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LA CECITÀ COME EMBLEMA DELLA PERFEZIONE

 

su Anna (2007, di Alejandro González Iñárritu,

frammento di Chacun son cinéma)

 

di MARTINA BONICHI

 

 

 

Si limitò ad allungare le mani

fino a toccare il vetro,

sapeva che la sua immagine

era lì a guardarlo,

l’immagine vedeva lui,

lui non vedeva l’immagine.

 

José Saramago, Cecità

 

 

Fuori campo, su uno schermo ancora nero le parole di Brigitte Bardot e Michel Piccoli si raccontano di fronte ad una sala di spettatori ammutoliti. Una sigaretta stretta tra le mani è la prima immagine che compare, raccontando la presenza di una spettatrice profondamente commossa e rapita dalle voci del film proiettato.

In campo compare un’altra mano, si poggia su quelle di Anna ed un viso, nella penombra della sala, si avvicina e le descrive sottovoce le immagini che si susseguono divorandosi l’un l’altra. La macchina da presa ora sale fino a scorgere il volto di una donna mentre piange ed un piccolo film prende vita, in soli 3 minuti, negli occhi cerulei ed avidi di una spettatrice che accede all’invisibile, oltre il buio, di fronte ai suoi occhi. Uno sguardo perso nel vuoto, occhi sognanti, commossi, profondamente turbati, eppure privati della vista, fanno di Anna, il cortometraggio di Alejandro González Iñárritu – proiettato al Festival di Cannes nel 2007, insieme ad altri trenta, nel film collettivo Chacun son cinéma – un esemplare rappresentazione del senso del visibile nonostante che la protagonista sia una spettatrice non vedente.

 

Gli occhi ciechi bramano una realtà che non si coglie con l’occhio che vede ma in una dimensione “tattile”, percependo la materia delle immagini, prima che queste si mostrino sullo schermo. Sembra che gli occhi le accompagnino, le conducano alla luce attraverso l’emozione suscitata dalle parole, istante dopo istante, finendo col creare un proprio film immaginativo. Rappresentando il paradosso di come ogni film visto nel buio di una sala diventi un film intimamente diverso per ogni spettatore, il protagonista cieco, ancor più, supera il suo punto limite e si fa  onnivedente. «Ti ho guardata per cinque minuti ed è come se non ti avessi mai vista», recitano le parole di Paul, nel film Les Mépris (Il disprezzo, 1963) di Jean-Luc Godard, proiettato nel cinema nel quale Anna è seduta, come unica spettatrice cieca, intorno ad un pubblico vedente.

 

Gilles Jacob, in occasione della sessantesima edizione del Festival di Cannes, ha chiesto agli autori più significativi del cinema mondiale, di girare un cortometraggio sul tema della sala cinematografica, per catturare l’idea che ognuno di essi aveva dello spettatore, un autoritratto allo specchio nel buio della sala cinematografica. Sotto lo sguardo imparziale della macchina da presa, nella scelta di un cinema come osservatore della verità, in Les Mépris, di fronte all’arroganza di un produttore americano ed al compromesso di uno scrittore di teatro, Godard mette in atto il disprezzo per un certo cinema commerciale. Approfondendo il continuo rapporto tra la classicità – nella scelta di Fritz Lang come regista creatore, un uomo saggio e libero – e la modernità, lascia emergere, sempre più, una visione sprezzante del mondo del cinema. Parallela alla realizzazione dell’Odissea, che il regista Lang è chiamato a girare, Godard, nell’isola di Capri, dove tutti i personaggi si ritrovano come naufraghi, mette in scena un’odissea in cerca della vera essenza del mito, alla ricerca di Omero e del senso ultimo che ha il lungo peregrinare di Ulisse. Accanto alla calma e all’onestà di Fritz Lang, nella parte di se stesso, si ritrovano davanti alla lucida verità della macchina da presa, personaggi meschini che passano la propria vita giudicando e disprezzandosi l’un l’altro.

 

Sullo schermo Les Mépris, in cui Godard accenna ai caratteri intrisi di meschinità e grettezza. Di fronte Iñárritu sceglie la realtà di una spettatrice cieca che raggiunge il desiderio di riscatto, di liberazione, rigenerandosi attraverso le particolari modulazioni delle voci. Senza soffermarsi troppo sulle parole che rappresentano continui inganni – ingigantendo la confusione rispetto ai caratteri – ad Anna si mostra, parola dopo parola, il film come un inesauribile flusso emotivo. Le immagini si fanno mute, inaccessibili, impalpabili e le parole prendono forma, si fanno consistenti, evocando figure e volti. Così, di fronte ad uno schermo nero, come lei lo percepisce, sono le variazioni di toni, una polifonia di voci, una molteplicità di suoni ad aprire uno scenario visivo che si costruisce attraverso le sfumature e le diverse tonalità. Oltre una parola detta, sussurrata o urlata, si percepisce la forza, l’irruenza, la pietà e l’indifferenza che danno spessore ad un carattere, che costruiscono un personaggio, dandogli profondità ed un corpo con il quale agire. Di fronte ad un film costruito sull’aridità dei caratteri è la pura emozionalità di uno sguardo cieco a colmarne i vuoti. Sono i suoi occhi a leggere la solitudine, l’incomunicabilità e quel profondo senso di estraneità nelle intermittenze delle voci di Brigitte Bardot e Michel Piccoli.Le diverse modulazioni delle voci fanno sì che la protagonista raggiunga una tale empatia con il film da superare l’invisibilità delle immagini ed arrivare a percepire, attraverso le pause ed i silenzi, il film nella sua interezza, giungendo cosi ad una esemplare rappresentazione mentale delle parole che si scambiano i personaggi.

La visione – come sostiene Merleau-Ponty – si può descrivere quale «modalità originaria di co-appartenenza del soggetto e dell’oggetto alla stessa carne del mondo». [1] E, nella regia di Iñárritu, in una realtà che si sottrae alla vista, la voce si trasforma in oggetto strategico, inafferrabile e allo stesso tempo esplicativo: l’unico luogo possibile nel quale poter costruire un immaginario.

 

Per raccontare questa storia, Iñárritu, allo stesso modo di Godard, gira in un unico piano-sequenza, perché la macchina da presa possa filmare l’immediatezza e la casualità dei gesti e delle espressioni. Allo stesso modo in cui Godard gira le scene dei lunghissimi dialoghi, Iñárritu [2] sceglie, con l’uso del primo piano di Anna seduta nel cinema, di insistere sulle variazioni e trasformazioni che si dipingono sul volto della spettatrice nell’ascoltare solo delle voci irreali che esprimono senza riserve quello che si cela nell’immagine. Così, nonostante la cecità, la protagonista assume il ruolo di soggetto vedente e attraverso uno sguardo partecipativo e l’emozione che vive di fronte ad un film diventa oggetto dello sguardo degli spettatori che assistono al cortometraggio.

 

«Era in bianco e nero?», «No, a colori» – risponde l’uomo. Lei lo abbraccia, chiude gli occhi e le lacrime scendono mentre lo schermo si fa nero. Uno sguardo cieco, senza che possa raccogliere nulla, si fa vedente al punto da farle chiudere gli occhi, di fronte all’irruenza delle immagini che corrono sullo schermo e che lei non vede, creando un gioco di intermittenze immaginative (visive), interrompendo il flusso continuo di emozioni che le si poggiano sugli occhi.

 

Anna è spettatrice e protagonista; solo attraverso il suono delle parole che sente, senza poter attuare una totale coincidenza con ciò che si mostra sullo schermo realizza l’unica possibilità di un’identificazione primaria nella quale possa far coincidere il proprio sguardo con quello della macchina da presa: l’unico reale soggetto capace di vedere in mezzo ad una schiera di personaggi non vedenti.      

 



[1] Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris, Édition Gallimard, 1964. (tr. it. Il visibile e l’invisibile), Milano, Bompiani, 2003, p. 133. «Il visibile può così riempirmi e occuparmi solo perchè, io che lo vedo, non lo vedo dal fondo del nulla, ma dal cuore del visibile stesso; io, il vedente, sono anche visibile».

[2] «Credo di andare sempre alla ricerca di una catarsi. Provocare delle emozioni affinché la gente rimetta in discussione dei pensieri e delle idee. Stimolare delle reazioni intellettuali ed emozionali». Tratto dall’intervista a Cannes nel 2007 in occasione del film Chacun son Cinèma.

 

 

 

 
 

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