“NON LASCIARE CHE I BASTARDI TI AFFOSSINO”
attraverso This Is England (2006, Shane Meadows)
di GISELLA VISMARA
Il tuo aspetto
riflette la tua estrazione.
L'una e l'altra
cosa ti configurano
per quel che
sei. Un bel problema.
Arrogantemente
proletario.
Una parodia dell'operaio modello,
sentenziano i
sociologi di Birmingham.
Il detto “Old,
merry England”, già a metà
Ottocento, non significava più nulla, lo scriveva Engels nel 1845. Il
necrologio marxista della Old England suonava come la fine di un’epoca e
l’annuncio di una nuova èra che, dal canto proprio, non trovava oramai più
alcuna corrispondenza con le narrazioni e le memorie appartenute ai nonni.
Cento anni prima, dal duro ventre della rivoluzione industriale, nasceva la
storia del proletariato inglese, che avrebbe determinato una profonda
trasformazione politica, sociale, economica, urbanistica nel Paese, e alterato,
rivolgendole, le vicende della lotta di classe. Di fatto «le condizioni
del proletariato nella loro forma classica, nel loro pieno compimento, esistono
[…] soltanto nel Regno Unito, particolarmente nell’Inghilterra vera e propria».
Così nella metà
del XIX secolo stava tramontando quella borghesia settecentesca, per lo più
piccola, di cui William Hogarth, esattamente cento anni prima, ne fu brillante
e sagace ritrattista. Questa classe sociale, nel passato la più potente, nonché
zoccolo duro della società britannica, in quel tempo, andava oramai nutrendosi
solamente delle macerie e delle briciole avanzate dal fallimento economico; gli
“speculatori” e i “cavalieri d’industria”, aspiranti a una qualche nuova
fortuna, secondo la definizione engeliana, erano destinati, per il novantanove
per cento, alla decadenza; di fatto, pochi avrebbero ricostruito le loro
ricchezze economiche, e altrettanto pochi avrebbero vestito i panni del
capitalista moderno. Si inaugurava, così, il secolo della separazione più
evidente, spietata, lacerante tra la classe dei ricchi e quella dei poveri, in
cui, al contempo, il capitalismo in ascesa scopriva, senza pudori, il proprio
volto disumano.
Gli episodi de La carriera di un libertino, narrati da
Hogarth nel 1735, coglievano puntualmente la morale di questa piccola borghesia
inglese, la quale trovava nel denaro, nel gioco d’azzardo, nell’avarizia, nella
dissolutezza dei costumi, nella grettezza umana e nell’arrivismo, più biechi, i
suoi precetti comportamentali. La scena conclusiva, di un moralismo veramente
crudo, che espone, in primo piano, il corpo ancora atletico del libertino
oramai in manicomio, il famoso ospedale londinese “Bedlam”, descrive grottescamente la fine
tragica di questo lussurioso ereditiero. Alle sue spalle, come in una pièce teatrale, o meglio, come nelle
corti d’Ancien Régime popolate dai
buffoni, si muovono, con grazia compiaciuta, le incipriate donne della
borghesia bene, accorse per assistere alla follia messa in scena, mentre nani,
streghe, volti stravolti, gesti insensati e corpi deformi contribuiscono,
ognuno a loro modo, alla celebrazione del castigo umano. Tale ideologia si scorge,
di nuovo, potenziata nella sua asprezza, nella cinica serie hogarthiana Matrimonio alla moda (1745); come notava
Nicos Hadjinicoluau, in
particolare, la scena del Contratto, nel
suo contenuto, un “accoppiamento” coniugale combinato, incarna certamente gli
ideali moraleggianti della borghesia, anche se, in realtà, questi dettami
sociali lusingavano e allettavano non poco l’aristocrazia inglese; andava così
formandosi una sorta di “borghesia modello”, a cui i nobili guardavano con
interesse, soprattutto, laddove i piccolo borghesi impartivano la loro
“ideologia moralistica”, in vista di una riforma dei costumi. In seguito, in
tal senso, con le sue incisioni titolate Quattro
stadi della crudeltà, Hogarth spalancava la finestra su una fetida e
affollata città industriale, e da quella posizione, sarcasticamente, poteva di
nuovo, e meglio, pungolare i vizi e le barbarie di un’Inghilterra che si
apprestava a importanti ed irreversibili mutamenti; di fatto, di lì a poco, il
popolo inglese ne avrebbe pagato un prezzo umanamente molto alto. La degna
conclusione, simbolica, allusiva, sempre “pedagogica”, di questa dumb show, ovvero, di questa pantomima
hogartiana, si ritrova ne La ricompensa
della crudeltà: protagonista un cadavere sventrato e rinvenuto dopo un assassinio
brutale. In scena la sua vivisezione per mano di un manipolo di arcigni e
imparruccati professionisti accalcati attorno ad un tavolo anatomico, da cui
pende l’intestino della vittima, pasto succulento per un cane che, da sotto,
brama per nutrirsene.
“This Is England!”, “This Is England!”, “This Is England!”, urla
grondante d’ira Combo, uno dei personaggi del film di Shane
Meadows.
“Questa è l’Inghilterra!”, il paese di
uno skinhead inglese, in un’estate
qualsiasi dell’anno 1983; tuttavia, banalmente, la storia e il passato di una
terra possiedono e mantengono costantemente un loro peso, gravando sugli
avvenimenti successivi. Sarebbe ottuso, quindi, proporre uno sguardo coerente
sul presente che ignorasse “il passato
come germe, o embrione o crisalide del presente ‘maturo’ organismo sociale”.
L’affermazione
che indusse Engels a dichiarare: «Il proletariato può essere studiato in
tutti i suoi rapporti e da tutti i lati soltanto in Inghilterra» rivela non semplicemente lucidità d’analisi intorno alla propria
contemporaneità, ma costituisce assunto storico ancora attuale, trovando
numerose corrispondenze in un nostro presente più o meno prossimo. Una “classe
operaia”, tra Settecento e Ottocento, in cerca ancora della propria identità
collettiva, rappresentata, in questo periodo di transizione, da un gruppo
generico di poveri, di disoccupati, di lavoratori e da un’umanità, variamente
composta, che affidava ancora la propria sopravvivenza allo spirito
“caritatevole” e “filantropico” dei padroni.
Il costituirsi in “classe” di working men,
che si ridefinivano, così, in un gruppo politicamente e socialmente
autodeterminato, aveva comportato l’originarsi di dispositivi difensivi di
lotta; questo fu processo naturale, conseguente alla guerra sociale innescata
dal capitalismo e dalle vite dei poveri messe a profitto.
Antecedentemente
a tutti gli altri paesi, l’Inghilterra pagava, pertanto, altissimi costi
sociali in termini umani, di cui oggi, per altro, se ne possono ancora
osservare eredità e lasciti infausti. L’accusa che gli operai muovevano alla
società ottocentesca, nel suo complesso, può essere definita con l’engeliana
formula di “assassinio sociale”; una sola classe, la borghesia, poteva,
infatti, decretare la sopravvivenza o la morte silenziosa ed inoffensiva del
proletariato.
Questa era (ed è, in parte) l’Inghilterra in cui Meadows,
centotrenta anni dopo, ambienta il suo dramma sociale, con i suoi protagonisti
che incarnano l’eredità di un passato di classe e animano un presente
altrettanto classista. In mezzo allo scorrere della storia britannica si
aggiungano al conto piuttosto costoso in termini sociali: guerre, colonialismo,
imperialismo, liberismo, privatizzazioni e globalizzazione.
Se il pretesto
narrativo ruota intorno al piccolo protagonista Shaun, figlio e
orfano anch’egli della working class,
il senso del film diviene corale, collettivo: dietro la (auto)-biografia
individuale giace la sofferenza universale degli ultimi, condivisa, mostrata, e
spalmata in ogni ganglio del sociale e del relazionale.
Lo
smantellamento del welfare state, per
mezzo della lunga e violenta mano del thatcherismo, guardato al cinema dopo
trent’anni, non solo colpisce l’immaginario per la sua crudeltà e per le sue
laceranti conseguenze umane, ma indica e ripropone il concetto di presente come
narrazione già annunciata. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra, i
proletari che riproducono se stessi in termini di classe, pagando
inesorabilmente e, sempre loro, in primis,
sia gli effetti della macelleria sociale, che quelli della loro carne messa in
produzione per mezzo del capitale. Ciò non significa adesione al determinismo
storico, ma semplice conferma di alcuni pilastri marxisti, laddove la
rivoluzione socialista non abbia trovato il suo compimento. Seguendo Marx, il
superamento dell’alienazione e la nascita di un reale Umanesimo sono
realizzabili solo là dove si abbandoni il punto di vista borghese del vecchio
materialismo, e lo si sostituisca con il punto di vista del “materialismo
nuovo” rappresentato dalla “società umana
o [dal]l’umanità sociale”.

Meadows,
attraverso gli occhi del dodicenne Shaun, che spesso ascolta con
sincero sconcerto i discorsi folli degli adulti, offre uno spaccato culturale
eccellente: un affresco di quella classe operaia, di quei poveri, disoccupati,
di cui l’Inghilterra abbondava negli anni ’80 del Novecento. I ragazzi di
strada, con cui si accompagna Shaun, nel linguaggio di un secolo prima,
sarebbero stati definiti “popolaccio,
plebaglia”, con
connotazione bestiale, animale; ovvero, le prescrizioni comportamentali
elaborate per loro dai colti “amici dei poveri” avrebbero suonato circa così:
«Si aiutino gli operai a liberarsi di abitudini che li distruggono fisicamente
e moralmente […]. Scoraggino l’agitazione, il complotto e il ciarlatanismo
politico. Diventino una razza sobria e amante dell’ordine».
Questa
peculiarità moraleggiante, associata, a volte, al tipico humor anglosassone, si ritrova anche nel filone della
letteratura inglese “industrial novels”; pagine
che descrivono le radicali conseguenze generate dalla scomparsa della
tradizionale borghesia, divenendo illuminanti presentazioni di una galleria di
ritratti urbani, gretti e spietati, sempre in conflitto con la classe operaia.
In Tempi difficili, Dickens, pur
nella sua reazionaria avversione al concetto classista, e quindi ostile a
quell’“agitazione politica” citata da
Gaskell, restituisce un ideale alienante degno di nota: «Uno scalpiccio di
zoccoli sul selciato, un rapido squillare di sirene ed eccoli!, gli elefanti in
preda di una triste follia, pronti ad affrontare la pesante fatica quotidiana,
ben lustrati e oliati in vista del monotono lavoro».
I kids arruolati da Meadows parlano costantemente il dialetto cockney, qualcuno, come Lol, lavora in fabbrica, qualcun altro è ripetente (Gadget) o
semianalfabeta (Combo), si muovono sempre in gruppo, ciondolando tra tavole
calde, case, feste e bighellonando per le strade di questa cittadina anonima di
provincia. Parafrasando Dick Hebdige, questi ragazzi non appaiono mai né grati,
né pentiti, né eroicamente ribelli, ma, piuttosto, incomprensibili;
come ammetteva un sedicenne skin dell’East London: «Non so perché amo essere uno skin, ma lo sono. Se nessuno mi
dà una buona possibilità di cambiamento, continuerò ad esserlo. Sono nato per
essere uno skin».
La maggior
parte di loro costituiva la nota sacca rigonfia dell’unemployment inglese dell’era Thatcher, insomma, quel
sottoproletariato o proletariato di cui ancora Dickens ne tracciava uno
spietato profilo caratteriale, contribuendo, così, in un certo qual modo, alla
formazione di un’iconografia identitaria, consolidatasi poi, nei decenni,
intorno alla figura del proletario inglese. L’intensa, sarcastica, e tagliente
rappresentazione della working class dickensiana,
se, da un lato, può far sorridere amaramente, dall’altro, conferma un
immaginario classista “trans-epocale” e “trans-culturale”; in merito, secondo
lo scrittore: «neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi
assieme, riusciranno mai a calcolare quale sia la capacità di agire nel bene o
di operare nel male, di amore o di odio, di patriottismo o di scontento, la
capacità di corrompere la virtù in vizio o di esaltare il vizio in virtù, che
si annida nell’animo di ciascuno di questi schiavi mansueti, con i loro volti
scomposti e i loro gesti scanditi».
Siamo in piena new wave anni ’80, e gli “schiavi mansueti”, rapati a zero, di Meadows, non
trascorrono evidentemente le loro giornate piegati sul telaio, o a consumarsi
sulla catena di montaggio fordista, ma appaiono ugualmente rapiti e
attraversati, nel profondo, da una “triste
follia”, da una rabbia intestina e da
un certo malessere sociale. Squilibrio comportamentale, schizofrenia moderna,
mixate a violenza vandalica, sono effetti generati, non tanto dal lavoro alienante
della fabbrica, quanto, piuttosto, da assenza dello Stato, espropriazione del
“comune”,
diseguaglianza, nazionalismo, xenofobia e percezione di un forte senso di
ingiustizia.
Un’aggiornata
versione del proletario dickensiano moderno, contraddistinto, nella sua
immagine, da due ossessioni, “essere
bianco ed essere britannico”, la ritroviamo in “This Is England! And
they don’t live here”; nel suo saggio Hebdige dipinge Harry the Duck,
reietto modello skinhead, tormento di
qualsiasi assistente sociale, quale prototipo dello skin: «goffo […] e non particolarmente brillante. Non […] loquace
[…] sa a malapena scrivere, e le [cui] opinioni non sono mai particolarmente
elaborate (e ancor meno decenti)».
Un tempo i ben
pensanti inglesi avrebbero attribuito a questa “feccia”, a questa “plebaglia”
ancora massa informe, priva di coscienza autonoma e corpo politico,
un’inferiorità di “natura”, ovviamente, alimentata in loro, dalla povertà e
dall’indigenza. Si leggano le esplicative parole di Dorothy Marshall, in merito
alle preoccupazioni, alla fine delle guerre napoleoniche, alimentate dalla
Chiesa Evangelica inglese: «la sotterranea violenza delle classi inferiori
sembrava minacciare la stabilità sociale», accompagnandosi ad un’immoralità
inaccettabile e pericolosa dei costumi: ubriachezza, pigrizia e lassismo. In questa versione moralistica, molto
britannica, la violenza si dà come versione comportamentale derivata,
economicistica, quasi “lombrosiana”, dello status sociale, già incontrata nei pittoreschi e “scomposti” personaggi dickensiani,
caratterizzati da imprevedibilità d’azione, e, pertanto, minaccia per il potere
borghese e per il padronato, proprio per le loro incalcolabili mosse future
viranti verso “vizio” o “virtù”, “amore” o “odio”, e, quindi, pericolosamente
oscillanti tra pace sociale o rivoluzione.
Combo, icona
in-sofferente e violenta, è figlio rabbioso dell’iniquità sociale e classista:
un galeotto da poco uscito di prigione che scarica sulla crew la sua collera contro il potere destabilizzando le
micro-relazioni di gruppo. La sua personale, individualistica denuncia diviene
umanamente comprensibile: la disoccupazione come male generazionale dei giovani
bianchi inglesi. In tal senso, con ragione, Riccardo Pedrini, studioso e
protagonista della scena skinhead,
scriveva: «esiste una routine insensata che viene imposta ai membri meno
garantiti della società, del tutto indipendente dal colore della pelle. Esiste
una sorta di peccato originale sociale. Esiste l’ignoranza, esiste la povertà.
Di fronte a ciò ‘non c’è futuro’. […] La sopravvivenza è però quasi assicurata,
e con essa una forma depotenziata di esistenza. L’invisibilità».
Un’invisibilità sociale dei molti che, paradossalmente, viene accettata
comunemente quale naturale e oggettiva nozione, intestina alle comunità
autodefinitesi civili e democratiche, in cui i ricchi comandano e i poveri
subiscono; società che, alla fine, ironicamente davvero, in tal senso, si
presenta “senza classi”.

Il film narra
avvenimenti sentitamente di “classe”, confermando lo svolgersi della Storia
umana, quale sviluppo, conflitto, risoluzione dei rapporti di forza, la cui
natura è sociale ed economica. Shadows confuta, così, il concetto di interclassismo, dimostrando quanto
l’esistenza di una sorta di idea di “metaclasse”, basata sul concetto di “giovane”, sia ingannevole, infondata ed
ideologicamente insostenibile. Innegabile è che il racconto graviti intorno
alle dinamiche giovanili, ai problemi generazionali, in cui gli adulti prendono
più o meno parte, ma altrettanto indiscutibile è come l’occhio del regista
voglia avallare l’attualità delle tesi engeliane.
La storia umana, guardata con
la prospettiva degli “straccioni del
mondo”, si connota, irreversibilmente, come la
storia della lotta di classe, un racconto moderno di sopraffazioni, di oppressi
e di oppressori in conflitto, di subalterni che cercano di sopravvivere e di
uscire dall’invisibilità. L’estrazione sociale ed economica determina sempre lo
svolgersi e il dipanarsi di comportamenti, soluzioni, relazioni e l’esercizio
di una determinata moralità. Il monito accorato di Engels ai lavoratori
inglesi, di metà Ottocento, pare, per l'appunto, attuale: «le classi medie in
realtà ad altro non mirano che ad arricchirsi col vostro lavoro, affinché
possano venderne il prodotto, e farvi morire di fame, non appena non possano
più trarne profitto da questa forma indiretta del commercio di carne umana».
Combo denuncia,
in un’accesa escalation verbale e
corporale, l’esistenza di “tre milioni e mezzo di disoccupati” inglesi senza “un fottuto lavoro”,
accusando gli “stranieri”, provenienti dalle ex-colonie britanniche, di
sottrarre l’impiego ai bianchi e di farsi “fottutamente” sottopagare. “Fragili e sottopagati” è l’espressione
con cui questo skin ridefinisce la
comunità bianca, attribuendo alla condizione subalterna del proletario una
debolezza in termini sociali e umani, derivategli dalla povertà economica,
quindi, dal mancato potere d’acquisto, ergo capitalisticamente, povertà d’esistenza. Parafrasando George Orwell,
dunque, i ragazzi della Gran Bretagna conoscono il loro destino: nascono poveri
e muoiono poveri; dunque, affossati in tale prospettiva umana, il futuro
appartiene solamente a chi se lo può permettere.
Se per un
momento si accantona l’esecrabile deriva razzista di Combo, la sua analisi
politica ignara, ovviamente, delle teorie affrontate da Marx in Grundrisse, sembra piuttosto richiamarne,
paradossalmente, alcuni concetti; in realtà, la Storia continua a riconfermare
che «la produzione produce non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un
soggetto per l’oggetto»,
ovvero, «nella produzione la persona si oggettiva, nella persona l’oggetto si
soggettivizza; nella distribuzione la società, sotto forma di disposizioni
generali e imperative, si assume la mediazione tra la produzione e il consumo;
nello scambio, questi vengono mediati dalla determinazione fortuita
dell’individuo». Una
condizione esistenziale che è vissuta da Combo come soggettività debole, o
avvertita, sulla propria pelle, quale “peccato
originale di ordine sociale”,
puntualizzerebbe acutamente Pedrini; certo un dato di fatto si presenta
inconfutabile, come osservano in termini sociologici anche Corrigan e Frith: i giovani di
classe operaia restano “una forza lavoro reale, e potenziale”, ed è tale elemento oggettivo e, non il
dato anagrafico, che va a definire le loro relazioni con il potere e la loro
condizione sociale.
I colpevoli e i
motivi dell’indigenza proletaria, delineati da questo bonehead bianco, storicamente risultano parzialmente veri: se, da
un lato, appare assodato che la spietata signora Thatcher calò l’accetta sul welfare state, agì minando l’unità dei
lavoratori e spedì gli inglesi a combattere una insensata guerra imperialista
nelle Isole Falkland, dall’altro, è evidente l’innescarsi di
quell’odioso e fallace meccanismo della caccia al capro espiatorio con derive e
comportamenti razzisti. Come ha dichiarato il regista, appartenente un tempo a
quel mondo un po’ drop out e un po’ borderline, se a un adolescente si
inculca che le colpe della sua sofferenza e della sua disperazione sono
certamente imputabili a qualcuno, con buona probabilità egli crederà
immediatamente a questa storia; la soglia discriminante è che ci si può credere
per un secondo, due settimane o per tutta la vita. Per l’intero film, Combo
continua a rimanere fedele, appunto, all’idea che la sua disperazione
individuale non solo dipenda da scelte politiche ottuse, ma che i migranti di
colore, dai giamaicani ai pakistani, costituiscano la causa principale dei mali
della nazione, e quindi, della sua miseria particolare e di quella del gruppo.
Bauman,
conoscitore della storia inglese, ricordando le analisi di Richard Titmuss,
affermava, già alla fine degli anni ’70, che la povertà si dovesse considerare «oggi, come allora, un fedele compagno
della ricchezza nazionale» e, aggiungeva quanto la disoccupazione ne fosse «una
delle cause»; in questo
senso, di fatto, nei vent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le
azioni messe in campo dallo stato sociale,
in Gran Bretagna, avevano soccorso, in realtà, coloro che meno ne
necessitavano. Certo il concetto di “povertà” risulta socialmente definito,
quindi relativo, o meglio, diviene determinato dal rapporto tra desiderio e
soddisfazione dei bisogni. In questo circolo, particolarmente vizioso nelle
società capitaliste, anche la determinazione dei bisogni, ovviamente, è
socialmente indotta, prodotta e riprodotta, e la sua definizione si riposiziona
rispetto all’“adeguato funzionamento
sociale”, o allo “scarto accettabile” tra
induzione desiderante e soddisfacimento.
Quando John
Osborne “ricordava con rabbia”,
sostanzialmente metteva in scena quell’insoddisfazione postbellica, di una
generazione cresciuta nel sogno laburista di una possibile società più giusta;
lo spietato protagonista di questo tagliente testo teatrale incarna la gioventù
inglese della lower class, quotidianamente in conflitto con l’upper
middle class, con il sistema inglese del welfare state, con la società industriale, con la Chiesa, con le
convenzioni sociali e con tutti i poteri forti. L’urlo è indubbiamente
proletario, ma vorrebbe essere, probabilmente, borghese. Con una vena rabbiosa,
sarcastica e moralistica, tipica della cultura britannica, Osborne, in una
domenica troppo tranquilla dedicata alla lettura dei giornali, fa osservare
beffardamente a Jimmy Porter: «Dovrei proprio mandare un piccolo contributo al
Vescovo. […]. È tutto sconvolto perché qualcuno ha osato insinuare che sostiene
i ricchi contro i poveri. Dice che nega le differenze e le distinzioni di
classe. Simili idee sono state con criminosa persistenza sostenute dalle…
classi lavoratrici».
Sociologicamente
si potrebbe osservare che è comune ai giovani proletari adottare «metodi
simbolici di resistenza basati sul concetto di stile»,
utili nell’affermazione di un’identità. Le culture di strada si distinguono,
affermano e riconoscono attraverso l’adozione di una precisa sfera gestuale,
simbolica, sostanzialmente un codice di convenzioni visive, estetiche e
comportamentali adatte alla sopravvivenza e all’uscita dall’invisibilità. I
subalterni cresciuti spesso tra l’asfalto, nelle file degli uffici
dell’impiego, abituati all’assenza dello Stato e all’esproprio dei diritti,
raramente praticano l’antagonismo politico o la coscientizzazione di classe. È, però, necessario ricordare che
Meadows illumina un piccolo spaccato di vita di strada, relativo ad una
minoranza proletaria, quella per certi versi politicizzata e simpatizzante
dell’estrema destra. La storia racconta, quella vera, che una buona parte dei
membri aderenti alla cultura skin degli anni Ottanta, amanti della musica ska, anche nella sua evoluzione
punk-rock proletaria “Oi!”, quando è ideologizzata, professa, al più, ideali
antirazzisti. Ideologia marcatamente di sinistra che riconosce e ritrova le
proprie radici culturali e musicali negli ambienti neri; nelle culture di
strada la rivolta e la distinzione, quindi, si incontrano innanzitutto nella
praticata dello stile, e per gli “original”
skin, in particolare, nell’eleganza e nella cura per l’abbigliamento,
elementi capaci di «sottolineare […] la non-subordinarietà alla società e al mondo adulto».
I kids del film appartengono alla cultura skinhead inglese, e, tra loro, qualcuno
ha deciso di farsi sedurre dall’ideologia nazionalista, xenofoba, propagandata
in quegli anni dalle aberranti tesi del National Front e dalla musica suonata
da Skrewdriver, Brutal Attack e Ovalteens. Di fatto, lo stile skinhead nasceva dai rude boys giamaicani di cui nel film,
Milky, ne è rappresentante; Combo, infatti, nel confronto con il “rude” nero, sviscera apertamente tutte
le contraddizioni insite in uno stile forzatamente “bianco” che svelava
irrimediabilmente le sue origini, portando la contraddizione sul piano
razziale, con una soluzione finale violenta. Il regista mostra l’assurdità di
una cultura imbarazzantemente legata al White
Power e che tradiva il famoso Spirit
of ’69 degli esordi, maturato dai bianchi inglesi e dagli indo-occidentali.
Basterebbe leggere le poesie di Garry Johnson, poeta mentore
degli skin, per comprendere quanto la
stampa inglese abbia contribuito, negli anni, a distorcere l’immagine della
cultura skinhead appiattendola e
facendola coincidere con quella brutale dei neonazisti. Certo la vita semplice
di uno skin, fatta di football, pubs,
musica, disoccupazione e ragazze, non avrebbe colpito l’opinione pubblica,
quanto il clamore di quelle vicende di razzismo, di intolleranza che formarono
nell’immaginario collettivo l’iconografia dello skin quale picchiatore xenofobo. Le storie che appartengono alla
cultura skinhead ci narrano
semplicemente: disoccupazione, odio per la polizia e il potere, vissuti e
biografie marginali, sofferenze, storie degli ultimi che mai saranno i primi,
ovvero, per dirla con Garry Johnson: «We're a working class thing an I'm a
working class bloke, without a job thanx to you, I'm a skin 'cos I like the
music, the clothes an' the look, an' the feeling of beeing a part of a
movement.[…] I'm just one of many
who ain't got no-one in authority, my own view on politics is there's them an'
us an' always has been, my only view on race is that I reckon I got more in
common with a working class black than I have with some rich middle class white
person who spends their life telling me what to do».
In Inghilterra,
negli anni ’80, gli skin di destra, i boneheads, costituivano certamente
uno zoccolo pericoloso e violento del proletariato, tuttavia minoritario,
rispetto al fenomeno nazi europeo; il regista, attraverso Combo, non intende
confutare l’oggettività dei fatti storici, ma semplicemente restituirci una
storia che è altresì, seguendo Marc Bloch, micro-storia: un’autobiografia di
sofferenza, di disperazione reale e vissuta, altrettanto degna di essere
raccontata come la macro-storia che la contiene. In questa narrazione trova un
tempo e uno spazio anche il riscatto dei subalterni che è proposto quale
salvazione, come Umanesimo sociale attraverso il volto del piccolo Shaun; la
sua liberazione ideologica avviene per mezzo di un duro percorso umano che,
dalla perdita del padre nella Guerra delle Falkland, passa per la
ghettizzazione nel quartiere, l’accoglienza nel gruppo, l’iniziazione
attraverso il restyling del look,
l’agire in prima persona la violenza selvaggia, per concludersi con l’abbandono
della bandiera di San Giorgio e la negazione, quindi, del nazionalismo.
Per questi
giovani proletari skinheads il
rifugio, la salvezza diventa il gruppo, il piccolo collettivo di natura
protettiva che si sostituisce alla famiglia, alla legge e alle istituzioni; una
tribalità gruppale, variamente dimostrata nel film, che si dipana con le sue
regole d’appartenenza ferree: dal rituale iniziatico del tatoo con la croce britannica, alla sopraffazione del diverso,
all’adozione della divisa metropolitana: «Boots Doc Martens, rossi, otto buchi. Lacci rossi. Jeans Levi's 501, risvolto di un
pollice, tagliato e cucito in modo che i Doc possano brillare di luce propria,
lucidati fino all'ossessione. Camicia Ben Sherman a scacchetti bianchi-blu, button down con ulteriore, maniacale
bottoncino sul retro del colletto, spacchi a V sulle mezze maniche. Bretelle
bianche, sottili. Harrington rosso fuoco, maniche con tutta probabilità tirate
su in modo da rivelare tatuaggi: una pantera nera, i martelli incrociati del
West Ham, due rondini, un cuore eccetera. Number two crop: la testa rasata, ma mai a zero, […] precisa e
affilata come una rasoiata».
Un’uniforme paramilitare, aggressiva, un po’ rozza, ma che è necessario
adottare per ottenere rispetto dai pari, per ridefinire la propria identità nella
strada, ma, soprattutto, essenziale per pestare la faccia al più debole nella
scala sociale; in questo caso, indossare la divisa significa ostentare
esteticamente ideali sciovinisti, sposare il nazionalismo razzista, tradendo
definitivamente e, per sempre, l’originario spirito skin, essenzialmente anti-ideologico. L’infedeltà, però, cosa grave
nei linguaggi parlati dalle sottoculture, avviene anche sul piano dello stile:
l’eleganza dei mod delle origini è,
di fatto, dimenticata ed irreversibilmente abbandonata.
Orwell, forse, sentenzierebbe
così: «Parte del
motivo della bruttezza degli adulti, agli occhi di un bambino, è costituito dal
fatto che il bambino di solito guarda in su, e poche facce appaiono al meglio
se viste dal basso in alto»; Shaun,
invece, ha scrutato esattamente, dal basso in alto, e dall’alto in basso, gli
adulti che lo circondano e lo proteggono accompagnati dalle loro frustrazioni
sociali, e , alla fine, ne coglie ciò che gli serve per liberarsene.
Una mattina del luglio del 1983 alle ore 7.44
la radio sveglia Shaun con questa invettiva: «Credono che sia allettante per i
giovani offrire loro un futuro completamente controllato dalle operazioni dello
Stato Socialista». È l’arrogante voce di Maggie Thatcher, bersaglio anche di
Combo in una sua arringa boriosa contro i mali della società inglese; invettiva
a cui il piccolo skin assiste,
arrivando a comprenderne veramente il senso solo sul piano sentimentale ed
emotivo, ovvero, quando l’attacco è sferzato contro l’inutile Guerra
colonialista delle Falkland dove il padre è morto.
Di fatto, la
Baronessa Thatcher di Kesteven, Primo
Ministro dal 1979 al 1990, e leader del Partito Conservatore, conosceva
perfettamente la società inglese e i suoi attori, anche se andava dichiarando,
sfacciatamente, che «la vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie». Il suo piano d’intervento e di “risanamento” iniziò
con la mannaia sociale, colpendo le classi più deboli, privatizzando le imprese
statali, negando l’intervento nei quartieri più poveri, e applicando tutte le
leggi più selvagge in materia di neoliberismo economico. Così, tra il 1981 e
1982, l’Inghilterra pagava il prezzo della sua ripresa economica e della sua
ricchezza in crescita; o meglio, guardata da un altro punto di vista, a espiare
gli esiti di quel capitalismo feroce furono coloro che dalla strada venivano e
per la strada vivevano e morivano. Il livore incontrollato di Combo è comprensibile:
la disoccupazione sotto il governo della “Lady di ferro” raggiunse il più alto
tasso dagli anni ’30, toccando punte del 13% per la comunità bianca, arrivando
al 25.4% per varie minoranze etniche e al 55% tra la comunità nera. Affermando
che «il denaro non può comprare la fiducia e l’armonia razziale», la Thatcher
dichiarava guerra aperta agli indigenti, aggravando i problemi di carattere
sociale, creando sacche di poveri, alimentando le file di giovani arrabbiati
senza futuro e fomentando gli odi razziali e classisti.
In tal senso, Meadows storicamente non fa sconti a
nessuno: l’inquadratura del muro di una Chiesa di Cristo, con la scritta “Maggie is twat”, racconta la Storia dal punto di vista di chi la Storia solitamente non la
scrive mai. I muri sono i fogli dei subalterni, quando vergati parlano il
linguaggio della strada, danno voce, senza censure, anche al
sotto-proletariato, divengono la restituzione di un malessere individuale e
collettivo, sono l’urlo autentico e sguaiato dei sofferenti soffocati dal
potere. Scrivere sul muro rappresenta il modo in cui i reietti della società, i
sempre dimenticati, esprimono il dissenso senza chiederne il permesso. Il
governo della “Lady di ferro” sapeva, esattamente, dove attaccare, e lo fece,
ovviamente e preferibilmente, con colpi bassi: decise di sferzare una delle
stoccate più dure sui minatori del Galles, non solo intraprendendo la
privatizzazione di tutte le miniere di carbone statali, ma distruggendo l’unità
dei lavoratori. Il culmine più violento del thatcherismo si mostrò in occasione
dello sciopero di Tower Colliery,
tra il 1984 il 1985; picchettaggi che passarono alla storia, non solo per la
durata e per la resistenza degli eroi gallesi e delle loro famiglie, ma anche
per la durezza con cui la Thatcher intervenne politicamente e repressivamente
per distruggere i sindacati e l’unità della working
class. Dal suo trono, la Baronessa, dal luminoso rossetto rosso e dai
capelli sempre perfetti, sognava forse che il minatore con il volto segnato
dagli stenti, invece di scioperare e ripetere «Non lasciare che i bastardi ti
affossino!”,
potesse assumere improvvisamente i tratti del crumiro; magari, possibilmente,
quelli di “un’animale a due gambe, con un’anima viscida, un cervello marcio,
una spina dorsale fatta di gelatina e colla».
Mentre senza pudore la Thatcher affermava: «Lasciate che mangino il carbone»,
dal canto loro, i lavoratori sapevano che «dove gli altri esseri hanno il cuore
il crumiro ha un tumore di principi marci»,
e quindi, lottarono contro il Governo neoliberista fino a che fu loro
possibile. Del resto, i lavoratori gallesi e le loro famiglie, che durante il
lunghissimo periodo dello sciopero patirono la fame, credevano fermamente nel
principio per cui “un uomo vero non sarà
mai un crumiro”. Persero la loro lotta e dovettero trasformarsi in imprenditori per comprare la
miniera, mentre il Primo Ministro gli raccontava che «Nessuno ricorderebbe il Buon
Samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni. Aveva anche soldi».

Questa era ed è l’Inghilterra.
«Se vuoi
un quadro del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano, per
sempre», direbbe Orwell; oggi l’Inghilterra è quella faccia schiacciata
sotto lo stivale che, per giunta, continua impietosamente e violentemente a
premere. Un paese che, dopo lo scempio sociale della Thatcher, negli anni
Novanta ha vissuto il “sogno” laburista di Tony Blair, il quale sosteneva che
la modernizzazione del Paese dovesse passare solamente attraverso la
privatizzazione dei servizi pubblici; scelta economica liberista che determinò
effetti disastrosi sul funzionamento dei servizi inglesi, tanto che lo Stato
dovette spesso riprenderne la gestione.
Il piccolo Shaun oggi avrebbe quarant’anni e
potrebbe appartenere alla working class inglese, o meglio, a quei «poveri meritevoli, quei milioni di persone che
lavorano anche più di quarantotto ore alla settimana per cercare di strappare i
loro figli al deserto sociale che li circonda».
Le menzogne raccontate dai neoliberisti New Labour,
imbastite con l’introduzione del minimun
wage, miravano a far credere al
proletariato che il problema della low-pay-economy sarebbe stato così
risolto. Le favole dell’èra Blair, targate “Cool Britannia”, hanno mostrato
tutta la loro falsità: nel 2003 esistevano in Inghilterra “più lavoratori poveri, che poveri disoccupati”.
Polly Tonynbee ha dimostrato che il salario minimo introdotto dai laburisti
avrebbe dovuto essere molto più alto se avesse voluto seriamente sopperire ai
bisogni dei “deserving poor” inglesi;
nella sua ricerca, la giornalista amaramente costatava che la Gran Bretagna
restava il paese con il più alto numero di poveri, con i minori investimenti
nei servizi e con un ritmo lavorativo estenuante rispetto agli altri stati
europei.
Tuttavia il massacro
sociale ed umano prodotto dal thatcherismo e dal periodo blairiano, sono parsi
insufficienti alle esigenze del capitalismo oramai finanziario, e, così, il
Ministro dell’economia inglese George Osborne
sfacciatamente dichiarava, circa un anno fa, che cinquecentomila dipendenti
pubblici sarebbero stati licenziati entro tre anni, le spese per la sanità
pubblica ridotte drasticamente e le tasse universitarie moltiplicate per tre.
La moltitudine cognitaria e la forza collettiva,
sopravvissute dopo la desertificazione sociale e in seguito ad anni di esproprio
del “comune”, hanno avuto la forza di insorgere contro i dogmi del liberismo e
della finanza: gli studenti inglesi si sono ribellati per difendere il diritto
allo studio, e dopo di loro, a pochi mesi di distanza, una collettività stanca
e insofferente, una generazione di sfruttati e di sottopagati ha deciso di
colpire gli emblemi del capitalismo. Giovani disperati, come scriveva Polhemus, in merito agli skin inglesi,
«senza speranze e che non possiedono nessuna di quelle cose che la nostra
società definisce, quasi per decreto, importanti (denaro, prestigio, successo,
fama) eppure detengono il monopolio di cui abbiamo più bisogno: la Realtà».
La storia si ripete: l’uccisione, da parte della
polizia, del nero Mark Duggan, che viveva con la famiglia in uno dei quartieri
più poveri di Londra, Tottenham, ha innescato la miccia della disperazione, diffusasi poi nelle
altre zone sofferenti dentro e fuori la city: Brixton, Peckham, Islington, Hackney, Lewisham, Oxford Circus e King’s Road, Birmingham,
Liverpool e Manchester.
Il capitalismo rivela il suo vero volto disumano e la
sua efferatezza, in modo particolare, quando le vittime hanno il coraggio di
insorgere e di ribellarsi ad un sistema che, da sempre, li mercifica e li
sfrutta in nome di una crescita che pare debba essere inarrestabile. Dopo anni
di liberismo selvaggio, l’Inghilterra ha messo a nudo tutta la sua fragilità
sociale e, oggi, ha raggiunto un tasso di disoccupazione pari al
7,9%, le richieste di sussidio sono arrivate a 1,56 milioni, e i disoccupati
sfiorano quota 2,49 milioni;
a fronte di questi dati, Osborne ha dichiarato beffardamente che certo essi
sono «deludenti ma non sorprendenti [..]. Con quello che sta avvenendo sui
mercati e nell'economia globale, non sono certo inattesi».
Durante le rivolte londinesi, con spudoratezza e falsità, questo giovanotto
aristocratico ebbe il coraggio di sentenziare che la povertà non fosse un
fattore scatenante, ma che i rioters meramente
rivelassero i problemi culturali delle gangs britanniche. Il cancelliere dello Schacchiere si
sbagliava: l’urlo disperato dei giovani e dei giovanissimi, rapinati del loro
futuro, si è espresso con espropri “proletari”, rizomatici, diffusi, i quali
vanno interpretati, innegabilmente, come risposte alla società capitalista,
principale causa della loro indigenza e miseria. Come scrive Berardi Bifo «il collasso d'Europa riporta il dramma della lotta
fra le classi nel punto in cui lo vide Marx: Londra era ed è in fiamme».
Sarebbe ottuso e troppo semplice sentenziare che
questi giovani “No future” abbiano
fatto solamente la spesa senza pagare; l’analisi deve essere più profonda: gli
oggetti del desiderio sottratti appartengono a quelle categorie che
ridefiniscono un’identità nella contemporaneità. Per avere diritto d’esistenza
in questa società e, tenere testa ai ritmi del capitale, i giovani si
autoproducono identitariamente e si riconoscono anche in relazione ai mezzi
tecnologici e ai simboli utilizzati dal sistema per schiacciarli. I negozi
attraversati appartengono alle catene sportive, informatiche ed elettroniche,
obiettivi e oggetti ben mirati: in poche parole, «riappropriazione di quegli
stessi feticci” che “la società dei consumi ha reso storicamente
indispensabili», promettendone l‘accessibilità
democratica a tutti, ricchi e poveri: non è stato così, in breve tempo la falsità
della promessa “ridistributiva” egualitaria ha svelato la sua mendacità.
L’accessibilità a questi prodotti non è per tutti, ovvero, come sempre la
storia insegna «tutti gli animali sono uguali, ma qualche animale è più uguale
degli altri» (Orwell).
I giovani delle periferie e degli slum dimenticati ed esclusi dal sistema britannico hanno praticato
l’appropriazione “indebita” delle merci, come quotidianamente esercitano la
pirateria informatica impossessandosi di musica, film, immagini, testi senza
pagarne i diritti; hanno agito semplicemente la democrazia per le strade
portando la pratica della lotta al sistema, fuori dalle loro case e
condividendola collettivamente attraverso pratiche di auto-riconoscimento
comportamentale. Si sono impadroniti di ciò che gli serviva e senza chiedere il
permesso al capitale. Si potrebbe osservare che ciò che manca, al momento, sia
la prospettiva politica, e la sponda coscientizzante in grado di incanalare ed
accogliere le istanze dei subalterni; un passo certo fondamentale affinché
questa rabbia sociale non sfumi e si riduca nell’immaginario ad un cieco
saccheggio, in pasto alle denigranti condanne dei media borghesi mainstream. Per dirla con Tony Negri,
l’avvenire moltitudinario consiste nel «giocare la tendenza materiale della
lotta di classe, quella che organizza nell’egemonia del lavoro vivo, nell’interregno, nel tempo che resta,
le condizioni per lo scontro a livello di Impero. È qui che il concetto di
moltitudine diviene la matrice fondamentale di nuove figure della lotta di
classe».
Il problema di natura politica, oggi, frutto di
trent’anni di neoliberismo economico, pone due questioni, imprescindibili per
comprendere ed affrontare le problematiche contemporanee dentro l’attuale
crisi; da un lato, la fisionomia del potere: il disfacimento dello
Stato-nazione, tipico dell’età moderna, e, l’interregno presente, come passaggio al futuro “Impero”;
dall’altro lato, la necessità di superare dentro i fenomeni di resistenza e di
conflitto il livello del “simbolico”. Senza organizzazione, come si è visto a
Londra, si è prodotto un agire “reale”, ma, tuttavia, di tipo schizofrenico e
disperato, represso immediatamente con la forza e con l’infamia della
delazione. Il superamento dei disastri del liberismo e dell’imperialismo, nel
prossimo futuro, potrà essere affrontato solamente con l’autocostituirsi ed
autodeterminarsi dei soggetti in
“soggetti politici”, tuttavia, definiti storicamente e sempre dalla
composizione di classe che ne circoscrive le forme della lotta.
In giorni in cui il governo britannico è preoccupato
per i suoi cittadini residenti nell’eurozona e lancia l’allarme alle ambasciate
all’estero per proteggere i conti bancari degli inglesi, viene da chiedersi con
Engels per quanto «tutta questa pazzesca baraonda riesca in generale a reggersi ancora».
Di fatto, l’onda lunga e trentennale del neoliberismo
sta dimostrando il fallimento e la crisi del sistema capitalista a livello
strutturale e globale; il crollo di una parte dell’Europa - dei così detti
“PIIGS” – con il loro indebitamento sovrano, è la riprova di un venire
meno dell’“autosufficienza dei meccanismi di mercato”;
un perverso cortocircuito economico in cui si vogliono salvate le banche e le
imprese private, sotto i dettami della BCE, e, al contempo, si impone ancora
una volta alle classi subalterne, attraverso le misure di austerity, di pagare un debito che non gli appartiene.
Dal canto proprio la Gran Bretagna ha represso con la
forza militare le agitazioni delle classi povere, pensando così di risolvere il
deserto economico-sociale e i problemi razziali ereditati da anni di politiche
di mercato spietate, gonfiatesi sotto lo slogan thatcheriano: «Non
si raccontano bugie deliberate, ma a volte bisogna essere evasivi».
Combo
attribuiva i mali dell’Inghilterra agli stranieri, arroccandosi in un insulso
nazionalismo e vedendo il proprio Paese saccheggiato e violentato dai migranti,
ma il problema, come la storia oggi dimostra, giaceva e giace in un sistema
economico che ha sostenuto per lungo tempo il mondo finanziario e le company, defraudando quotidianamente la working class. Dopo aver preannunciato la futura, probabile riforma
del welfare inglese che toccherà insegnanti,
operatori sanitari, assistenti sociali, ostetriche, addetti alle pulizie e
persone a basso reddito, il
Primo Ministro David Cameron si astiene dal firmare alcun trattato con
l’eurozona senza garanzie per i servizi finanziari e per il mercato unico che
non prevedano la tutela del Regno Unito.
L’euroscetticismo non salverà l’Inghilterra e le
sue annunciate ricette di austerity non saranno sufficienti a contenere un sistema che ha già mostrato le sue
metastasi; la rabbia sociale è dietro l’angolo e non bisognerebbe mai scordarsi
che se «i poveri rapinano con la pistola, i ricchi rapinano con una penna a
sfera!» (Orwell).