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CIVILTÀ ALIENA

Elementi di educazione civica in District 9 (2009, di Neil Blomkamp)

di MASSIMO SCALVINI

 

Un'idea, un concetto, un'idea
finché resta un'idea è soltanto un'astrazione
se potessi mangiare un'idea
avrei fatto la mia rivoluzione.

 

Giorgio Gaber, Un’idea

La fantascienza svolge una funzione di Educazione civica che nessun altro genere – letterario o cinematografico - esercita in modo così chiaro, lineare, profondo e radicale. Almeno in due direzioni sviluppa questa sua funzione: in un verso abbiamo la cosiddetta fantascienza distopica che ci ammonisce costantemente nei confronti di una non troppo ipotetica perdita della libertà – in tutte le sue molte forme – e che lancia la sua feroce critica verso tutti i totalitarismi, di qualsiasi matrice, passati, presenti e futuri. Poi c’è tutto il mondo degli alieni.

In un breve racconto per ragazzi di Edward Dentinger Hoch intitolato Zoo, un affarista interplanetario, il professor Hugo, atterra ogni anno sulla terra per esibire le sue bizzarre creature da altri mondi chiuse in gabbie come pericolosi animali; per vederle gli esseri umani attendono in coda a lungo e pagano un biglietto. Una volta tornati sul loro pianeta i “mostri” alieni raccontano ai loro familiari di come sia stato interessante ed affascinante il viaggio compiuto e quanto valesse la pena pagare il biglietto per quel viaggio. La visita la più interessante? Quella sulla terra con i suoi singolari esseri umani: riparati da sbarre per proteggersi da quei pericolosi animali che portano indumenti sulla pelle e camminano su due zampe.

Un ribaltamento di ruoli semplice e geniale. Chi sono gli alieni? Chi sono gli altri?

District 9 racconta la stessa storia. In modo singolare, affascinante, estremo, definitivo, con una regia abbagliante che porta a compimento alcuni decenni di sperimentazioni e contaminazioni tra generi e tecniche cinematografiche, racconta la stessa storia.

Sudafrica, si potrebbe pensare che l’intero immaginario contemporaneo possa aver trovato in quella nazione, in cui le differenze razziali per decenni furono legge, il suo paradigma: la figura mastodontica di Mandela con il suo grande ideale e le tensioni ancora irrisolte raccontano molto anche della nostra realtà più recente, ma anche delle timide aperture, delle diffidenze, delle ostilità verso chi è altro da noi, del desiderio di allontanare ciò che c’è alieno. Lo stesso regista afferma che: «L’idea di base [del film, ndr] è generata decisamente dall’idea di due razze che si incontrano sulla soglia di una delle due. Voglio dire, questo è quello che è il Sudafrica. Non c’è assolutamente alcun dubbio che sia così». [1]

L’intento era chiaro fin dalla virale campagna di promozione del film. La produzione aveva tempestato varie città con cartelli pubblicitari che riprendevano la grafica di normali cartelli di divieto ma i messaggi d’inquietanti avvisi razzisti che rimandano a tempi meno nobili ma non del tutto scongiurati. Non solo, questi cartelli invitavano anche a segnalare casi “sospetti” sul sito del film.

A Johannesburg, nei primi anni ’80, sono atterrati gli alieni: malati e denutriti. Da allora sono stati ammassati in una baraccopoli alle porte della città creata per loro; ogni tanto qualche extraterrestre scappa tra gli umani alimentando l’astio e l’intolleranza. Queste le premesse su cui si sviluppa District 9.

Gli umani intervistati dalla TV gridano che bisogna toglierli di mezzo perché si spendono troppi soldi per tenerli lì; per tutti sono degli incivili, delle bestie, dei gamberoni. Devono essere allontanati dalla vista. Per questo, con un atto di finta legalità e umanità, viene destinata loro una nuova area in cui essere rinchiusi: più salubre forse, più lontana dalla città e dalla vista dei cittadini sicuramente. Lo scopo vero dell’operazione è quello di cercare e capire il funzionamento delle armi di cui sono in possesso gli alieni.

Singolare ed istruttiva la vicenda dei nigeriani che vivono all’interno del District 9: continuano ad accumulare armi che non sono in grado di utilizzare, immagazzinano beni inutili e lo fanno con una ferocia inaudita. Un capitale inutilizzabile accumulato solo con la prospettiva futura di poter dominare su ciò che gli sta attorno: un mondo arido in cui gli unici che dimostrano un minimo di sentimenti sono degli esseri che si nutrono di cibo per gatti e che non vedono l’ora di lasciare il nostro pianeta.

Molti hanno sottolineato come la forza del film sia quella di riuscire a mescolare in modo ardito e sapiente molte tecniche di ripresa non convenzionali: il film inizia come un mockumentary per poi innescare riprese cinematografiche tradizionali, riprese con macchine a mano, interviste a parenti ed esperti, riprese con videocamere a circuito chiuso, riprese a mano. La sapienza dell’ibridazione delle tecniche di ripresa nasconde una forte critica ai media che istigano l’intolleranza attraverso la diffusione delle sole idee favorevoli all’opinione dominante.

L’ibridazione tecnica rimanda a quella biologica che avviene tra l’umano Wikus van de Merwe e gli alieni quando entra in contatto con il fluido biologico che permette di mettere in moto l’astronave e di far funzionare le micidiali armi aliene. La contaminazione costringe il capo dell’operazione MNU a perdere la propria identità, a diventare un ibrido bastardo – viene accusato, a torto, di aver avuto rapporti sessuali con gli alieni – un reietto ancor peggiore degli stessi gamberoni; a perdere le proprie sembianze, il proprio corpo.

Wikus van de Merwe diventa prezioso, ricercato, perché è l’unico umano in grado di far funzionare le armi degli alieni che utilizzano una tecnologia ancora sconosciuta ai terrestri. Viene ricercato, braccato e lui si vede costretto a confrontarsi con quegli esseri che fino a poco prima aveva mal sopportato. Ne diventa complice, ne capisce i sentimenti: soprattutto ci mostra l’umanità dell’altro e la vergogna della nostra intolleranza. I primi sintomi evidenti della sua trasformazione si manifestano durante la festa per la sua promozione a capo dell’operazione, il suo nuovo corpo nascente rifiuta la sua vecchia vita e lo costringe a vomitare sulla torta. Durante la metamorfosi diventa più “umano”, meno denigratorio. Soprattutto diventa più forte.

Diventa prezioso nel momento in cui si contamina, in cui la vicinanza con l’altro è massima. Fa paura non perché è diventato un figlio di puttana mezzosangue – come al solito si tenta di esorcizzare la paura della diversità con l’offesa e lo spregio – ma perché lui è una nuova forma di umanità fino ad allora sconosciuta. Un uomo nuovo che non ha semplicemente fatta sua l’idea della diversità, ma ne ha fatto – suo malgrado – il proprio corpo. Se l’è letteralmente mangiata quell’idea. Diventa il diverso che trova casa tra i diversi. Anche se inizialmente rifiuta il cambiamento – si taglia il braccio mutato – troverà affinità sempre maggiori con i gamberoni – il piccolo alieno gli dice che sono uguali – e in particolar modo trova un destino comune: vogliono entrambi tornare a casa. Nasce un’alleanza tra umano e alieno che ci racconta come si potrebbe avere un futuro collettivo, magari un avvenire in cui ognuno ritrova la propria casa. Ma l’arroganza, la superbia e l’avidità dell’uomo – come genere, meno come specie – porta al fallimento. Costringe l’essere nuovo a vivere e a rovistare nella spazzatura per costruire quei fiori fatti di rifiuti, come lui rigettato tra i reietti, da mandare all’amore che ancora lo aspetta. Ultimo atto poetico di un’opera che prima di tutto vuole educare alla convivenza, al senso civico necessario per costruire un mondo per tutti e non solo per qualcuno. Un mondo che ancora non sa guardare all’unicità, ma continua a perdersi nella paura, nella sicurezza dell’uguale, a costruire barriere e gabbie e, in questo modo, si perde la bellezza di quei fiori fatti di spazzatura.

 



[1] La problematica aliena. Il diario di un produttore. Capitolo 1: Immaginare District 9. Nei contenuti speciali del DVD edito da Sony Picture Home Entertainment (2010).

IL PROFETA
 
 

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