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this is england

“NON LASCIARE CHE I BASTARDI TI AFFOSSINO” [1]

 

attraverso This Is England (2006, Shane Meadows)

 

di GISELLA VISMARA



Il tuo aspetto riflette la tua estrazione.

L'una e l'altra cosa ti configurano

per quel che sei. Un bel problema.

Arrogantemente proletario.

Una parodia dell'operaio modello,

sentenziano i sociologi di Birmingham. [2]

 

 

Il detto “Old, merry England [3] , già a metà Ottocento, non significava più nulla, lo scriveva Engels nel 1845. Il necrologio marxista della Old England suonava come la fine di un’epoca e l’annuncio di una nuova èra che, dal canto proprio, non trovava oramai più alcuna corrispondenza con le narrazioni e le memorie appartenute ai nonni. Cento anni prima, dal duro ventre della rivoluzione industriale, nasceva la storia del proletariato inglese, che avrebbe determinato una profonda trasformazione politica, sociale, economica, urbanistica nel Paese, e alterato, rivolgendole, le vicende della lotta di classe. Di fatto «le condizioni del proletariato nella loro forma classica, nel loro pieno compimento, esistono […] soltanto nel Regno Unito, particolarmente nell’Inghilterra vera e propria» [4] .

Così nella metà del XIX secolo stava tramontando quella borghesia settecentesca, per lo più piccola, di cui William Hogarth, esattamente cento anni prima, ne fu brillante e sagace ritrattista. Questa classe sociale, nel passato la più potente, nonché zoccolo duro della società britannica, in quel tempo, andava oramai nutrendosi solamente delle macerie e delle briciole avanzate dal fallimento economico; gli “speculatori” e i “cavalieri d’industria”, aspiranti a una qualche nuova fortuna, secondo la definizione engeliana, erano destinati, per il novantanove per cento, alla decadenza; di fatto, pochi avrebbero ricostruito le loro ricchezze economiche, e altrettanto pochi avrebbero vestito i panni del capitalista moderno. Si inaugurava, così, il secolo della separazione più evidente, spietata, lacerante tra la classe dei ricchi e quella dei poveri, in cui, al contempo, il capitalismo in ascesa scopriva, senza pudori, il proprio volto disumano.

Gli episodi de La carriera di un libertino, narrati da Hogarth nel 1735, coglievano puntualmente la morale di questa piccola borghesia inglese, la quale trovava nel denaro, nel gioco d’azzardo, nell’avarizia, nella dissolutezza dei costumi, nella grettezza umana e nell’arrivismo, più biechi, i suoi precetti comportamentali. La scena conclusiva, di un moralismo veramente crudo, che espone, in primo piano, il corpo ancora atletico del libertino oramai in manicomio, il famoso ospedale londinese “Bedlam”, descrive grottescamente la fine tragica di questo lussurioso ereditiero. Alle sue spalle, come in una pièce teatrale, o meglio, come nelle corti d’Ancien Régime popolate dai buffoni, si muovono, con grazia compiaciuta, le incipriate donne della borghesia bene, accorse per assistere alla follia messa in scena, mentre nani, streghe, volti stravolti, gesti insensati e corpi deformi contribuiscono, ognuno a loro modo, alla celebrazione del castigo umano. Tale ideologia si scorge, di nuovo, potenziata nella sua asprezza, nella cinica serie hogarthiana Matrimonio alla moda (1745); come notava Nicos Hadjinicoluau [5] , in particolare, la scena del Contratto, nel suo contenuto, un “accoppiamento” coniugale combinato, incarna certamente gli ideali moraleggianti della borghesia, anche se, in realtà, questi dettami sociali lusingavano e allettavano non poco l’aristocrazia inglese; andava così formandosi una sorta di “borghesia modello”, a cui i nobili guardavano con interesse, soprattutto, laddove i piccolo borghesi impartivano la loro “ideologia moralistica”, in vista di una riforma dei costumi. In seguito, in tal senso, con le sue incisioni titolate Quattro stadi della crudeltà, Hogarth spalancava la finestra su una fetida e affollata città industriale, e da quella posizione, sarcasticamente, poteva di nuovo, e meglio, pungolare i vizi e le barbarie di un’Inghilterra che si apprestava a importanti ed irreversibili mutamenti; di fatto, di lì a poco, il popolo inglese ne avrebbe pagato un prezzo umanamente molto alto. La degna conclusione, simbolica, allusiva, sempre “pedagogica”, di questa dumb show, ovvero, di questa pantomima hogartiana, si ritrova ne La ricompensa della crudeltà: protagonista un cadavere sventrato e rinvenuto dopo un assassinio brutale. In scena la sua vivisezione per mano di un manipolo di arcigni e imparruccati professionisti accalcati attorno ad un tavolo anatomico, da cui pende l’intestino della vittima, pasto succulento per un cane che, da sotto, brama per nutrirsene. 

     

“This Is England!”, “This Is England!”, “This Is England!”, urla grondante d’ira Combo, uno dei personaggi del film di Shane Meadows.

Questa è l’Inghilterra!”, il paese di uno skinhead inglese, in un’estate qualsiasi dell’anno 1983; tuttavia, banalmente, la storia e il passato di una terra possiedono e mantengono costantemente un loro peso, gravando sugli avvenimenti successivi. Sarebbe ottuso, quindi, proporre uno sguardo coerente sul presente che ignorasse “il passato come germe, o embrione o crisalide del presente ‘maturo’ organismo sociale” [6] .

L’affermazione che indusse Engels a dichiarare: «Il proletariato può essere studiato in tutti i suoi rapporti e da tutti i lati soltanto in Inghilterra» [7] rivela non semplicemente lucidità d’analisi intorno alla propria contemporaneità, ma costituisce assunto storico ancora attuale, trovando numerose corrispondenze in un nostro presente più o meno prossimo. Una “classe operaia”, tra Settecento e Ottocento, in cerca ancora della propria identità collettiva, rappresentata, in questo periodo di transizione, da un gruppo generico di poveri, di disoccupati, di lavoratori e da un’umanità, variamente composta, che affidava ancora la propria sopravvivenza allo spirito “caritatevole” e “filantropico” dei padroni [8] . Il costituirsi in “classe” di working men, che si ridefinivano, così, in un gruppo politicamente e socialmente autodeterminato, aveva comportato l’originarsi di dispositivi difensivi di lotta; questo fu processo naturale, conseguente alla guerra sociale innescata dal capitalismo e dalle vite dei poveri messe a profitto.

Antecedentemente a tutti gli altri paesi, l’Inghilterra pagava, pertanto, altissimi costi sociali in termini umani, di cui oggi, per altro, se ne possono ancora osservare eredità e lasciti infausti. L’accusa che gli operai muovevano alla società ottocentesca, nel suo complesso, può essere definita con l’engeliana formula di “assassinio sociale”; una sola classe, la borghesia, poteva, infatti, decretare la sopravvivenza o la morte silenziosa ed inoffensiva del proletariato.

Questa era (ed è, in parte) l’Inghilterra in cui Meadows, centotrenta anni dopo, ambienta il suo dramma sociale, con i suoi protagonisti che incarnano l’eredità di un passato di classe e animano un presente altrettanto classista. In mezzo allo scorrere della storia britannica si aggiungano al conto piuttosto costoso in termini sociali: guerre, colonialismo, imperialismo, liberismo, privatizzazioni e globalizzazione.

 

Se il pretesto narrativo ruota intorno al piccolo protagonista Shaun, figlio e orfano anch’egli della working class, il senso del film diviene corale, collettivo: dietro la (auto)-biografia individuale giace la sofferenza universale degli ultimi, condivisa, mostrata, e spalmata in ogni ganglio del sociale e del relazionale.

Lo smantellamento del welfare state, per mezzo della lunga e violenta mano del thatcherismo, guardato al cinema dopo trent’anni, non solo colpisce l’immaginario per la sua crudeltà e per le sue laceranti conseguenze umane, ma indica e ripropone il concetto di presente come narrazione già annunciata. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra, i proletari che riproducono se stessi in termini di classe, pagando inesorabilmente e, sempre loro, in primis, sia gli effetti della macelleria sociale, che quelli della loro carne messa in produzione per mezzo del capitale. Ciò non significa adesione al determinismo storico, ma semplice conferma di alcuni pilastri marxisti, laddove la rivoluzione socialista non abbia trovato il suo compimento. Seguendo Marx, il superamento dell’alienazione e la nascita di un reale Umanesimo sono realizzabili solo là dove si abbandoni il punto di vista borghese del vecchio materialismo, e lo si sostituisca con il punto di vista del “materialismo nuovo” rappresentato dalla “società umana o [dal]l’umanità sociale” [9] .

 

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Meadows, attraverso gli occhi del dodicenne Shaun, che spesso ascolta con sincero sconcerto i discorsi folli degli adulti, offre uno spaccato culturale eccellente: un affresco di quella classe operaia, di quei poveri, disoccupati, di cui l’Inghilterra abbondava negli anni ’80 del Novecento. I ragazzi di strada, con cui si accompagna Shaun, nel linguaggio di un secolo prima, sarebbero stati definiti “popolaccio, plebaglia” [10] , con connotazione bestiale, animale; ovvero, le prescrizioni comportamentali elaborate per loro dai colti “amici dei poveri” avrebbero suonato circa così: «Si aiutino gli operai a liberarsi di abitudini che li distruggono fisicamente e moralmente […]. Scoraggino l’agitazione, il complotto e il ciarlatanismo politico. Diventino una razza sobria e amante dell’ordine» [11] .

Questa peculiarità moraleggiante, associata, a volte, al tipico humor anglosassone, si ritrova anche nel filone della letteratura inglese “industrial novels”; pagine che descrivono le radicali conseguenze generate dalla scomparsa della tradizionale borghesia, divenendo illuminanti presentazioni di una galleria di ritratti urbani, gretti e spietati, sempre in conflitto con la classe operaia. In Tempi difficili, Dickens, pur nella sua reazionaria avversione al concetto classista, e quindi ostile a quell’“agitazione politica” citata da Gaskell, restituisce un ideale alienante degno di nota: «Uno scalpiccio di zoccoli sul selciato, un rapido squillare di sirene ed eccoli!, gli elefanti in preda di una triste follia, pronti ad affrontare la pesante fatica quotidiana, ben lustrati e oliati in vista del monotono lavoro» [12] .

I kids arruolati da Meadows parlano costantemente il dialetto cockney, qualcuno, come Lol, lavora in fabbrica, qualcun altro è ripetente (Gadget) o semianalfabeta (Combo), si muovono sempre in gruppo, ciondolando tra tavole calde, case, feste e bighellonando per le strade di questa cittadina anonima di provincia. Parafrasando Dick Hebdige, questi ragazzi non appaiono mai né grati, né pentiti, né eroicamente ribelli, ma, piuttosto, incomprensibili [13] ; come ammetteva un sedicenne skin dell’East London: «Non so perché amo essere uno skin, ma lo sono. Se nessuno mi dà una buona possibilità di cambiamento, continuerò ad esserlo. Sono nato per essere uno skin» [14] . 

La maggior parte di loro costituiva la nota sacca rigonfia dell’unemployment inglese dell’era Thatcher, insomma, quel sottoproletariato o proletariato di cui ancora Dickens ne tracciava uno spietato profilo caratteriale, contribuendo, così, in un certo qual modo, alla formazione di un’iconografia identitaria, consolidatasi poi, nei decenni, intorno alla figura del proletario inglese. L’intensa, sarcastica, e tagliente rappresentazione della working class dickensiana, se, da un lato, può far sorridere amaramente, dall’altro, conferma un immaginario classista “trans-epocale” e “trans-culturale”; in merito, secondo lo scrittore: «neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi assieme, riusciranno mai a calcolare quale sia la capacità di agire nel bene o di operare nel male, di amore o di odio, di patriottismo o di scontento, la capacità di corrompere la virtù in vizio o di esaltare il vizio in virtù, che si annida nell’animo di ciascuno di questi schiavi mansueti, con i loro volti scomposti e i loro gesti scanditi» [15] .

Siamo in piena new wave anni ’80, e gli “schiavi mansueti”, rapati a zero, di Meadows, non trascorrono evidentemente le loro giornate piegati sul telaio, o a consumarsi sulla catena di montaggio fordista, ma appaiono ugualmente rapiti e attraversati, nel profondo, da una triste follia, da una rabbia intestina e da un certo malessere sociale. Squilibrio comportamentale, schizofrenia moderna, mixate a violenza vandalica, sono effetti generati, non tanto dal lavoro alienante della fabbrica, quanto, piuttosto, da assenza dello Stato, espropriazione del “comune” [16] , diseguaglianza, nazionalismo, xenofobia e percezione di un forte senso di ingiustizia.

 

Un’aggiornata versione del proletario dickensiano moderno, contraddistinto, nella sua immagine, da due ossessioni, “essere bianco ed essere britannico” [17] , la ritroviamo in “This Is England! And they don’t live here”; nel suo saggio Hebdige dipinge Harry the Duck, reietto modello skinhead, tormento di qualsiasi assistente sociale, quale prototipo dello skin: «goffo […] e non particolarmente brillante. Non […] loquace […] sa a malapena scrivere, e le [cui] opinioni non sono mai particolarmente elaborate (e ancor meno decenti)» [18] .

Un tempo i ben pensanti inglesi avrebbero attribuito a questa “feccia”, a questa “plebaglia” ancora massa informe, priva di coscienza autonoma e corpo politico, un’inferiorità di “natura”, ovviamente, alimentata in loro, dalla povertà e dall’indigenza. Si leggano le esplicative parole di Dorothy Marshall, in merito alle preoccupazioni, alla fine delle guerre napoleoniche, alimentate dalla Chiesa Evangelica inglese: «la sotterranea violenza delle classi inferiori sembrava minacciare la stabilità sociale» [19] , accompagnandosi ad un’immoralità inaccettabile e pericolosa dei costumi: ubriachezza, pigrizia e lassismo. In questa versione moralistica, molto britannica, la violenza si dà come versione comportamentale derivata, economicistica, quasi “lombrosiana”, dello status sociale, già incontrata nei pittoreschi e “scomposti” personaggi dickensiani, caratterizzati da imprevedibilità d’azione, e, pertanto, minaccia per il potere borghese e per il padronato, proprio per le loro incalcolabili mosse future viranti verso “vizio” o “virtù”, “amore” o “odio”, e, quindi, pericolosamente oscillanti tra pace sociale o rivoluzione.

Combo, icona in-sofferente e violenta, è figlio rabbioso dell’iniquità sociale e classista: un galeotto da poco uscito di prigione che scarica sulla crew la sua collera contro il potere destabilizzando le micro-relazioni di gruppo. La sua personale, individualistica denuncia diviene umanamente comprensibile: la disoccupazione come male generazionale dei giovani bianchi inglesi. In tal senso, con ragione, Riccardo Pedrini, studioso e protagonista della scena skinhead, scriveva: «esiste una routine insensata che viene imposta ai membri meno garantiti della società, del tutto indipendente dal colore della pelle. Esiste una sorta di peccato originale sociale. Esiste l’ignoranza, esiste la povertà. Di fronte a ciò ‘non c’è futuro’. […] La sopravvivenza è però quasi assicurata, e con essa una forma depotenziata di esistenza. L’invisibilità» [20] . Un’invisibilità sociale dei molti che, paradossalmente, viene accettata comunemente quale naturale e oggettiva nozione, intestina alle comunità autodefinitesi civili e democratiche, in cui i ricchi comandano e i poveri subiscono; società che, alla fine, ironicamente davvero, in tal senso, si presenta “senza classi” [21] .

 

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Il film narra avvenimenti sentitamente di “classe”, confermando lo svolgersi della Storia umana, quale sviluppo, conflitto, risoluzione dei rapporti di forza, la cui natura è sociale ed economica. Shadows confuta, così, il concetto di interclassismo, dimostrando quanto l’esistenza di una sorta di idea di “metaclasse” [22] , basata sul concetto di “giovane”, sia ingannevole, infondata ed ideologicamente insostenibile. Innegabile è che il racconto graviti intorno alle dinamiche giovanili, ai problemi generazionali, in cui gli adulti prendono più o meno parte, ma altrettanto indiscutibile è come l’occhio del regista voglia avallare l’attualità delle tesi engeliane.

La storia umana, guardata con la prospettiva degli “straccioni del mondo” [23] , si connota, irreversibilmente, come la storia della lotta di classe, un racconto moderno di sopraffazioni, di oppressi e di oppressori in conflitto, di subalterni che cercano di sopravvivere e di uscire dall’invisibilità. L’estrazione sociale ed economica determina sempre lo svolgersi e il dipanarsi di comportamenti, soluzioni, relazioni e l’esercizio di una determinata moralità. Il monito accorato di Engels ai lavoratori inglesi, di metà Ottocento, pare, per l'appunto, attuale: «le classi medie in realtà ad altro non mirano che ad arricchirsi col vostro lavoro, affinché possano venderne il prodotto, e farvi morire di fame, non appena non possano più trarne profitto da questa forma indiretta del commercio di carne umana» [24] .  

 

Combo denuncia, in un’accesa escalation verbale e corporale, l’esistenza di “tre milioni e mezzo di disoccupati” inglesi senza “un fottuto lavoro”, accusando gli “stranieri”, provenienti dalle ex-colonie britanniche, di sottrarre l’impiego ai bianchi e di farsi “fottutamente” sottopagare. “Fragili e sottopagati” è l’espressione con cui questo skin ridefinisce la comunità bianca, attribuendo alla condizione subalterna del proletario una debolezza in termini sociali e umani, derivategli dalla povertà economica, quindi, dal mancato potere d’acquisto, ergo capitalisticamente, povertà d’esistenza. Parafrasando George Orwell, dunque, i ragazzi della Gran Bretagna conoscono il loro destino: nascono poveri e muoiono poveri; dunque, affossati in tale prospettiva umana, il futuro appartiene solamente a chi se lo può permettere.

Se per un momento si accantona l’esecrabile deriva razzista di Combo, la sua analisi politica ignara, ovviamente, delle teorie affrontate da Marx in Grundrisse, sembra piuttosto richiamarne, paradossalmente, alcuni concetti; in realtà, la Storia continua a riconfermare che «la produzione produce non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto» [25] , ovvero, «nella produzione la persona si oggettiva, nella persona l’oggetto si soggettivizza; nella distribuzione la società, sotto forma di disposizioni generali e imperative, si assume la mediazione tra la produzione e il consumo; nello scambio, questi vengono mediati dalla determinazione fortuita dell’individuo» [26] . Una condizione esistenziale che è vissuta da Combo come soggettività debole, o avvertita, sulla propria pelle, quale “peccato originale di ordine sociale” [27] , puntualizzerebbe acutamente Pedrini; certo un dato di fatto si presenta inconfutabile, come osservano in termini sociologici anche Corrigan e Frith: i giovani di classe operaia restano “una forza lavoro reale, e potenziale” [28] , ed è tale elemento oggettivo e, non il dato anagrafico, che va a definire le loro relazioni con il potere e la loro condizione sociale.

I colpevoli e i motivi dell’indigenza proletaria, delineati da questo bonehead bianco, storicamente risultano parzialmente veri: se, da un lato, appare assodato che la spietata signora Thatcher calò l’accetta sul welfare state, agì minando l’unità dei lavoratori e spedì gli inglesi a combattere una insensata guerra imperialista nelle Isole Falkland, dall’altro, è evidente l’innescarsi di quell’odioso e fallace meccanismo della caccia al capro espiatorio con derive e comportamenti razzisti. Come ha dichiarato il regista, appartenente un tempo a quel mondo un po’ drop out e un po’ borderline, se a un adolescente si inculca che le colpe della sua sofferenza e della sua disperazione sono certamente imputabili a qualcuno, con buona probabilità egli crederà immediatamente a questa storia; la soglia discriminante è che ci si può credere per un secondo, due settimane o per tutta la vita. Per l’intero film, Combo continua a rimanere fedele, appunto, all’idea che la sua disperazione individuale non solo dipenda da scelte politiche ottuse, ma che i migranti di colore, dai giamaicani ai pakistani, costituiscano la causa principale dei mali della nazione, e quindi, della sua miseria particolare e di quella del gruppo.

Bauman, conoscitore della storia inglese, ricordando le analisi di Richard Titmuss, affermava, già alla fine degli anni ’70, che la povertà si dovesse considerare «oggi, come allora, un fedele compagno della ricchezza nazionale» e, aggiungeva quanto la disoccupazione ne fosse «una delle cause» [29] ; in questo senso, di fatto, nei vent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le azioni messe in campo dallo stato sociale, in Gran Bretagna, avevano soccorso, in realtà, coloro che meno ne necessitavano. Certo il concetto di “povertà” risulta socialmente definito, quindi relativo, o meglio, diviene determinato dal rapporto tra desiderio e soddisfazione dei bisogni. In questo circolo, particolarmente vizioso nelle società capitaliste, anche la determinazione dei bisogni, ovviamente, è socialmente indotta, prodotta e riprodotta, e la sua definizione si riposiziona rispetto all’“adeguato funzionamento sociale” [30] , o allo “scarto accettabile” tra induzione desiderante e soddisfacimento.

Quando John Osborne “ricordava con rabbia”, sostanzialmente metteva in scena quell’insoddisfazione postbellica, di una generazione cresciuta nel sogno laburista di una possibile società più giusta; lo spietato protagonista di questo tagliente testo teatrale incarna la gioventù inglese della lower class, quotidianamente in conflitto con l’upper middle class, con il sistema inglese del welfare state, con la società industriale, con la Chiesa, con le convenzioni sociali e con tutti i poteri forti. L’urlo è indubbiamente proletario, ma vorrebbe essere, probabilmente, borghese. Con una vena rabbiosa, sarcastica e moralistica, tipica della cultura britannica, Osborne, in una domenica troppo tranquilla dedicata alla lettura dei giornali, fa osservare beffardamente a Jimmy Porter: «Dovrei proprio mandare un piccolo contributo al Vescovo. […]. È tutto sconvolto perché qualcuno ha osato insinuare che sostiene i ricchi contro i poveri. Dice che nega le differenze e le distinzioni di classe. Simili idee sono state con criminosa persistenza sostenute dalle… classi lavoratrici» [31] .

Sociologicamente si potrebbe osservare che è comune ai giovani proletari adottare «metodi simbolici di resistenza basati sul concetto di stile» [32] , utili nell’affermazione di un’identità. Le culture di strada si distinguono, affermano e riconoscono attraverso l’adozione di una precisa sfera gestuale, simbolica, sostanzialmente un codice di convenzioni visive, estetiche e comportamentali adatte alla sopravvivenza e all’uscita dall’invisibilità. I subalterni cresciuti spesso tra l’asfalto, nelle file degli uffici dell’impiego, abituati all’assenza dello Stato e all’esproprio dei diritti, raramente praticano l’antagonismo politico o la coscientizzazione di classe. È, però, necessario ricordare che Meadows illumina un piccolo spaccato di vita di strada, relativo ad una minoranza proletaria, quella per certi versi politicizzata e simpatizzante dell’estrema destra. La storia racconta, quella vera, che una buona parte dei membri aderenti alla cultura skin degli anni Ottanta, amanti della musica ska, anche nella sua evoluzione punk-rock proletaria “Oi!”, quando è ideologizzata, professa, al più, ideali antirazzisti. Ideologia marcatamente di sinistra che riconosce e ritrova le proprie radici culturali e musicali negli ambienti neri; nelle culture di strada la rivolta e la distinzione, quindi, si incontrano innanzitutto nella praticata dello stile, e per gli “original” skin, in particolare, nell’eleganza e nella cura per l’abbigliamento, elementi capaci di «sottolineare  […] la non-subordinarietà alla società e al mondo adulto» [33] .

I kids del film appartengono alla cultura skinhead inglese, e, tra loro, qualcuno ha deciso di farsi sedurre dall’ideologia nazionalista, xenofoba, propagandata in quegli anni dalle aberranti tesi del National Front e dalla musica suonata da Skrewdriver, Brutal Attack e Ovalteens. Di fatto, lo stile skinhead nasceva dai rude boys giamaicani di cui nel film, Milky, ne è rappresentante; Combo, infatti, nel confronto con il “rude” nero, sviscera apertamente tutte le contraddizioni insite in uno stile forzatamente “bianco” che svelava irrimediabilmente le sue origini, portando la contraddizione sul piano razziale, con una soluzione finale violenta. Il regista mostra l’assurdità di una cultura imbarazzantemente legata al White Power e che tradiva il famoso Spirit of ’69 [34] degli esordi, maturato dai bianchi inglesi e dagli indo-occidentali. Basterebbe leggere le poesie di Garry Johnson, poeta mentore degli skin, per comprendere quanto la stampa inglese abbia contribuito, negli anni, a distorcere l’immagine della cultura skinhead appiattendola e facendola coincidere con quella brutale dei neonazisti. Certo la vita semplice di uno skin, fatta di football, pubs, musica, disoccupazione e ragazze, non avrebbe colpito l’opinione pubblica, quanto il clamore di quelle vicende di razzismo, di intolleranza che formarono nell’immaginario collettivo l’iconografia dello skin quale picchiatore xenofobo. Le storie che appartengono alla cultura skinhead ci narrano semplicemente: disoccupazione, odio per la polizia e il potere, vissuti e biografie marginali, sofferenze, storie degli ultimi che mai saranno i primi, ovvero, per dirla con Garry Johnson: «We're a working class thing an I'm a working class bloke, without a job thanx to you, I'm a skin 'cos I like the music, the clothes an' the look, an' the feeling of beeing a part of a movement.[…] I'm just one of many who ain't got no-one in authority, my own view on politics is there's them an' us an' always has been, my only view on race is that I reckon I got more in common with a working class black than I have with some rich middle class white person who spends their life telling me what to do» [35] .

In Inghilterra, negli anni ’80, gli skin di destra, i boneheads, costituivano certamente uno zoccolo pericoloso e violento del proletariato, tuttavia minoritario, rispetto al fenomeno nazi europeo; il regista, attraverso Combo, non intende confutare l’oggettività dei fatti storici, ma semplicemente restituirci una storia che è altresì, seguendo Marc Bloch, micro-storia: un’autobiografia di sofferenza, di disperazione reale e vissuta, altrettanto degna di essere raccontata come la macro-storia che la contiene. In questa narrazione trova un tempo e uno spazio anche il riscatto dei subalterni che è proposto quale salvazione, come Umanesimo sociale attraverso il volto del piccolo Shaun; la sua liberazione ideologica avviene per mezzo di un duro percorso umano che, dalla perdita del padre nella Guerra delle Falkland, passa per la ghettizzazione nel quartiere, l’accoglienza nel gruppo, l’iniziazione attraverso il restyling del look, l’agire in prima persona la violenza selvaggia, per concludersi con l’abbandono della bandiera di San Giorgio e la negazione, quindi, del nazionalismo.   

Per questi giovani proletari skinheads il rifugio, la salvezza diventa il gruppo, il piccolo collettivo di natura protettiva che si sostituisce alla famiglia, alla legge e alle istituzioni; una tribalità gruppale, variamente dimostrata nel film, che si dipana con le sue regole d’appartenenza ferree: dal rituale iniziatico del tatoo con la croce britannica, alla sopraffazione del diverso, all’adozione della divisa metropolitana: «Boots Doc Martens, rossi, otto buchi. Lacci rossi. Jeans Levi's 501, risvolto di un pollice, tagliato e cucito in modo che i Doc possano brillare di luce propria, lucidati fino all'ossessione. Camicia Ben Sherman a scacchetti bianchi-blu, button down con ulteriore, maniacale bottoncino sul retro del colletto, spacchi a V sulle mezze maniche. Bretelle bianche, sottili. Harrington rosso fuoco, maniche con tutta probabilità tirate su in modo da rivelare tatuaggi: una pantera nera, i martelli incrociati del West Ham, due rondini, un cuore eccetera. Number two crop: la testa rasata, ma mai a zero, […] precisa e affilata come una rasoiata» [36] . Un’uniforme paramilitare, aggressiva, un po’ rozza, ma che è necessario adottare per ottenere rispetto dai pari, per ridefinire la propria identità nella strada, ma, soprattutto, essenziale per pestare la faccia al più debole nella scala sociale; in questo caso, indossare la divisa significa ostentare esteticamente ideali sciovinisti, sposare il nazionalismo razzista, tradendo definitivamente e, per sempre, l’originario spirito skin, essenzialmente anti-ideologico. L’infedeltà, però, cosa grave nei linguaggi parlati dalle sottoculture, avviene anche sul piano dello stile: l’eleganza dei mod delle origini è, di fatto, dimenticata ed irreversibilmente abbandonata.

Orwell, forse, sentenzierebbe così: «Parte del motivo della bruttezza degli adulti, agli occhi di un bambino, è costituito dal fatto che il bambino di solito guarda in su, e poche facce appaiono al meglio se viste dal basso in alto»; Shaun, invece, ha scrutato esattamente, dal basso in alto, e dall’alto in basso, gli adulti che lo circondano e lo proteggono accompagnati dalle loro frustrazioni sociali, e , alla fine, ne coglie ciò che gli serve per liberarsene.

Una mattina del luglio del 1983 alle ore 7.44 la radio sveglia Shaun con questa invettiva: «Credono che sia allettante per i giovani offrire loro un futuro completamente controllato dalle operazioni dello Stato Socialista». È l’arrogante voce di Maggie Thatcher, bersaglio anche di Combo in una sua arringa boriosa contro i mali della società inglese; invettiva a cui il piccolo skin assiste, arrivando a comprenderne veramente il senso solo sul piano sentimentale ed emotivo, ovvero, quando l’attacco è sferzato contro l’inutile Guerra colonialista delle Falkland dove il padre è morto.

Di fatto, la Baronessa Thatcher di Kesteven, Primo Ministro dal 1979 al 1990, e leader del Partito Conservatore, conosceva perfettamente la società inglese e i suoi attori, anche se andava dichiarando, sfacciatamente, che «la vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie». Il suo piano d’intervento e di “risanamento” iniziò con la mannaia sociale, colpendo le classi più deboli, privatizzando le imprese statali, negando l’intervento nei quartieri più poveri, e applicando tutte le leggi più selvagge in materia di neoliberismo economico. Così, tra il 1981 e 1982, l’Inghilterra pagava il prezzo della sua ripresa economica e della sua ricchezza in crescita; o meglio, guardata da un altro punto di vista, a espiare gli esiti di quel capitalismo feroce furono coloro che dalla strada venivano e per la strada vivevano e morivano. Il livore incontrollato di Combo è comprensibile: la disoccupazione sotto il governo della “Lady di ferro” raggiunse il più alto tasso dagli anni ’30, toccando punte del 13% per la comunità bianca, arrivando al 25.4% per varie minoranze etniche e al 55% tra la comunità nera. Affermando che «il denaro non può comprare la fiducia e l’armonia razziale», la Thatcher dichiarava guerra aperta agli indigenti, aggravando i problemi di carattere sociale, creando sacche di poveri, alimentando le file di giovani arrabbiati senza futuro e fomentando gli odi razziali e classisti.

 

In tal senso, Meadows storicamente non fa sconti a nessuno: l’inquadratura del muro di una Chiesa di Cristo, con la scritta “Maggie is twat” [37] , racconta la Storia dal punto di vista di chi la Storia solitamente non la scrive mai. I muri sono i fogli dei subalterni, quando vergati parlano il linguaggio della strada, danno voce, senza censure, anche al sotto-proletariato, divengono la restituzione di un malessere individuale e collettivo, sono l’urlo autentico e sguaiato dei sofferenti soffocati dal potere. Scrivere sul muro rappresenta il modo in cui i reietti della società, i sempre dimenticati, esprimono il dissenso senza chiederne il permesso. Il governo della “Lady di ferro” sapeva, esattamente, dove attaccare, e lo fece, ovviamente e preferibilmente, con colpi bassi: decise di sferzare una delle stoccate più dure sui minatori del Galles, non solo intraprendendo la privatizzazione di tutte le miniere di carbone statali, ma distruggendo l’unità dei lavoratori. Il culmine più violento del thatcherismo si mostrò in occasione dello sciopero di Tower Colliery [38] , tra il 1984 il 1985; picchettaggi che passarono alla storia, non solo per la durata e per la resistenza degli eroi gallesi e delle loro famiglie, ma anche per la durezza con cui la Thatcher intervenne politicamente e repressivamente per distruggere i sindacati e l’unità della working class. Dal suo trono, la Baronessa, dal luminoso rossetto rosso e dai capelli sempre perfetti, sognava forse che il minatore con il volto segnato dagli stenti, invece di scioperare e ripetere «Non lasciare che i bastardi ti affossino!” [39] , potesse assumere improvvisamente i tratti del crumiro; magari, possibilmente, quelli di “un’animale a due gambe, con un’anima viscida, un cervello marcio, una spina dorsale fatta di gelatina e colla» [40] . Mentre senza pudore la Thatcher affermava: «Lasciate che mangino il carbone», dal canto loro, i lavoratori sapevano che «dove gli altri esseri hanno il cuore il crumiro ha un tumore di principi marci» [41] , e quindi, lottarono contro il Governo neoliberista fino a che fu loro possibile. Del resto, i lavoratori gallesi e le loro famiglie, che durante il lunghissimo periodo dello sciopero patirono la fame, credevano fermamente nel principio per cui “un uomo vero non sarà mai un crumiro” [42] . Persero la loro lotta e dovettero trasformarsi in imprenditori per comprare la miniera, mentre il Primo Ministro gli raccontava che «Nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni. Aveva anche soldi».

 

THIS IS ENGLAND

 

Questa era ed è l’Inghilterra.

«Se vuoi un quadro del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano, per sempre», direbbe Orwell; oggi l’Inghilterra è quella faccia schiacciata sotto lo stivale che, per giunta, continua impietosamente e violentemente a premere. Un paese che, dopo lo scempio sociale della Thatcher, negli anni Novanta ha vissuto il “sogno” laburista di Tony Blair, il quale sosteneva che la modernizzazione del Paese dovesse passare solamente attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici; scelta economica liberista che determinò effetti disastrosi sul funzionamento dei servizi inglesi, tanto che lo Stato dovette spesso riprenderne la gestione.

Il piccolo Shaun oggi avrebbe quarant’anni e potrebbe appartenere alla working class inglese, o meglio, a quei «poveri meritevoli, quei milioni di persone che lavorano anche più di quarantotto ore alla settimana per cercare di strappare i loro figli al deserto sociale che li circonda» [43] .

Le menzogne raccontate dai neoliberisti New Labour, imbastite con l’introduzione del minimun wage, miravano a far credere al proletariato che il problema della low-pay-economy sarebbe stato così risolto. Le favole dell’èra Blair, targate “Cool Britannia”, hanno mostrato tutta la loro falsità: nel 2003 esistevano in Inghilterra “più lavoratori poveri, che poveri disoccupati [44] . Polly Tonynbee ha dimostrato che il salario minimo introdotto dai laburisti avrebbe dovuto essere molto più alto se avesse voluto seriamente sopperire ai bisogni dei “deserving poor” inglesi; nella sua ricerca, la giornalista amaramente costatava che la Gran Bretagna restava il paese con il più alto numero di poveri, con i minori investimenti nei servizi e con un ritmo lavorativo estenuante rispetto agli altri stati europei.

Tuttavia il massacro sociale ed umano prodotto dal thatcherismo e dal periodo blairiano, sono parsi insufficienti alle esigenze del capitalismo oramai finanziario, e, così, il Ministro dell’economia inglese George Osborne sfacciatamente dichiarava, circa un anno fa, che cinquecentomila dipendenti pubblici sarebbero stati licenziati entro tre anni, le spese per la sanità pubblica ridotte drasticamente e le tasse universitarie moltiplicate per tre [45] .

La moltitudine cognitaria e la forza collettiva, sopravvissute dopo la desertificazione sociale e in seguito ad anni di esproprio del “comune”, hanno avuto la forza di insorgere contro i dogmi del liberismo e della finanza: gli studenti inglesi si sono ribellati per difendere il diritto allo studio, e dopo di loro, a pochi mesi di distanza, una collettività stanca e insofferente, una generazione di sfruttati e di sottopagati ha deciso di colpire gli emblemi del capitalismo. Giovani disperati, come scriveva Polhemus, in merito agli skin inglesi, «senza speranze e che non possiedono nessuna di quelle cose che la nostra società definisce, quasi per decreto, importanti (denaro, prestigio, successo, fama) eppure detengono il monopolio di cui abbiamo più bisogno: la Realtà» [46] .

La storia si ripete: l’uccisione, da parte della polizia, del nero Mark Duggan, che viveva con la famiglia in uno dei quartieri più poveri di Londra, Tottenham, ha innescato la miccia della disperazione, diffusasi poi nelle altre zone sofferenti dentro e fuori la city: Brixton, Peckham, Islington, Hackney, Lewisham, Oxford Circus e King’s Road, Birmingham, Liverpool e Manchester.

Il capitalismo rivela il suo vero volto disumano e la sua efferatezza, in modo particolare, quando le vittime hanno il coraggio di insorgere e di ribellarsi ad un sistema che, da sempre, li mercifica e li sfrutta in nome di una crescita che pare debba essere inarrestabile. Dopo anni di liberismo selvaggio, l’Inghilterra ha messo a nudo tutta la sua fragilità sociale e, oggi, ha raggiunto un tasso di disoccupazione pari al 7,9%, le richieste di sussidio sono arrivate a 1,56 milioni, e i disoccupati sfiorano quota 2,49 milioni [47] ; a fronte di questi dati, Osborne ha dichiarato beffardamente che certo essi sono «deludenti ma non sorprendenti [..]. Con quello che sta avvenendo sui mercati e nell'economia globale, non sono certo inattesi» [48] . Durante le rivolte londinesi, con spudoratezza e falsità, questo giovanotto aristocratico ebbe il coraggio di sentenziare che la povertà non fosse un fattore scatenante, ma che i rioters meramente rivelassero i problemi culturali delle gangs britanniche. Il cancelliere dello Schacchiere si sbagliava: l’urlo disperato dei giovani e dei giovanissimi, rapinati del loro futuro, si è espresso con espropri “proletari”, rizomatici, diffusi, i quali vanno interpretati, innegabilmente, come risposte alla società capitalista, principale causa della loro indigenza e miseria. Come scrive Berardi Bifo «il collasso d'Europa riporta il dramma della lotta fra le classi nel punto in cui lo vide Marx: Londra era ed è in fiamme» [49] .

Sarebbe ottuso e troppo semplice sentenziare che questi giovani “No future” abbiano fatto solamente la spesa senza pagare; l’analisi deve essere più profonda: gli oggetti del desiderio sottratti appartengono a quelle categorie che ridefiniscono un’identità nella contemporaneità. Per avere diritto d’esistenza in questa società e, tenere testa ai ritmi del capitale, i giovani si autoproducono identitariamente e si riconoscono anche in relazione ai mezzi tecnologici e ai simboli utilizzati dal sistema per schiacciarli. I negozi attraversati appartengono alle catene sportive, informatiche ed elettroniche, obiettivi e oggetti ben mirati: in poche parole, «riappropriazione di quegli stessi feticci” che “la società dei consumi ha reso storicamente indispensabili» [50] , promettendone l‘accessibilità democratica a tutti, ricchi e poveri: non è stato così, in breve tempo la falsità della promessa “ridistributiva” egualitaria ha svelato la sua mendacità. L’accessibilità a questi prodotti non è per tutti, ovvero, come sempre la storia insegna «tutti gli animali sono uguali, ma qualche animale è più uguale degli altri» (Orwell).

I giovani delle periferie e degli slum dimenticati ed esclusi dal sistema britannico hanno praticato l’appropriazione “indebita” delle merci, come quotidianamente esercitano la pirateria informatica impossessandosi di musica, film, immagini, testi senza pagarne i diritti; hanno agito semplicemente la democrazia per le strade portando la pratica della lotta al sistema, fuori dalle loro case e condividendola collettivamente attraverso pratiche di auto-riconoscimento comportamentale. Si sono impadroniti di ciò che gli serviva e senza chiedere il permesso al capitale. Si potrebbe osservare che ciò che manca, al momento, sia la prospettiva politica, e la sponda coscientizzante in grado di incanalare ed accogliere le istanze dei subalterni; un passo certo fondamentale affinché questa rabbia sociale non sfumi e si riduca nell’immaginario ad un cieco saccheggio, in pasto alle denigranti condanne dei media borghesi mainstream. Per dirla con Tony Negri, l’avvenire moltitudinario consiste nel «giocare la tendenza materiale della lotta di classe, quella che organizza nell’egemonia del lavoro vivo, nell’interregno, nel tempo che resta, le condizioni per lo scontro a livello di Impero. È qui che il concetto di moltitudine diviene la matrice fondamentale di nuove figure della lotta di classe» [51] .

Il problema di natura politica, oggi, frutto di trent’anni di neoliberismo economico, pone due questioni, imprescindibili per comprendere ed affrontare le problematiche contemporanee dentro l’attuale crisi; da un lato, la fisionomia del potere: il disfacimento dello Stato-nazione, tipico dell’età moderna, e, l’interregno presente, come passaggio al futuro “Impero” [52] ; dall’altro lato, la necessità di superare dentro i fenomeni di resistenza e di conflitto il livello del “simbolico”. Senza organizzazione, come si è visto a Londra, si è prodotto un agire “reale”, ma, tuttavia, di tipo schizofrenico e disperato, represso immediatamente con la forza e con l’infamia della delazione. Il superamento dei disastri del liberismo e dell’imperialismo, nel prossimo futuro, potrà essere affrontato solamente con l’autocostituirsi ed autodeterminarsi dei soggetti in “soggetti politici”, tuttavia, definiti storicamente e sempre dalla composizione di classe che ne circoscrive le forme della lotta.

In giorni in cui il governo britannico è preoccupato per i suoi cittadini residenti nell’eurozona e lancia l’allarme alle ambasciate all’estero per proteggere i conti bancari degli inglesi, viene da chiedersi con Engels per quanto «tutta questa pazzesca baraonda riesca in generale a reggersi ancora» [53] .

Di fatto, l’onda lunga e trentennale del neoliberismo sta dimostrando il fallimento e la crisi del sistema capitalista a livello strutturale e globale; il crollo di una parte dell’Europa - dei così detti “PIIGS” – con il loro indebitamento sovrano, è la riprova di un venire meno dell’“autosufficienza dei meccanismi di mercato” [54] ; un perverso cortocircuito economico in cui si vogliono salvate le banche e le imprese private, sotto i dettami della BCE, e, al contempo, si impone ancora una volta alle classi subalterne, attraverso le misure di austerity, di pagare un debito che non gli appartiene.

Dal canto proprio la Gran Bretagna ha represso con la forza militare le agitazioni delle classi povere, pensando così di risolvere il deserto economico-sociale e i problemi razziali ereditati da anni di politiche di mercato spietate, gonfiatesi sotto lo slogan thatcheriano: «Non si raccontano bugie deliberate, ma a volte bisogna essere evasivi».

Combo attribuiva i mali dell’Inghilterra agli stranieri, arroccandosi in un insulso nazionalismo e vedendo il proprio Paese saccheggiato e violentato dai migranti, ma il problema, come la storia oggi dimostra, giaceva e giace in un sistema economico che ha sostenuto per lungo tempo il mondo finanziario e le company, defraudando quotidianamente la working class. Dopo aver preannunciato la futura, probabile riforma del welfare inglese che toccherà insegnanti, operatori sanitari, assistenti sociali, ostetriche, addetti alle pulizie e persone a basso reddito, il Primo Ministro David Cameron si astiene dal firmare alcun trattato con l’eurozona senza garanzie per i servizi finanziari e per il mercato unico che non prevedano la tutela del Regno Unito.

L’euroscetticismo non salverà l’Inghilterra e le sue annunciate ricette di austerity non saranno sufficienti a contenere un sistema che ha già mostrato le sue metastasi; la rabbia sociale è dietro l’angolo e non bisognerebbe mai scordarsi che se «i poveri rapinano con la pistola, i ricchi rapinano con una penna a sfera!» (Orwell).

 

 

 

 

 



[1] «Don’t let the bastards ground you down», era una delle frasi più frequenti che la giornalista Orsola Casagrande si sentiva ripetere durante i cinque giorni passati con i minatori del Galles nel 2003; Cfr. O. Casagrande, Minatori. La storia di Tower Colliery e le lotte dei minatori britannici contro la chiusura dei pozzi, Odradek edizioni, Roma 2004, p. 18.

[2] Wu Ming 1, Wu Ming 5, Oi! The Cockney Kids Are Innocent! - Lo street punk britannico dal 1978 al 1982. L'ultima volta in cui il rock'n'roll fu effettivamente sovversivo, in “Il Mucchio Selvaggio”, trimestrale di approfondimento musicale n.7, autunno 2002.

[3] Vecchia, gaia Inghilterra”.

[4] F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 196.

[5] Cfr. N. Hadjinicoluau, Storia dell’arte e lotta delle classi, Editori Riuniti, Roma, 1975.

[6] Z. Bauman, Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto, (1982), Einaudi, Torino 1987,

p. 101.

[7] F. Engels, op. cit., p. 199.

[8] Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 100.

[9] K. Marx, Tesi su Feuerbach, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, op. cit., p. 190.

[10] Z. Bauman, op. cit., p. 104.

[11] P. Gaskell, Artisans and Machinery (1836), Frank Cass, London 1968, pp. 289-290.

[12] C. Dickens, Hard Times for These Times (1854), trad. it., Tempi difficili, Garzanti, Milano, p. 94.

[13] Cfr. D. Hebdige, “This Is England! And they don’t live here”, in N. Knight, Skinhead, Omnibus Press, London, 1982, p.34.

[14] «I DON'T KNow why I LiKE BEINg a SKIN But I do. But I don't SEE WHy people grope us together as holigans 'cos we ain't alright you get troble makers in every faktion But They dont publish it if a niggeR does a old Biddy do they give us as a faiR chance will someone as for stop being a SKIN I dont think I will. Harry the Duck Born TO BE A SKIN». Testimonianza storica rilasciata da uno skin sedicenne incontrato da Dick Hebdige per le strade di East London un caldo pomeriggio del Luglio 1981”, Acasuallife,“This Is England! And they don’t live here”, in “Casual life”, http://acasuallife.splinder.com/post, 29 luglio 2005.

[15] C. Dickens, op. cit., p.72.

[16] Cfr. A. Negri, M. Hardt, Comune. Oltre il privato e oltre il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

[17] N. Mariani, Skinhead. Storia e culture dagli Original ai Red ai Naziskin, Datanews, Roma, 2011, p. 34.

[18] D. Hebdige, “This Is England! And they don’t live here”, op. cit., pp.27-28.

[19] D. Marshall, Industrial England 1776-1851, Routledge & Kegan Paul, London 1973, p. 120.

[20] R. Pedrini, Skinhead. Lo stile della strada, Castelvecchi, Roma 1996, p. 46.

[21] Ivi, p. 47.

[22] Ivi, p. 49.

[23] Cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2002.

[24] F. Engels, op. cit., p. 194.

[25] K. Marx, Grundrisse, vol. I, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 16.; Cfr. A. Negri, M. Hardt, Tracce marxiane, in A. Negri, Guide. Cinque lezioni su impero, Cortina Raffaello ed., Milano 2003.

[26] K. Marx, Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, (a cura di) L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 719.

[27] R. Pedrini, op. cit., p. 47.

[28] P. Corrigan, S. Frith, Resistance through Rituals, in R. Pedrini, op. cit., p.50.

[29] Z. Bauman, op. cit., p. 244.

[30] D. Jackson, Poverty, Macmillan, London 1973, p. 13.

[31] J. Osborne, Look Back in Anger (1956), trad it. Ricorda con rabbia, Einaudi, Torino 1959, p. 24.

[32] R. Pedrini, op, cit., p.50.

[33] Ibidem, p.161.

[34] Spirit of ’69. A Skinhead Bible è il titolo del libro di George Marshall, ed. Dunoon, S.T. Publishing, 1991.

[35] «Siamo una classe lavoratrice e io sono una parte della classe lavoratrice, senza lavoro grazie a voi, sono uno skin perché mi piace la musica, mi piacciono i vestiti e il look e il fatto che mi senta parte di un movimento. [...] Sono solo uno dei tanti che non hanno nessuno come autorità, il mio punto di vista sulla politica è che ci sono loro e ci siamo noi e da sempre è così, il mio punto di vista sulla razza è che riconosco di avere molto di più in comune con un proletario nero piuttosto che con un ricco bianco che trascorre la sua vita dicendomi cosa devo fare», G. Johnson, A Skinhead Voice, in http://oisite.tripod.com.

[36] Wu Ming 1, Wu Ming 5, Oi! The Cockney Kids Are Innocent!, op. cit.

[37] «Maggie è cretina».

[38] O. Casagrande, op. cit.

[39] Cfr. nota 1.

[40] J. London, Definizione di un crumiro, in O. Casagrande, op. cit., p. 55.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem.

[43] P. Tonynbee, Hard work: Life in Low-pay Britain, Bloomsbury Publishing, London, 2003, p. 107.

[44] O. Casagrande, op. cit. p. 108.

[45] Cfr. Franco Berardi Bifo, London calling, in http://facebook.com/franberardi, 10 agosto 2011.

[46] T. Polhemus, Street style, in R. Pedrini, op. cit., p. 48.

[48] Ibidem.

[49] Franco Berardi Bifo, op. cit., p. 2.

[50] M. D’Ambra, Quello che dice il riot, inErre. Resistenze, Ricerche, Rivoluzioni”, n. 45, settembre-ottobre 2011, Roma, p.42.

[51] T. Negri, Marx, Impero - Imperialism, in “Uni.Nomade 2.0”, 1 dicembre, 2011. Trascrizione dell’intervento di Negri al Congresso Marx Internazionale IV, Parigi, settembre 2004.

[52] Cfr. T. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano, 2002.

[53] F. Engels, op. cit., p. 223.

[54] M. Bertorello, D. Corradi, Crisi del debito o di sistema?, in “Erre. Resistenze, Ricerche, Rivoluzioni”,n. 45, op. cit., p. 25.

 

 
 

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