Cigno, e il punto della volta celeste da cui,
per così dire, sono stati sparati i colpi viene chiamato radiante Peelman». Con ciò non solo diviene chiaro
che la Zona è la testimonianza di una visita extraterrestre, ma si viene a
sapere l’esatta provenienza dei visitatori. Riguardo al significato della
Visita, nel libro vengono formulate varie spiegazioni. Il titolo del romanzo
deriva proprio da un’ipotesi proposta in merito dal dottor Peelman. Le Zone
sarebbero i luoghi di sosta di un picnic cosmico organizzato da una civiltà
aliena, presumibilmente superiore alla nostra, che, transitata per caso sulla
terra, ha lasciato delle accidentali tracce di sé (come in un picnic: briciole
di pane, scarti di varia natura, ecc.) e probabilmente non si è neppure resa
conto della presenza umana; o l’ha ignorata a bella posta. Le Zone sono
qualcosa di cui l’uomo si può giovare; ma non sono state destinate a lui.
Tarkovskij rinuncia strategicamente al titolo del romanzo
dei fratelli Strugatzki: a lui non interessa tanto interrogarsi circa l’origine
e il rispettivo significato della Zona, ma render conto del modo in cui essa
viene attraversata e affrontata dagli uomini (di qui il titolo che si concentra
proprio sulla figura dello Stalker e, come vedremo, sui modi del suo
traghettare). Al prologo di Picnic sul ciglio della strada si sostituisce, nel film, una
scritta scorrevole, che riporta le parole del presunto premio Nobel professor
Wallace: «Cos’è stato? La caduta del meteorite? Una visita di abitanti degli
abissi cosmici?». La caratterizzazione della Zona rimane un interrogativo
aperto, a cui il film non dà risposta. Diversamente dal romanzo, in Stalker la Zona è una e unica: il
miracolo di questa comparsa rimane isolato e irripetibile. Nel corso del film,
inoltre, ogni discussione sulla Zona si risolve in una descrizione di come essa si presenti o di come possa essere attraversata; non si
procede mai a una determinazione di che cosa essa sia. Ciò che ci è dato
sapere è che gli uomini vi accedono per raggiungerne il centro: una Stanza in
cui pare vengano realizzati i desideri più reconditi.
La Zona viene presentata nel modo più stringato e laconico
possibile: essa appare, a minima, come pura anomalia, come semplice apertura di possibilità. In questo senso la proibizione
di entrare nella Zona non è tanto una tutela diretta delle strutture vitali
dell’ordine costituito; è, più subdolamente, l’obliterazione radicale di uno
spazio autenticamente altro.
A segnare un netto scarto rispetto allo scenario desolato
dell’incipit è
l’avvento del colore, che subentra improvvisamente all’esaurirsi del viaggio
sul carrello. L’effetto, nella sua repentinità, ricorda la transizione dal
bianco e nero al colore nel finale di Andrej Rublëv [id., 1966], allorché un rapido
montaggio presenta alcuni dettagli delle icone del grande pittore russo.
L’enigma della Zona ha inevitabilmente prodotto le più
variegate superfetazioni interpretative. Tarkovskij, invece, lascia la
Zona nella massima indeterminazione. Al punto che quando la rappresenta sembra
un usuale paesaggio campestre, rigoglioso sì, ma immune da qualsiasi
trasfigurazione edenica o arcadica: infatti esso è disseminato di detriti e
rottami, che si impongono quali reperti di un precedente intervento umano (una
contaminazione?). Abbastanza similmente in Picnic sul ciglio della strada la Zona viene descritta come uno
scenario industrializzato abbandonato. Tuttavia i fratelli Strugatzki gli fanno
perdere ogni tipo di ordinarietà, soffermandosi sui bizzarri rimasugli della
visita aliena e coniando un’onomastica stravagante e fantasiosa.
***
Ancor più di Picnic sul ciglio della strada, Stalker è un’opera fantascientifica sui
generis: in essa
mancano quasi del tutto le forme canoniche e codificate della fantascienza. «In Stalker come
in Solaris ciò
che mi interessava meno di tutto era l’elemento fantascientifico», spiega
Tarkovskij. «Purtroppo in Solaris c’erano ancora troppi accessori fantascientifici che
distraevano dal tema principale. I razzi, le stazioni spaziali: le richiedeva
il romanzo di Lem, è stato interessante fare tutto ciò, ma adesso mi pare che
l’idea del film si sarebbe cristallizzata in maniera più precisa ed evidente se
si fosse riusciti ad evitare tutto questo. Ritengo che la realtà a cui
l’artista ricorre per esprimere la propria visione del mondo debba essere,
scusate la tautologia, reale, ossia comprensibile e nota all’uomo fin
dall’infanzia. E quanto più reale in questo senso sarà il film, tanto più
convincente risulterà l’autore». Nella fantascienza di
Tarkovskij, si potrebbe dire, a essere fantascientifici sono l’uomo e il suo
mondo. Il regista russo osserva ancora: «In Stalker si può definire fantastica
soltanto la situazione di partenza, che ci tornava comoda perché ci aiutava a
definire in maniera più plastica e rilevata il conflitto morale per noi
fondamentale del film. Invece, per quanto riguarda la sostanza di ciò che
accade ai protagonisti, non vi è nulla di fantastico. Il film è stato fatto in
modo tale che lo spettatore abbia l’impressione che tutto sta accadendo ora,
che la Zona è qui, accanto a noi». A prescindere dall’uso generico
che ne fa Tarkovskij, la categoria del fantastico, se intesa secondo le prospettive
aperte dalla riflessione teorica novecentesca, può aiutarci a cogliere alcune
specificità di Stalker. Spiega infatti Tzvetan Todorov nel suo La letteratura fantastica: «In un mondo che è sicuramente
il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si
verifica un avvenimento che non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è
familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due
soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto
dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono,
oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma
allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote […]. Il fantastico
occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l’una o
l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di
un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione
provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a
un avvenimento apparentemente soprannaturale. [Di contro, se il lettore] decide
che le leggi della realtà rimangono intatte e permettono di spiegare i fenomeni
descritti, diciamo che l’opera appartiene a un altro genere: lo strano. Se
invece decide che si debbono ammettere nuove leggi di natura, in virtù delle
quali il fantastico può essere spiegato, entriamo nel genere del meraviglioso».
Tarkovskij, a livello di messa in scena, introduce degli
scarti minimi, degli slittamenti quasi impercettibili, che non si svincolano
mai dalla concretissima realtà che fa capolino nel corso del film, ma che al
contempo la fanno vedere diversamente. Si può trattare, a seconda dei casi, di
quel movimento all’indietro della macchina da presa che, durante l’avanzata
solitaria dello Scrittore verso la Stanza, conferisce una minacciosa volontà
autonoma e una vita indipendente agli edifici; o di quel ralenti che dilata la caduta del dado
sulla sabbia nella scenografia onirica delle dune; oppure di quelle variazioni
e rielaborazioni elettroniche dei suoni ambientali. Il fantastico serve a
Tarkovskij per amplificare la percezione della nostra realtà, per renderla al
contempo familiare ed estranea, nota e ignota. Anche a livello stilistico e
formale il cinema di Tarkovskij ben risponde alla formula di «materialismo
spiritualista» messa a punto da Tullio Masoni e Paolo Vecchi.
***
Non fosse per il modo in cui viene percorsa, la Zona di Stalker non avrebbe alcuna particolarità
degna di nota. A questa «scarnificazione» interpretativa della Zona ha
apertamente esortato lo stesso Tarkovskij: «Mi hanno sovente domandato che
cos’è la Zona, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più
impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e di disperazione quando sento
domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non
simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo
o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della
propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal
passeggero».
La Stanza è sottoposta a un processo di semplificazione
ancor più vigoroso ed energico. Di essa sappiamo che è uno spazio dai poteri
straordinari. Ma a livello visivo non compare niente di quella straordinarietà.
Anzi, la Stanza subisce un radicale “sfrondamento visivo”: viene inquadrata nel
modo più “povero”, solo per scorci laterali che insistono sul varco d’accesso,
negando invece qualsiasi visione dell’interno. Della Stanza conosciamo solo la
soglia. Altro non ci è dato.
Va poi precisato che la soglia non è una sineddoche della
Stanza, non si limita a chiamarla in causa secondo il meccanismo della pars
pro toto,
lasciandola per il resto immutata. L’esperienza della soglia trasforma la
Stanza medesima. Ma la soglia, si sarebbe tentati di chiedere, non ha senso
solo a partire da ciò che sta oltre di essa? La soglia non è solo un
intermezzo, un transito temporaneo tra un punto di partenza e un punto
d’arrivo, entrambi pienamente determinati? Che soglia sarebbe, se così non
fosse? In realtà in Stalker alla soglia appartiene una logica
della sottrazione che si ripercuote sulla Stanza medesima.
Affinché ciò possa essere messo a fuoco, occorre rivolgere
l’attenzione alle modalità del viaggio narrato dal film, a partire dal primo
avvicinamento alla Zona. La scena della traslazione a bordo del carrello è
composta da una concatenazione di semi-soggettive di una plasticità quasi
scultorea: tali inquadrature aderiscono ai personaggi, alle loro nuche, ai loro
profili, alle espressioni di volti segnati dalla vita, come in un dipinto di
Hieronymus Bosch. Entrare nella Zona implica più
un movimento interiore che una mera traslazione spaziale. E infatti Tarkovskij,
ricorrendo a long take molto statiche, lascia che il tempo vissuto di questo intervallo preparatorio
si sedimenti sull’inquadratura. Incomincia così a farsi largo la consapevolezza
che lo spazio nella Zona non preesiste alle condizioni e ai modi del suo
attraversamento; piuttosto, esso entra in risonanza con l’evoluzione e la
maturazione dei personaggi. «La Zona – spiega lo Stalker – è forse
un sistema molto complesso di trabocchetti, e sono tutti mortali. Non so cosa
succeda qui in assenza dell’uomo. Ma non appena arriva qualcuno tutto si
comincia a muovere. Le vecchie trappole scompaiono, ne appaiono di nuove. Posti
prima sicuri diventano impraticabili e il cammino si fa ora semplice e facile,
ora intricato fino all’inverosimile. È la Zona. Forse a certi potrà sembrare
capricciosa, ma in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il
nostro stato d’animo. Non vi nascondo che ci sono stati casi in cui la gente è
dovuta tornare indietro a mani vuote. Alcuni sono anche morti proprio sulla
porta della stanza. Ma quello che succede non dipende dalla Zona, dipende da
noi». Nella Zona ne va di noi stessi. Essa cambia a seconda di chi la
attraversa, muta il suo aspetto, compie una sorta di continua ristrutturazione ad
hominem (come
accadeva, mutatis mutandis, con l’oceano pensante di Solaris). Non c’è l’uomo da una parte e
il mondo dall’altra, ma – per dirla con il Martin Heidegger di Essere
e tempo –
un esserci che è-nel-mondo,
che apre il mondo intorno a sé. Il percorso di ciascuno nella Zona dipende da
ciò che egli già è e che al contempo è chiamato a divenire sempre di nuovo,
sempre più responsabilmente e autenticamente. Il tragitto è periglioso, perché
a ogni passo il visitatore mette integralmente in gioco se stesso. Per questo
gli è necessario muoversi con circospezione (il lancio preliminare dei dadi…).
A ciò allude anche il titolo del film, la cui radice è il verbo inglese to
stalk, cioè
«inseguire furtivamente la preda».
I pericoli che continuamente incombono non possono essere
affrontati con mezzi esteriori, tanto meno con delle armi, per quanto possenti
e letali queste ultime siano o appaiano. I carri armati spediti in un primo
tempo a confrontarsi violentemente con l’eccentricità della Zona sono risultati
impotenti, e ora giacciono nel mezzo di un campo erboso, vuote carcasse
abbandonate al logorio degli elementi. Anche le pistole – secondo
l’ammonimento che lo Stalker rivolge allo Scrittore – sono del tutto
inadeguate e controproducenti. All’interno di un percorso conoscitivo
l’ottusità cieca e piatta della violenza non può portare ad alcun risultato, e
anzi prepara il più misero e vano dei fallimenti, visto che assottiglia e
riduce ai minimi termini lo spazio dell’incontro con l’altro (anche quell’altro
che noi stessi siamo).
Nella Zona i rapporti spaziali abituali mutano. Quando la
Stanza sembra ormai a portata di mano, lo Stalker spiega: «Sì. Si sale e si
entra. Ma noi non ci andremo direttamente. Dobbiamo fare il giro. Nella Zona la
strada diretta non è la più corta. Più si allunga e meno si rischia». Poco oltre, di fronte alla
risoluzione del Professore di fermarsi sul posto e di aspettare il ritorno dei
due compagni, la guida lo avverte che da solo non resisterebbe a lungo e che
per di più «non si torna indietro per la strada fatta all’andata», visto che lo scenario muta in
funzione del tempo. Queste nuove indicazioni di percorrenza corroborano
ulteriormente l’ipotesi che ci troviamo all’interno di uno spazio
temporalizzato.
Tarkovskij evoca la figura del cerchio: non si può andare direttamente “a meta”; si deve
compiere un periplo lungo il quale si intersecano movimento esterno ed interno
(anche la soglia, come figura della sospensione e dell’attesa, obbedisce a una logica affine).
Lo spazio della Zona non è euclideo: infatti esso non solo viola il postulato
che la linea retta è la più breve tra due punti, ma non si presta neppure alla
raffigurazione tridimensionale – richiedendone invece una
quadridimensionale, con il tempo che va ad aggiungersi alle tre coordinate
spaziali. Questo territorio, di conseguenza, non è cartografabile: come
proiettare, infatti, la quarta dimensione su un piano bidimensionale?
L’impossibilità di misurare la Zona si riscontra anche nella seconda regola di
percorrenza testè enunciata. Infatti, la Zona, impedendo di tornare indietro
per lo stesso percorso, contravviene all’esigenza fondamentale del procedimento
scientifico: la ripetibilità degli esperimenti, e dunque la verificabilità dei loro metodi e dei loro
risultati.
Stalker è un film che tenta una delle imprese più ambiziose:
quella di raccontare per immagini il concreto svolgersi della vita dello
spirito e le dinamiche elementari che lo governano. Tali leggi, che pure hanno
un loro rigore,
rifuggono dalla precisione ipostatizzante della scienza. In questo senso vanno lette
tanto la mutevolezza della Zona quanto l’inafferrabilità della Stanza, ridotta,
come detto, a soglia (la soglia consente di fluidificare la Stanza, cioè di non oggettivarla, di non ridurla a una rappresentazione
che si pretende esaustiva). Tale indeterminabilità non
implica però una mera apofansi; è anzi il risultato di un’essenziale esperienza personale del visitatore, che non
solo ridisegna “a sua immagine e somiglianza” la Zona, ma ne riplasma anche
– e soprattutto – il punto nevralgico, la Stanza. Così come non c’è una Zona,
parimenti non c’è una Stanza. Ma con questo non si può saltare alla conclusione opposta: che
non ci sia alcuna Zona, o che non ci sia alcuna Stanza, quasi che l’una e l’altra si dissolvessero nel
relativo. Nel movimento di oscillazione in cui esse sono prese si intuisce l’esperienza
più propria dello spirito: la libertà. Ciò trova conforto in un’annotazione assai incisiva del Martirologio di Tarkovskij, che compare in
data 5 settembre 1970: «La vita certamente non ha alcun senso. Se ne avesse uno
l’uomo non sarebbe libero, diventerebbe piuttosto schiavo di quel senso, e la
sua vita si edificherebbe partendo da criteri completamente nuovi. Da criteri
di schiavitù. Come gli animali, il cui senso della vita consiste nella vita
stessa, nella continuazione della specie. L’animale svolge il suo lavoro di
schiavo, perché sente istintivamente il senso della vita. Per questo la sua
sfera è chiusa. La pretesa dell’uomo sta invece nel voler raggiungere
l’assoluto». Tarkovskij non dice
semplicemente che la vita non ha senso alcuno; tale mancanza di senso vale sub
condicione: la
vita non ha senso, perché, se ne avesse uno, l’uomo non sarebbe libero; una
verità manifesta e incontrovertibile costringerebbe l’uomo a una condizione
servile. Il non senso non va quindi interpretato come un non senso piatto e
vuoto, ma come enigma, o ancor meglio come mistero – come l’imminenza di una
rivelazione che non si compie mai, come una sovrabbondanza che, nella sua
multiformità persino contraddittoria, mai si esaurisce.
Il
peso della libertà e il Grande Inquisitore
La questione della libertà in Stalker può essere tematizzata anche a
partire da un’allusione molto sottile, inserita con apparente accidentalità e
noncuranza. Nei paraggi della Stanza, il Professore manifesta tutti i suoi
timori e le sue paure: «Ma quando a questa Stanza ci crederanno tutti, ve lo
immaginate cosa potrà succedere? Quando tutta quella gente si precipiterà qui…
Si tratta soltanto di una questione di tempo. Se non è oggi è domani. E non a
decine, ma a migliaia. Tutti questi imperatori mancati, Grandi Inquisitori,
Führer di ogni razza, benefattori e salvatori di tutto il genere umano. E non
verranno per il denaro o per l’ispirazione, ma per rifare il mondo». «Ma questi
non ce li porto, li so distinguere io!», protesta lo Stalker. «Ma cosa vuol
distinguere? Lei è soltanto ridicolo. E poi non è l’unico stalker al mondo. E
nessuno stalker sa con cosa vengono e con cosa vanno via tutti quelli che vi
prendete la briga di guidare qui».
Tra tutte le sinistre figure evocate dal Professore,
colpisce che egli faccia riferimento al Grande Inquisitore. Il Grande
Inquisitore è un personaggio letterario, che compare nei Fratelli Karamàzov di Fëdor Michàjlovič
Dostoevskij (parte II, libro V, capitolo V). Dostoevskij è uno dei principali
protagonisti della formazione culturale di Tarkovskij e il suo nome è uno di
quelli che più regolarmente ricorrono nel Martirologio (lì emerge come Tarkovskij avesse
addirittura in animo di girare un film sulla sua vita).
Il capitolo dei Fratelli Karamàzov dedicato al Grande Inquisitore è
un testo di straordinaria complessità e densità dal punto di vista storico,
filosofico e teologico. Si tratta di una finzione letteraria inventata da Ivàn
Karamàzov sulla falsariga di quelle opere poetiche in cui «si usava far
discendere sulla Terra le forze celesti». Ivàn colloca l’azione in Spagna,
a Siviglia, nel corso del XVI secolo. Egli si immagina che Cristo torni sulla
terra per far visita ai suoi figli. Proprio il giorno innanzi si era svolto un
grandioso autodafé, in cui erano stati arsi sul rogo un centinaio di eretici.
Dopo aver compiuto un paio di miracoli, Cristo incrocia sulla piazza antistante
la cattedrale il Grande Inquisitore in persona. Quest’ultimo, che fino a quel
momento aveva osservato in disparte le gesta del Cristo, lo fa subito arrestare
dalla scorta e trasportare nelle prigioni del Santo Uffizio. Il popolo è
incapace di reagire, perché troppo avvezzo al potere dell’inquisitore. Di notte
l’inquisitore si reca nella cella del prigioniero e gli parla, senza ricevere
risposta alcuna.
La narrazione fantastica che Dostoevskij mette in bocca a
Ivàn va contestualizzata all’interno della militanza panslavista dello
scrittore, nonché delle polemiche ortodosse contro il cattolicesimo romano e
contro l’ubriacatura papale di potere terreno, culminata con l’attività e il
proselitismo della compagnia di Gesù. Nell’interpretazione eterodossa dell’Apocalisse
di Giovanni offerta
nel corso dell’Idiota, per esempio, viene spiegato come la grande meretrice che troneggia
sulla bestia satanica non sarebbe l’Impero, bensì la
Chiesa romana.
Nella finzione di Ivàn il Cristo tace perché secondo i
cattolici romani egli ha reso il papa depositario dei suoi insegnamenti. Il
Grande Inquisitore non esita addirittura a definire il ritorno del Cristo come
qualcosa di importuno. Cristo non ha il diritto di proferire parola. «No, non
ce l’hai – spiega il Grande Inquisitore – per non aggiungere altro
a quello che hai già detto una volta, per non privare gli uomini della libertà
che avevi tanto difeso quando eri sulla terra. Tutto quel che di nuovo
predicassi ora attenterebbe alla libertà di fede degli uomini poiché
apparirebbe come un miracolo, ma la loro libertà di fede ti era più cara di
ogni altra cosa, già allora, millecinquecento anni fa».
Bell’impiccio quello della libertà, sospira il Grande
Inquisitore; la chiesa ci ha messo quindici secoli per venirne a capo e per
capire che la libertà va annientata. Alëša Karamazov, l’interlocutore di
Ivàn, esprime al fratello il suo sconcerto e sbigottimento. Ivàn promette che
le cose si chiariranno cammin facendo, con l’evolversi del racconto.
L’asse portante del discorso del Grande Inquisitore sta
nel modo in cui vengono rilette le tre tentazioni di Cristo (Mt 4, 1-11). Nella
formulazione di queste tentazioni il grande inquisitore vede all’opera «lo
spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non
essere», Satana dunque, che secondo l’Inquisitore ha capito gli uomini più
profondamente di Cristo e ha intuito gli sviluppi della futura storia umana.
Cristo ha rifiutato dapprima di trasformare le pietre in pani (avrebbe potuto
soddisfare la fame dei fedeli e conquistarli così alla sua causa); poi Cristo
si è opposto all’invito di Satana di gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e di
farsi portare in salvo dalle mani degli Angeli (la certezza perentoria del
miracolo avrebbe sopraffatto qualsiasi esitazione o incredulità degli uomini);
infine, Cristo non si è prostrato ad adorare Satana, per quanto quest’ultimo
gli abbia offerto le ricchezze di tutti i regni gloriosi degli uomini. Il
Grande Inquisitore si vanta di aver accettato – lui sì – il dono di
Satana, di aver preso Roma e la spada dei Cesari. E chiede a Cristo con
amarezza e disappunto: «Perché respingesti quest’ultimo dono? Accettando questo
terzo consiglio dello spirito potente tu avresti esaudito tutto ciò che l’uomo
cerca sulla Terra, e cioè: chi venerare, a chi affidare la propria coscienza e
in che modo infine riunirsi tutti in un unico formicaio comune e concorde,
perché il bisogno di un’unione universale è il terzo e ultimo tormento degli
uomini [dopo il pane e la certezza sul motivo per cui si vive]».
In questo senso si spiega non solo l’accostamento operato
da Tarkovskij tra i Grandi Inquisitori, gli imperatori mancati e i Führer di
ogni razza, ma anche la chiamata in causa dei «sedicenti benefattori e
salvatori di tutto il genere umano». Se Cristo è mosso dal desiderio di rendere
l’uomo libero, e perciò si de-regalizza e de-potenzia, tali benefattori e salavatori ambiscono a rifare
il mondo secondo la loro visione unilaterale.
Tuttavia, ciò che distingue il Grande Inquisitore dalle
altre figure evocate è che egli offre ai credenti la possibilità di sgravarsi
del peso della libertà, e lo fa proprio in nome di Cristo (correggendo magari
l’opera imperfetta del Redentore in base alla lungimiranza di Satana). Il
Grande Inquisitore opera in nome della fede e dello spirito. Da qui un’ambiguità che investe
potenzialmente anche lo Stalker. Tarkovskij vi accenna in un passo del Martirologio datato 28 gennaio 1979, che
risulterebbe quasi incomprensibile al di fuori di questa cornice
interpretativa: «E se sviluppassi Stalker in un successivo film, utilizzando gli stessi
attori? Stalker comincia a trascinare contro la loro volontà le persone nella
“Stanza” e si traforma in un “gran sacerdote” e fascista. “Trascinati per i
capelli verso la felicità”. Può esistere un modo come questo per diventare
felici, “trascinati per i capelli”? Vladimir Uljanov? Šarik? Come nascono
gli scuotitori di fondamenta? Sono tutte domande sicuramente non prive di
senso. Devo pensarci».
Il fatto che Tarkovskij pensi a un sequel dimostra che in Stalker queste idee rimangono “dietro le
quinte”. Eppure esse sono presenti in modo embrionale, quasi imbozzolate in un
discorso di diverso tenore. Si pensi, per esempio, al tono delle accuse che lo
Scrittore, ormai in prossimità della Stanza, muove allo Stalker: «Zitto. Sta zitto!
Ormai ho imparato a conoscerti bene. Te ne freghi tu della gente. Tu guadagni
soldi sfruttando la nostra angoscia. Sì, la nostra angoscia. E non è neanche
una questione di soldi… è perché qui tu te la godi. Sei signore e padrone. Tu
verme pidocchioso decidi chi deve vivere e chi deve morire. Sceglie! Decide!
Finalmente sono riuscito a capire il motivo per cui voi Stalker non entrate mai
nella stanza. Ma perché? Qui vi ubriacate di potere, di segreti, di autorità.
Quali altri desideri ci possono essere?».
Formulare le leggi dello spirito è qualcosa di
paradossale, di equivoco. E Stalker non sfugge all’ambiguità.
L’esperienza umana del trascendere
Quando Tarkovskij si confronta con la verità religiosa, lo
fa al di fuori di ogni cornice dottrinaria o peggio precettistica. Egli,
infatti, individua nell’esperienza cristiana alcune strutture di fondo
dell’esperienza umana tout court. Il regista russo insiste in particoalre su un’apertura incondizionata, priva di
specificazioni e di determinazioni ulteriori. La speranza, la preghiera, la
fede, il miracolo, il dono, l’amore vanno ridotte a forme di quest’apertura e
perciò sfrondate delle relative sovrastrutture teologiche. Tarkovskij non mira
all’esibizione della trascendenza; mira a dare forma narrativa al movimento
umano del trascendere, inteso come possibilità della libertà umana.
È proprio quest’apertura, in sé e per sé, che il
Professore vorrebbe distruggere attraverso la sua bomba. Analogamente in Solaris lo scienziato
Sartorius procedeva all’annientamento degli ospiti della stazione orbitante.
Nell’uno e nell’altro caso gli uomini di scienza optano per l’eliminazione di
ciò che avvertono come irrazionale, incontrollabile, e perciò minaccioso. Dopo
aver attribuito proprio alla Stanza tutte le nefandezze umane (da dove
potrebbero provenire queste ultime, se non da quella fonte di irrazionalità e
di follia?), il Professore spiega: «Finché questa piaga rimarrà aperta a
qualsiasi canaglia, non avrò pace».
In Stalker Tarkovskij mette in scena dei tipi umani. Potremmo raccogliere questi tipi
in due gruppi distinti: i personaggi chiusi, intrappolati nel proprio orizzonte
come in una prigione; e quelli aperti, capaci di trascendere. Lo Scrittore e il Professore
rientrano nella prima categoria: l’uno è portavoce del cinismo e della
disillusione che hanno soggiogato e isterilito l’arte (ormai ridotta a
provocazione o a dimostrazione di bravura su cui i critici si avventano come
animali famelici, producendo la chiacchiera assordante dell’opinione); il
secondo rappresenta l’angustia potenzialmente violenta della visione
scientifica del mondo.
Nell’altro gruppo sono inclusi i personaggi che incarnano
le varie forme dell’apertura – forme tutte interconnesse tra loro. Lo Stalker è
una guida, un traghettatore. Per certi versi egli è un aspostolo in senso
evangelico: un inviato della Zona (apostolo deriva dal verbo greco apostéllō, «io invio»). Tuttavia, la
peculiarità dello Stalker è che egli è un apostolo senza Vangelo. Quando il
viaggio finisce, sembra tornare a mani vuote, non fosse per il cane che gli si
è avvicinato nella Zona e che ora continua a seguirlo. Come a dire che la sua
spedizione non è stata invano.
La moglie dello Stalker è figura dell’amore e del dono di
sé all’interno dell’istituzione del matrimonio. È una personalità etica. Lo
stesso Tarkovskij lo suggerisce persino nelle modalità di messa in scena dell’intenso
monologo finale, in cui la donna parla guardando direttamente nella macchina da
presa, quasi interpellando lo spettatore. Questo personaggio ha accettato di
vivere accanto allo Stalker e di farsi carico della sofferenza implicita nel
legame. Tutto ciò non va inteso come una mera subordinazione della donna. La
compassione della moglie dello Stalker è una disposizione più originaria
rispetto alla contrapposizione tra attività e passività. Lo dimostra la
conclusione di chiara matrice dostoevskiana, in cui la felicità viene associata
al patimento. Riecheggia qui il profetico avvertimento con cui lo stàrets
Zosìma congeda Alëša Karamàzov, dopo averlo invitato a lasciare il
monastero: «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il
mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità».
La figlia
dello stalker, infine, incarna la fede assoluta e il miracolo. Come il padre,
anch’essa fa parte di quelle «cose deboli del mondo» di cui parla San Paolo.
Nella figura di questa fanciulla, che riprende quella del fonditore di campane
di Andrej Rublëv,
viene anche ribadito che dei bambini è il regno dei cieli (Mt 18, 3-7). La
situazione di minorazione in cui versa la figlia dello stalker (è priva
dell’uso delle gambe ed è muta) rende ancora più straordinaria l’assolutezza
del suo abbandono. La sua fede è quella che – metaforicamente –
smuove le montagne (Mt 17, 20-21). E infatti la bambina, in un tipico finale
tarkovskiano, sposta i bicchieri posati sul tavolo. La figlia dello Stalker sta
a testimoniare quanto inutili siano la perimetrazione della Zona e persino
della Stanza. Se la soglia decostruiva la Stanza, ora il miracolo della bambina
decostruisce la soglia: infatti, qualsiasi luogo si fa soglia potenziale, si fa
varco, si fa occasione per il movimento del trascendere. Ciò trova una
peculiare conferma se si considera il fatto che la bambina è l’unica a portare
il colore fuori della Zona, facendo sì che venga superata la contrapposizione
tra questo spazio eccezionale e quelli degradati e desolati della quotidianità.
Ma se alla fine il miracolo s’impone nel modo più
eclatante, il film di Tarkovskij – per parafrasare Dostoevskij –
non ci “asservisce” alla trascendenza? Il film lascia trapelare dell’altro.
Tarkovskij sembra metterci in guardia nella scena in cui la bimba viene portata
cavalcioni sulle spalle del padre. Un’inquadratura stretta fa sì che lo
spettatore abbia l’impressione che la bambina abbia recuperato l’uso delle
gambe – probabilmente un prodigio compiuto dalla Zona. Ma uno zoom all’indietro
ci mostra il genitore che sorregge la figlia e che cammina per lei. Questo
falso miracolo dà per certi versi l’impronta anche al miracolo “autentico” che
si consuma nel finale.
La bambina, come si diceva, sposta i bicchieri sul tavolo.
O meglio, sembra spostarli.
Tarkovskij crea un’aura di sospensione e di indeterminabilità intorno
all’episodio per mezzo di un raffinato gioco di richiami, che per di più fa
chiudere il film circolarmente. Infatti la scena del miracolo presenta
rilevanti omologie strutturali con la terza inquadratura del film, quando una
carrellata laterale prende le mosse da un vassoio, mostra i membri della
famiglia coricati a letto, e poi torna sui suoi passi, approdando di nuovo al
punto di partenza. Il modo in cui attacca la musica, la presenza del fischio
del treno e dello sferragliare delle rotaie, la simmetria dei movimenti di
macchina e infine la vibrazione degli oggetti rendono le due scene assai
conformi. Solo che nel primo caso non si hanno dubbi circa le cause delle
perduranti oscillazioni. Nel finale, invece, il passaggio del treno (sempre in
fuori campo) sembra avvenire poco dopo il manifestarsi della telecinesi. È in questa
ambigua sfasatura (spazio del fantastico) che accade il miracolo: non si impone in modo
perentorio e categorico, ma rimane sul filo dell’incertezza e della
possibilità. Tanto che quando, con uno stacco netto, lo schermo si fa nero,
continua a udirsi, pur nel suo progressivo spegnimento, il riverbero dei suoni
tremolanti prodotti dal transito del convoglio.