A
te si arriva solo attraverso te. / Ti aspetto. / Io sì che so dove mi trovo, / la
mia città, la via, il nome / con cui tutti mi chiamano. / Però non so dove sono
stato con te. / Là mi hai portato tu...
La sera prima di
incontrarla cercavo qualcosa di interessante da scrivere sul concetto di ek- stasis di Ejzenštein, inteso
come salto continuo da un registro espressivo all’altro, da una condizione
sensoriale all’altra, che definisce un’esperienza emozionale attiva. Ma non
sentivo il pathos necessario, avevo
da poco concluso un articolo filosofico convenzionale, e passare a parlare di
cinema con lo stesso tono non mi entusiasmava. Insomma la riflessione è
importante, ma quando si guarda un film o una qualsiasi opera bisogna sentire,
per poterne scrivere, sempre un po’ dello stupore dei ragazzini che guardavano,
nei lunapark o nelle fiere, nel kinetoscopio di Edison (macchina da visione, dotata di un oculare, che, funzionando
attraverso l’inserimento di monetine, consentiva ad uno spettatore per volta,
girando una manovella, di vedere l’alternanza di immagini impresse su
pellicola). Non sentivo l’acquolina in bocca per lo zucchero filato e
frugandomi nelle tasche mi accorsi che erano bucate, non avevo più nichelini da
spendere. L’urgenza che muoveva dentro, allora, era trovare qualcosa che mi
ri-guardasse.
Come
avrei imparato la strada / se non guardavo nient'altro che te / se la strada era
dove tu andavi, / e la fine fu quando ti sei
fermata? / Che altro poteva esserci / più di te che ti offrivi, guardandomi? / Però adesso che esilio, / che mancanza, / e lo
stare dove si sta...
Il giorno seguente sono
su Facebook; un sito, che è tra i miei contatti, condivide un link di un
articolo che ha pubblicato. Clicco indolente, do una scorsa distratta
all’articolo, poi frugo nel sito, fluttuando nella logica (stanca)
dell’ipertesto …. Ed eccola! Ragazza, Parigi 1970, una foto di Ferdinando
Scianna. Non c’è tempo per una riflessione sociologica, non prevalgono meccanismi di difesa culturale e storica, non mi
domando se la ragazza ha partecipato al maggio francese o se la moda femminile
è cambiata. Non c’è tempo per inseguire una semiosi fotografica, non sono
nemmeno un esperto di fotografia. Non c’è tempo, non vuol dire che vada di
fretta, semplicemente incomincio a vivere un tempo altro, non un real time,
ma un tempo sospeso, il tempo dell’incontro, dell’occasione. Non mi domando se
la ragazza attende il fidanzato o un’amica, non fantastico di incontrarla, di
invitarla a prendere un caffè. Sono semplicemente sedotto da lei, mi separa dal
resto, ma allo stesso tempo mi trattiene. Mi sento inciso nel suo (mio) occhio.
È contornato da un alone scuro, dove i confini sono rimarcati dal sopracciglio
sinistro e da una ciocca di capelli. L’ombra scura che avvolge l’occhio traccia
una regione spettrale, malinconica, mi suggerisce Pierrot, mimo triste
innamorato della luna. Lo sguardo della ragazza non è diretto verso
l’obiettivo, è altrove, un altrove indefinito, istante desiderante in cui
guarda, si perde, e noi non possiamo vederla se non dietro ad un velo. Nel suo
mistero malinconico la percepisco anche determinata, spietata nel suo candore,
come se la crepa nel muro, che lo spettatore si trova di fronte, fosse un
tentativo di confine, di contenimento visivo, che il suo sguardo ha
dis-tracciato. La ragazza sta arabescando pensieri, sogni, segreti
impenetrabili, ed io non sono così stupido da voler svelare il mistero, solo
voglio sentirlo più forte. Ho il fiato mozzato. Disarticolando il viso, inizio
a muovermi insicuro tra l’ombra che contorna l’occhio, la sclera e quel che è
possibile intercettare dell’iride e della pupilla, come se tutti questi
elementi si facessero cenno reciprocamente, in un gioco segreto e sofisticato di
rimandi. Sento che è rischioso quello che faccio, quell’occhio e quello sguardo
potrebbero assorbirmi completamente, mentre li attraverso e lo riattraverso.
Nella traversata scivolo sul profilo francese, affronto tutto il nero più nero
della giacca scura fino ad arrivare alla mano in tasca e già mi risuonano delle
parole Gilles Deleuze e Felix Guattari. Necessito di una pausa di riflessione.
Devo andare a cercare quelle parole, sento che ho un affare in sospeso sia con
queste che con la foto, che lascio per un po’ sapendo che vi farò ritorno
diverso. Le frasi che cercavo fanno riferimento a differenti forme di divenire,
di disarticolazioni identitarie. Queste: «Varcheranno il muro e usciranno dai
buchi neri e porteranno i tratti stessi di viseità a sottrarsi
all’organizzazione del viso, a non lasciarsi sussumere dal viso, lentiggini che
filano all’orizzonte, capelli mossi dal vento, occhi che traverseremo invece di
guardarci in essi o di guardarli nel cupo faccia a faccia delle soggettività
signficanti» (Mille piani, Castelvecchi 2006, p. 265).
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Eppure il divenire
ripensando alla foto, non può darsi senza una sospensione, uno scarto. Il
divenire non è una mera accelerazione, eccitazione corriva in un susseguirsi di
immagini, ma un’amplificazione di tempo. Inciampo, allora, nelle parole di
Raymond Bellour, il quale sostiene che quando le foto diventano un inserto
cinematografico avviene una sorta di micro-evento: “La loro fissità relativa
mitiga ‘l’isteria’ del film. Questo è il segreto della loro seduzione (per chi
vi è sensibile). Si pensa con accresciuta intensità a ciò che il film evoca nel
momento stesso in cui ci si incorpora nel suo slittamento. In questo scarto
leggero, si può anche pensare al cinema” (Fra le Immagini, Mondadori 2007, p. 77). Il divenire di Deleuze e
Guattari ha convocato la fissità di Bellour (Ejzenštein intanto mi risuona
meglio, meno astratto). La fissità affascinante della fotografia per Bellour
crea un’interruzione, fa dialogare due registri estetici, ponendo lo spettatore
in una condizione di amplificazione percettiva e di rielaborazione di ciò che
vede. Quando la foto deve “fare da sola” però oggi ha un compito più arduo:
emergere da un vortice di isteria di iper-simulazione che ci espone ad un
flusso di immagini indefesso (dalle immagini informatizzate, in digitale, in
3D). Rifletto ancora… La ragazza di Parigi mi ha rapito, sedotto, mi ha messo
in condizione di creare un’interruzione interna al dispositivo della comunità
virtuale, dove si condivide di tutto: canzoni immagini, articoli, pensieri. La
comunità virtuale non è che l’eccesso della condivisione e dunque è ridicola,
non è nemmeno ossessiva, semplicemente prevedibile, può generare una caduta
distratta in una sorta di autismo
critico-sensoriale. Eppure non possiamo prescindere da certe procedure
codificanti come quelle dei social network; l’ardire allora sarà quello di
pensarle come un’occasione, non di evasione regolata, ma di trasformazione. Il
problema forse è che ci troviamo spesso imbrigliati in un doppio legame, da un
lato con un’ipertrofia di immagini abbacinanti, dall’altra con lo svuotamento
delle immagini che i media ci offrono nel loro eccesso. I media, in fondo, non
mediano più nulla, ma costruiscono una realtà, nella sua rutilante diversità,
programmata, univoca, depressa nel suo essere sensazionale. Se linee di fuga si
offrono, allora, ho l’impressione che si traccino senza scivolare in
preconcetti moralismi o nell’autoreferenzialità di nuove pratiche artistiche.
Non si può scardinare tutto con un’immagine, con un’opera, una pratica, con una
teoria. Forse l’unica cosa da fare è farsi ricettivi con tutti i mezzi a nostra
disposizione, senza timore, fino
all’ultimo respiro, alle incrinature, alle porosità che questa realtà
avviluppante non riesce a dominare, provando così ad aggirarla, attraversarla,
riconnetterla, ripresentarla.
Aspetto,
passano i treni, / i destini, gli sguardi. / Mi porterebbero dove non sono
stato mai./Ma io non cerco nuovi cieli. / Io voglio stare dove sono stato. / Con te, ritornarci. / Che intensa novità, / ritornare
un'altra volta, / ripetere mai uguale / quello stupore infinito…
Ritorno alla foto.
Dubbioso. Ho il timore che le parole di Mille
piani siano state un rifugio, un’anticipazione veicolata per qualcosa che
sentivo di ancora non vissuto fino in fondo, forse stavo solo proiettando
l’istanza incerta dello spettatore spectrum pensoso, mi stavo solo specchiando mortificato nel me stesso pietrificato? Ma dov’è allora la ferita, quella ferita che mi
rimorde?
La
ragazza è totalmente in nero, la giacca, il cappuccio, la sciarpa… Il bianco è
solo nella pelle del viso, nell’interno del cappuccio che riusciamo vedere e
infine in un confine, sottilissimo, un territorio liminare tra la manica della
giacca e la tasca: lì possiamo intravvedere una strisciolina di pelle del
polso, mentre il pugno affonda nella tasca. Quel micro territorio epidermico mi
restituisce una corporeità della ragazza: non è più solo volto-enigma o donna
in nero, ma un corpo amante da sfiorare senza possesso, perché la sua distanza
rimane inesauribile e colma di grazia. In quell’istante mi sento librare, ho
abbandonato quel residuo di spettralità spettatoriale, quel raddoppiamento di
un me fantoccio che urtava ai bordi della prima attrazione, quella dell’occhio
di lei. In quella terra di nessuno epidermica, leggera, ho trovato il punctum (scrive Roland Barthes: «Il punctum in una fotografia è quella fatalità che in essa mi punge, ma anche mi
ferisce mi ghermisce», La camera chiara,
Einaudi 2003, p. 28). Attraverso quella impudica porzione di spazio che affiora
dai vestiti rivedo gli occhi di lei, differenti, risento l’attesa, posso
dilatare lo sguardo in qualsiasi traiettoria, dalle spalle, al muro, alle
labbra. Eros polimorfo ha scoccato le sue frecce. E non è finita… intreccio immagini
della mia vita passata nell’istante presente, prefiguro un futuro possibile o
forse già in atto… la bocca della ragazza mi sussurra «ora… traboccato… avvenire».
Altre domande si
presenteranno successivamente, e con esse altri tentativi, seppur incerti, di
risposta. Il supporto dello schermo del mio pc rende giustizia alla foto? Non
posso esserne totalmente sicuro, ma che importa, ho colto un’occasione, l’ho
colta al volo, sto già immaginando e pensando. È possibile intercettare uno
sguardo in una metropolitana oggi con la stessa facilità, quando i monitor ti
sputano negli occhi e nelle orecchie continui messaggi pubblicitari? La
risposta è un esile e allo stesso tempo risoluto sì. È sempre possibile che
un’immagine ti conduca altrove, che ti scelga fra le altre, ma bisogna essere
vigili nell’attesa dell’imprevedibile. Si può non rimanere succubi di un gioco
fantastico e fantasmatico nel flusso continuo di immagini in cui siamo
compresi? Quando un’immagine ci rapisce è possibile non cadere in un’illusoria
scorciatoia piacevole e banale che non fa altro che riconfermarci all’interno
di un mondo iper-simulacrale? Credo di sì. Si può, a patto di non volersi
ritrovare identici, ma trasformati e arricchiti, andando verso gli altri che da sempre ci abitano. Ma tutto
ciò può essere vissuto solo tenendo a mente di non essere troppo seriosi, solo
se hai lo zucchero filato in una mano e un nichelino nell’altra.
La foto della ragazza mi
ha posto all’incrocio del venire alla presenza di ciò che è dato e una
riconfigurazione incoativa, qualcosa di non conclusivo ma sempre aperto,
qualcosa che ritorna differente e non mi rende spettatore passivo, come
all’origine di una molteplicità narrativa che non si chiude in una prensione
unitaria. Sta in ciò il balenare di potenza di questa foto-esperienza, di
questo incontro al metrò, tutto l’opposto di un test programmato. Ora intendo
meglio il monito mai dimenticato alla fine del romanzo Nadja di Breton: «La bellezza o sarà convulsa o non sarà». Nadja mi
ricorda la ragazza di Parigi, entrambe figure di donna attraverso le quali
registriamo la realtà e che allo stesso tempo non smettono di insinuare pieghe
nel visibile, di lacerarlo, di sconvolgerlo. Non sono figure archetipiche, leggi delle serie dei nostri
vissuti, ma una sfida alla piattezza del vissuto unidimensionale. Non sono
archiviate nel nostro passato, ma da sempre ci danno un brivido che nella
sospensione, nella fissità, non smette di produrre molteplicità in divenire.
Producono convulsioni che ci fanno muovere e respirare altrimenti ma che non
generano conseguenze permanenti.
Ed ecco, allora, che
l’intreccio poetico con Pedro Salinas non è una codificazione di ciò che doveva
essere o che è stato, ma un convulso tradimento. Tradimento, etimologicamente
vuol dire consegnare-oltre, andare
oltre un modello, una riconferma nel già detto e nel già visto. I versi di
Salinas che hanno attraversato questo scritto sono una mise en abime, un
lancio di dadi, dove l’immagine e la parole si fronteggiano, si seducono pur
appartenendo a due regimi espressivi diversi. Prende forma così un rapporto al
limite, un’amorosa corrispondenza tra registri estetici che non si completano,
ma che sono da sempre minacciati da un fuori campo, da un’alterità, che è
riserva di immaginazione e opportunità di scardinare la stasi, il radicamento
percettivo, disobbedendo alle fantasie che producono solo un effetto di
movimento, e consegnandoci ad un’attesa palpitante, ad un divenire
attraversante.
E
fino a quando non verrai tu / io resterò sulla sponda / dei voli, dei sogni, / delle
stelle, immobile. / Perché so che dove sono stato / non portano né ali, né
ruote, né vele. / Esse vagano smarrite. / Perché so che dove sono stato con te /
si va solo con te, attraverso te.
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