TENDENZE NEL DOCUMENTARIO ITALIANO
TRA ANTROPOLOGIA E VIDEOARTE
Di PIERO DEGGIOVANNI
Una recente
tendenza nell’ambito del documentario italiano unisce la metodologia di ripresa
e registrazione dei dati tipica dell’antropologia visuale con il linguaggio simbolico
della videoarte. È un fenomeno presente nel nostro
paese grazie ad autori di formazione atipica rispetto all’iter classico,
provenienti dalle Accademie di Belle Arti e dai Dams. Mi riferisco, in
particolar modo, a registi come Luca Magi, Enrico Masi, Alberta Pellacani e al duo Gianni Sirch e
Ferruccio Goia, sul cui lavoro mi intratterrò più avanti. La loro formazione li
ha sicuramente resi più sensibili ai linguaggi delle cosiddette arti visive:
pittura, fotografia e soprattutto videoarte. È appena
il caso di ricordare la vexata quaestio del centenario rapporto tra
cinema e pittura, un’osmosi attualissima che coinvolge anche Luca Magi ed
Enrico Masi, benché, a mio avviso, nelle rispettive opere, sia da tenere
presente principalmente la crasi tra i linguaggi del cinema documentario e
della videoarte anche per contiguità tecnologiche determinate dal passaggio al digitale. Così come è appena il caso di citare i pionieri del genere
rintracciabili nel Cinéma Vérité di Jean Rouch e nel Direct Cinema, sua versione
anglosassone. D’altronde, nelle caratteristiche
salienti di questi lavori, accomunati dall'impianto strutturale, possono essere
riscontrabili tecniche e scelte stilistiche elaborate e consolidate nel cinema
documentario da autori come Herzog, Brakhage, Wiseman, ma contaminate dalle peculiarità estetiche del
mezzo video così come sono andate definendosi a partire dalle sperimentazioni
di Bruce Nauman e Vito Acconci, per giungere al Bill
Viola di Passing.
Caratteristiche riassumibili in alcuni punti.
a) L’assenza di narrazione didascalica fuori campo è una
delle caratteristiche principali. Permette di entrare subito nel cuore delle
cose attraverso la testimonianza diretta delle persone intervistate secondo il
procedimento dell’indagine antropologica. Le persone danno un senso di verità
completamente diverso da ciò che si vede in televisione forzando il pubblico a
una relazione interattiva con il filmato, poiché costretto a ricostruire
mentalmente la vicenda narrata.
b) Vengono utilizzate inquadrature insolite delle
persone, considerate spesso errori linguistici, ovvero primi piani ravvicinatissimi o addirittura solo dettagli dei volti. Mentre nel
cinema tale espediente viene utilizzato per connotare
meglio un personaggio, in questi documentari, come nella videoarte,
stigmatizzano la “verità” antropologica della persona dando un senso di realtà
che invade lo spazio e la mente del pubblico. Tale effetto viene rafforzato dalla assenza totale di panoramiche (Masi) o limitate
a cose relative all'intervistato (Pellacani, Sirch e Goia). Non confondiamo però realtà con verità: si
tratta pur sempre di scelte stilistiche e dunque di un modo per piegare il dato
oggettivo alle scelte “ideologiche” dell’autore (vedi Wiseman).
c) Vi è inoltre un uso limitatissimo della musica la
quale non funge da riempitivo narrante e didascalico, ma da simbolo di uno
stato d'animo, come spesso accade nella videoarte.
Nessuna coloritura sonora suggestiva copre i rumori
ambientali reali.
d) I piani sequenza sono curatissimi e attenti all'equilibrio
delle forme nella luce. Vere fotografie "metafisiche" alla Ghirri e le inquadrature trasformano i dettagli in simboli
non di una narrazione, ma di una dimensione esistenziale e antropologica.
e) Se le inquadrature indugiano sugli oggetti, o su
elementi naturali, questi sono resi allo stesso modo, cioè stati d'animo
relativi ad una condizione esistenziale, divenendo
così oggetti "identitari".
f) La stessa cosa si può rilevare nell’uso del
rallentatore in alcune sequenze con la stessa finalità simbolica: enfatizzare
l’identità attraverso il territorio o gli edifici.
Anita di Luca Magi, è forse il più
“pittorico” e narrativo. Partendo da un trattamento inedito di Federico
Fellini, il regista racconta la vicenda di Anita che accompagna Guido al capezzale
del padre in un viaggio che da Roma li porterà a Rimini. È l’occasione per
scoprire un’Italia minore, marginale e rurale. Il film si caratterizza per un
uso evocativo del repertorio di vecchi film di famiglia in super8 su cui si
stende una placida e riflessiva narrazione del tutto ipotetica e rarefatta come
ormai rarefatti sono gli eventi illustrati dai filmini
privati. È il tempo della memoria, sospeso ed eterno, fissato per sempre nel
sedimento affettivo del ricordo. Ad esso Magi
contrappone – ed è il caso di intendere questo nel senso musicale del
contrappunto – il tempo presente della realtà degli insediamenti rurali
dove sostano i due personaggi nel trattamento felliniano. È l’occasione per
incontrare autentiche persone del luogo, così vere nella loro fisicità ripresa
in modo quasi invasivo, in quanto personalità
emblematiche del genius loci, cioè depositari di una sapienza
del territorio di cui più nessuno sa cosa farsene nell’epoca dei costumi globalizzati.
Depositari di un’identità perduta nella silenziosa marginalità delle loro
esistenze. A questo punto, sembra suggerire Magi, non sappiamo più distinguere
tra ciò che è memoria e realtà poiché il reperto filmico e la narrazione
sembrano più veri di una realtà di cui oggi restano solo tracce in vite
marginali e insignificanti nel contesto dei valori
acquisiti dalla società di massa e della sua organizzazione socioeconomica. Anita, dunque, non è un docufiction su un canovaccio di prestigio, ma un intenso
discorso sulla memoria e sul tempo, sull’autenticità dell’esistenza messa in
crisi dall’evoluzione della società. In qualche modo si ricollega all’indagine
che condusse Gianni Celati nei suoi documentari sulla pianura padana senza per questo essere didascalico, anzi sollecitando il pubblico a
riflettere sugli statuti di realtà e sul senso di perdita che il contatto con
vite residuali suscita inevitabilmente.
Enrico Masi,
nel documentario In Calabria o del futuro perduto, affronta il tema della
marginalità dell’etnia albanese e della difficile resistenza identitaria a cui è costretta. Il tema implicitamente riconduce a uno
sguardo antropologico sui residuali usi e costumi di una minoranza nell’epoca
dell’omologazione dei costumi. Le riprese combinano
l’invasività dell’osservazione scientifica con la loro trascendenza simbolica.
Gli esterni indugiano su frammenti di paesaggio colti al rallentatore affinché
più intensa sia la percezione del territorio avvicinandosi così alla video arte
del primo Bill Viola. Gli interni vengono colti con
notevole sapienza fotografica dall’occhio del regista che “inquadra” piani
sequenza equilibratissimi in cui gli oggetti si trasformano in emblemi di una
condizione sociale. Caricandoli del valore simbolico di una foto artistica,
essi diventano la rappresentazione dell’identità di una etnia.
In The
Golden Temple siamo di fronte a ciò che si
può definire una catastrofe antropologica. Un intero sobborgo di Londra viene ridisegnato pensando alle esigenze dei nuovi
insediamenti sorti per celebrare i giochi olimpici senza tenere minimamente conto della realtà locale
dell’insediamento, i suoi riti e abitudini, le relazioni sociali. Interi
quartieri vengono rasi al suolo per costruire strade
di allacciamento, nuovi insediamenti anonimi, lo stadio olimpico e il più
grande centro commerciale d’Europa. Edifici risalenti al XIX secolo vengono
così sostituiti da altri secondo standard abitativi identici in tutto il mondo
globalizzato. I testimoni di questo scempio parlano davanti alla cinepresa come
“superstiti” di una devastazione umana, oltre che territoriale, ridotti in
condizioni di vita inaccettabili. La narrazione enfatizza questo aspetto con riprese ravvicinate e brevi filmati di repertorio. Le situazioni
"esplodono" letteralmente nell'osservatore grazie ad un uso simbolico
delle immagini rendendo immediata la ricezione dei contenuti, cosa che un
semplice reportage non può fare.
In COSEsalve, la
videoartista Alberta Pellacani, molto vicina alle
considerazioni espresse in vari momenti da Gianni Celati, ci avverte che
l'autenticità del vivere si manifesta sempre nella triade esistenziale Catastrofe-Dolore-Morte. Interessata agli aspetti
relazionali dell’arte, convinta che solo tramite la comunicazione
interpersonale si possa attivare la semiosi tra opera e pubblico, l’artista
indaga la situazione verificatasi in Emilia dopo il terremoto. Quasi come
inconsapevole risposta alle indagini documentaristiche di Celati sull’abbandono delle campagne, e dei loro insediamenti, da parte di
una popolazione tesa all’inseguimento del benessere, Pellacani ritrova nelle interviste alle vittime del terremoto quel fondamento di umanità
che sembrava perduto. Il binomio memoria e condivisione emergono dopo la catastrofe, la morte e la persistenza del dolore. Avvicinati
con dolcezza, tatto e rispetto, i testimoni si raccontano sciogliendo ogni
riserva davanti alla videocamera, mostrando gli oggetti che durante la scossa
– e prima di fuggire, abbandonando le proprie case al loro destino di
rovina – hanno istintivamente pensato di salvare, e sorprendentemente non
sono gli oggetti di valore, bensì quelli che simbolicamente rappresentano la
propria identità, quelli a cui è legata la memoria
affettiva. Emerge allora come l’identità si manifesti in una storia delineata
dagli affetti e non dal possesso dei feticci del consumo. Sono gli affetti
simbolicamente rappresentati da oggetti-memoria a venire salvati, non gli status symbol. In quelle case – che Celati definiva
tutte uguali, con le finestre sempre chiuse, dietro le quali la gente si
nasconde ad aspettare che il tempo passi, sottolineando in questo modo l’alienazione che accompagna la società del “benessere” –
la catastrofe ha permesso il riemergere di sguardi solidali, nella
costernazione e nel dolore. Ha riunito nuovamente le persone nella sua
condivisione. Così come ha fatto Pellacani,
condividendo un’indagine intima e sussurrata che esigenze televisive non
potranno mai ridare.
Il film del
duo registico Gianni Sirch-Ferruccio Goia, My
Private Zoo, è la storia di vita quotidiana di un artista e fotografo
sudafricano residente in una township ai margini di Johannesburg. Essa diviene il
pretesto per testimoniare, quasi poeticamente, la persistenza in quell’area di
condizioni di vita determinate dall’apartheid. Viene così descritta una
giornata tipo in quegli agglomerati: i gesti quotidiani, la coabitazione
costretta a una promiscuità vissuta con apparente armonia, gli acquisti in
improbabili negozi ricavati da containers. La fatiscenza delle abitazioni fanno da contorno a sporadiche apparizioni dell’artista
impegnato in azioni performative che imitano i comportamenti della fauna
selvatica. Lo sforzo registico si concentra, come affermano Sirch e Goia, su una resa artistica delle riprese. L’uso del bianco e nero e un
commento sonoro jazz omaggiano la fotografia e la
musica sudafricana, con grande beneficio dell’asciuttezza delle riprese, spesso
effettuate con l’uso di lente e lunghe carrellate laterali – quasi una
citazione dell’Herzog di Fata Morgana – che perlustrano la township, evidenziandone
lo stato di degrado avanzato. Degrado che contrasta vistosamente con la dignità dei suoi abitanti, la loro calma apparente. Sullo sfondo s’intuiscono
le questioni non risolte che ancora persistono nonostante la fine dell’apartheid.
Esse diventano occasioni per rivendicare le proprie radici culturali ed
etniche. Sono momenti di discussione collettiva anche se la stanchezza e la
disillusione si percepisce nettamente nelle parole
stereotipate degli interventi nelle assemblee. Come nero Virgilio, Anele,
l’artista della township,
si muove in un’atmosfera enfatizzata dalla cura fotografica dei dettagli, si
rispecchia nei “ritratti” umani degli abitanti che incrocia, enfatizza il
tranquillo dipanarsi della documentazione con azioni quasi totemiche e rituali.
Ne risulta un affresco sui toni del grigio, lirico ma
essenziale, tutt’altro che rassegnato, con tutta la capacità di penetrazione di
un’opera simbolica.
Da questa
parziale indagine emerge una tendenza nel documentario in Italia: cogliere i
paradigmi esistenziali, le identità territoriali e i fondamenti umani nel
momento in cui essi vengono minacciati o peggio
ridotti in palese stato di sofferenza. Trovo dunque significativo questo convergere di video artisti e registi “anomali” sul documentario con
finalità estetiche pressoché identiche, trasformandolo in un ibrido linguistico
interessante, che potrebbe condurre a sviluppi per ora imperscrutabili. Il
pluripremiato artista Douglas Gordon, con il video su Zinedine Zidane, tentò
una resa simbolica del noto calciatore, trasformando, a mio avviso, un essere
umano in un feticcio consumistico piuttosto che un eroe del XXI secolo. Lavoro
che allontana volutamente dalla realtà per raggiungere il mito
“tecnicizzato", come lo definisce Kerenyi. Nel
lavoro di questi autori, al contrario, si pone in rilievo la volontà di
ritornare "alle cose stesse". Un rifiuto delle
menzogne e dei comportamenti imposti. Una voglia di rimemorarsi, di
riscoprire l'umano dove si trova ed evidenziare come la battaglia oggi si
giochi proprio su questo piano: l'autodeterminazione delle comunità, la loro
sopravvivenza, in conflitto con le esigenze dell'iperliberismo globalizzato che tutto aliena, parcellizza e omologa.
Tristemente.
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