RITRATTO
DI SCRITTORE DA REIETTO
BUKOWSKI AL CINEMA
di JONNY COSTANTINO
Bukowskiana
Non c’è niente che possa impedire
a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I
rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo. E più lo ostacolano, più
forte diventa, come una massa d’acqua che preme contro una diga. Scrivendo non
si perde mai: ti fa ridere le dita dei piedi mentre dormi, ti fa muovere come
una tigre, ti accende l’occhio e ti mette faccia a faccia con la Morte. Morirai
guerriero, sarai onorato all’inferno. Fortuna della parola. Vai, lanciala. Sii
il Buffone delle Tenebre. È divertente. È divertente. Un'altra riga ancora…
Charles Bukowski, The Captain
is Out to Lunch and the Sailors Have Taken Over the Ship
I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo… parola di uno
che dalla scrittura ha avuto fama e tranquillità economica solo quando il mondo
aveva già assassinato i sogni della giovinezza… di uno scrittore che bocconi
amari ne ha ingoiati parecchi… Quanti mesi, quanti anni trascorsi tra lavori
infimi, ad arrugginirsi in un ingranaggio sballato, rotella difettosa che solo
l’alcol poteva oliare, protraendo il moto d’inerzia, posticipando l’inceppo…
quanti giorni a smaltire sbronze e scazzottate per subito rituffarsi in nuove
imprese al bancone o nel retro di qualche bar per malconci fantini disarcionati
dal sogno americano… quante notti a stordire la solitudine a suon di Bach o
Mozart o Brahms o Mahler sputati da una vecchia radiolina, a vomitare musica per
organi caldi pestando i tasti di una macchina da scrivere sgangherata… quante
ore, quanti secoli di rabbiosa estasi scassinati al tempo taccagno, cercando
nelle parole l’unica rivincita possibile allo scacco inflitto da una realtà
autistica e disumana, circondato da lattine vuote di birra e ricolme di
disillusione…
Eppure quel vecchio porco di Charles Bukowski è stato uno dei pochi
scrittori del secolo andato – un altro è l’avanzo di galera Edward Bunker
– che vide, e nel giro d’un settennio, ben tre adattamenti
cinematografici del proprio vissuto, o meglio: di quella mastodontica
autobiografia in forma di romanzo, racconto, poesia che fu la sua vita. Il
primo fu Storie di ordinaria follia, diretto nell’81 da Marco Ferreri e
tratto dalla raccolta narrativa del ‘72 Erections, Ejaculations, Exhibitions
and General Tales of Ordinary Madness. Più in particolare, è intorno al
racconto The Most Beautiful Woman in Town – donna interpretata da
Ornella Muti – che ruota la narrazione di questo film intenso e squilibrato,
capace di alternare momenti di vibrante pungente lirismo a siparietti
spiccioli, il che peraltro è tipico dell’arte bukowskiana. A vestire i panni
dello scrittore tutto eccessi è Ben Gazzara. Dopo la prima del film, Bukowski
paragonò i suoi occhi supplichevoli a «quelli di un uomo seduto sulla tazza
che si sforza di cacare e non ci riesce», come riporta Howard Sounes, il suo
biografo. Qualcosa da ridire, l’autentico, l’ebbe pure
riguardo alla prova di Mickey Rourke in Barfly, diretto
nell’87 da Berbet Schroeder e sceneggiato dallo stesso Buk, film che resta il
più coeso drammaturgicamente e notturno tra quelli che prendono le mosse dalla
sua opera. La critica che rivolse a Rourke fu di aver esasperato i tratti
clochard del suo alter ego, puntualizzando di non aver mai avuto un aspetto
tanto trasandato, poiché, se così fosse stato, nessun padrone di casa avrebbe
mai stipulato con lui un contratto di locazione. «Vederti come sei realmente, a
volte ti ferisce», replicò l’attore, il quale, a prescindere dall’effettiva
somiglianza al modello, appare geniale nel trasudare un’umanità ora puerile ora
stoica in una performance che resta sospesa, e sempre un’ottava sopra, tra il
grottesco e il patetico.. Leggenda vuole che, letta la sceneggiatura, fosse
stato Sean Penn, intimo amico dello scrittore, il primo a proporsi per la
parte, dietro il compenso simbolico di un dollaro e con l’unica condizione che
la regia venisse affidata a Dennis Hopper. Ma la cosa non andò in porto. Con la
sua ritrovata sobrietà, dopo gli eccessi del passato, con tutti quei gioielli e
catenine addosso, con quella risata che suonava fasulla, a Buk il regista di Easy
Raider non andò proprio a genio. E poi Schroeder non avrebbe mai accettato di
mollare un progetto di cui era stato il propulsore, per essere retrocesso in
seconda linea, a produttore esecutivo. Per dare l’idea di quanto fosse risoluto
a dirigere Barfly, il suo primo film hollywoodiano, è sufficiente un
aneddoto: quando la casa di produzione, la Cannon, bloccò i lavori, il regista
si presentò dal dirigente Menahem Golan munito di sega circolare
black&decker, minacciando di amputarsi un dito seduta stante se non
avessero rispettato il contratto, e fu così persuasivo che Golan non poté
esimersi dal dargli subito la sua parola. Sempre
nel periodo in cui si arrabattava per raccogliere fondi, il cineasta ha
realizzato The Charles Bukowski Tapes, documentario suddiviso in 52 brevi
sequenze – ambientate tra la casa dello scrittore a San Pedro e alcuni
luoghi del suo passato a East Hollywood – nelle quali Buk parla di vita e
scrittura rivolgendosi direttamente alla cinepresa. Il 1987 fu l’anno della sua
consacrazione cinematografica: Schroeder portò a termine sia il film che il
documentario e l’uscita invernale di Barfly fu anticipata
di qualche mese nelle sale americane da Crazy Love, film diretto
dal regista belga Dominique Deruddere, interpretato da Josse de Pauw e ispirato
ad alcune prose di Bukowski, tra cui The Copulating Mermaid of Venice,
California. Questa trasposizione sui generis è l’unica a
non raccontare esclusivamente la maturità del protagonista: essa copre un arco
temporale tripartito che va, con progressione melodrammatica, dall’infanzia (la
scoperta del sesso) al suicidio (dopo aver consumato l’amplesso della propria
vita col cadavere ancora caldo di una splendida ragazza), passando per
un’adolescenza sfigurata dall’acne. Formalmente barocco, l’impianto scenico è
connotato da un’artificialità e da un’economia di locations di gusto teatrale,
mentre la fotografia, in virtù della saturazione cromatica e del soffuso senso
di morte che la intride, evoca vagamente il trompe-l’œil di Querelle (1982), messa
in scena del romanzo di Genet e testamento di Fassbinder. Bukowski, scomparso
nel ’94, considerava Crazy Love l’adattamento della sua opera meglio
riuscito.
Co-sceneggiato (assieme a Jim Stark) e diretto da Bent Hamer, Factotum muove
dall’omonimo secondo romanzo di Bukowski, uscito nel ‘75 e primo a essere
pubblicato in Italia. Il protagonista è il suo altro per
antonomasia Henry “Hank” Chinaski, già eroe di «Post Office» (1971), romanzo
d’esordio in cui lo scrittore racconta gli anni trascorsi a lavorare prima come
postino temporaneo e poi come addetto allo smistamento della posta nel
gigantesco palazzo del Terminal Annex, nel downtown di Los Angeles, finché nel
’70 non decise di licenziarsi, all’età di 49 anni, nell’azzardosa speranza di
vivere della scrittura. Factotum si svolge a cavallo tra gli anni ’40 e
’50, nel periodo precedente l’assunzione alle Poste, e narra il desolato girovagare
di Chinaski nei bassifondi di tante città statunitensi, barcamenandosi tra
lavori occasionali (inserviente, sguattero, pulitore… o cuscinetto a sfera
extra: «uno che sta lì a disposizione senza mansioni specifiche»,
presupponendo sappia cosa fare) e donne allo sbando quanto lui, gomito a gomito
con gli sconfitti, i dementi, i dannati, gli ubriaconi, gli alienati, i morti
di fame… insomma le uniche persone reali (Buk dixit). Quella di Chinaski
è l’odissea di un uomo solo e senza ambizioni in un’America da incubo, popolata
dagli scarti e dalla carne da macello del capitale… la registrazione cruda e
impietosa di una vita sopportabile grazie a polmoni d’acciaio e proroghe di
suicidio come la Sesta di Mahler, una bevuta, una scopata, una puntata vincente
alle corse dei cavalli… D’altronde, un povero intelligente è un osservatore
assai più sottile di un ricco intelligente, «è ipersensibile, è un uomo
esperto, la sua anima ha bruciature», come osserva Knut Hamsun in Fame.
Quasi automatico verrebbe accostare la poetica di Bukowski a quella di
Henry Miller, altro superbo autoritrattista, il quale peraltro ebbe modo di
apprezzare le poesie di Buk ma declinò un suo invito a incontrarsi, per di più
facendogli una predica telefonica sul fatto che l’abuso di alcolici avrebbe
stecchito la sua ispirazione. Lasciando a margine le rispettive diete e i
plausibili punti di contatto tra i loro mondi, va operato un distinguo
sostanziale. Che sia un impiegato frustrato della Western Union Telegraph
Company nella New York degli anni ’20 o uno scrittore povero in canna nella
Parigi bohemien degli anni ’30, nel Miller dei Tropici vince una joie
de vivre incondizionata, che conferisce un tocco d’epica anche alla
più banale avventura, che sia una bistecca scroccata o lo scolo lasciatogli in
dono da qualche prostituta. Miller è un paranoico all’inverso: malgrado
tutto, il mondo intero è in combutta per provocare la sua felicità, ed è questa dispositio animi a impregnare la sua prosa, tra le più travolgenti e
adrenaliniche. Al contrario, il Bukowski dei primi romanzi è un uomo in rotta
con Dio e con gli uomini, che argina a colpi di scrittura l’onda
d’autodistruzione sempre lì lì per sommergerlo. Egli non ama se stesso, né la
vita; non la canta, sebbene la potenza di vita sprigionante dai suoi libri sia
straordinaria. In tal senso, è decisamente più vicino a un randagio misantropo
come Céline. È per sopravvivere, per non affondare che combatte furiosamente,
armato solo di una scrittura corrosiva che, come un acido, attacca alle fondamenta
le bugie che gli uomini si dicono per tirare avanti, oltre che le strutture di
sapere e potere di cui sperimenta l’aggressione, snudando di queste sfere
colluse l’abbacinante assurdità. Quella compiuta da questo scrittore d’origine
tedesca è un’implacabile radiografia della contemporaneità. Un grido ora sordo
e scorato, ora cinico e urticante, spesso esilarante… sì, perché lo scacco
dell’uomo non getta sulla prosa una luce triste, si limita a conferire alla sua
icastica vis comica un retrogusto d’amarezza. Anche quando ci fa
ridere, non possiamo dimenticare che a parlarci è un uomo devastato. «La mia
anima strafogata di birra è più triste di tutti gli alberi di Natale morti del
mondo»… è l’eloquente titolo del primo racconto edito di Chinaski, come leggiamo
nel 29° degli 87 paragrafi del romanzo e apprendiamo verso l’epilogo del film
da una lettera spedita dalla rivista Black Sparrow, letta furtivamente dalla
sua padrona di casa. Primo squillo di una fama che arriverà ben più tardi. A
fiotti deve ancora sanguinare la ferita letale che egli custodisce nel proprio
intimo… per non smettere mai. Ma fino alla fine, scrittore che non abdica alla
propria verità d’uomo, Hank Bukowski resta in piedi… è pur sempre un guerriero,
un guerriero sornione che barcolla più per le prodezze etiliche che per i colpi
ricevuti dalla sorte, tutti potenziamenti della capacità di penetrazione dei
suoi affondi poetici.
Chi perde
vince
Come nei libri le pagine della vita di Bukowski talvolta si
sovrappongono, capita così che anche nei film a lui ispirati figure ed eventi
si ripetano. A riguardo, si osservi in Factotum come Jan (Lily
Taylor) e Laura (Marisa Tomei), le donne tra cui si divide Chinaski (Matt
Dillon), rappresentino una sorta di sdoppiamento della Wanda (Faye Dunaway) di Barfly, e come
– nella scena in cui Hank abborda Laura al bar e nella successiva in cui
vanno far rifornimenti al drugstore – Hamer ritorni su due situazioni già
inscenate da Schroeder nel corso di una sequenza dove peraltro fa capolino Buk
in persona, in un silenzioso cammeo al bancone, davanti a una bottiglia di
birra. Ma il cineasta norvegese non teme il déjà-vu della ripetizione, forte
della differenza del proprio stile… uno stile proteso a restituire un flusso
vitale con tutte le sue sfumature emozionali, senza far leva né sulla retorica
del linguaggio né sui cliché dello spettacolo… uno stile modulato da una
poetica dove un profondo disincanto verso le sorti dell’uomo, inteso quale
animale social progressivo, convive con la fiducia che possa ancora attecchire
una comunicazione sincera tra gli uomini, al di fuori degli schemi di
addomesticamento imposti dalla ci-viltà. Girato con una semplicità e un’onestà
tipicamente bukowskiane, Factotum dà modo ad Hamer di radicalizzare le
posizioni (stilistiche, poetiche, morali) emerse nel precedente Kitchen
Story (2003), toccante storia di un’amicizia virile irrorata da una lucida
critica dell’ideale di benessere piccolo borghese e leggibile attraverso la
filigrana di una pregnante metafora sull’impossibilità di un calcolo
“positivistico” del fattore umano.
Accantonando la tentazione di restituire la ricchezza di eventi e lo
spirito itinerante del romanzo (il peregrinare di Chinaski tra New Orleans, Los
Angeles, Las Vegas, New York, Miami), Hamer mantiene del romanzo sia la
struttura frammentaria che il respiro contratto ma potente, intensificando lo
sguardo su una rosa di episodi chiave ambientati in un indefinito cul de sac statunitense,
in un sottosuolo dove ai puri è però ancora concesso di ridere e fantasticare senza
svendere il proprio diritto di essere nulla. La rinuncia alla quantità si
traduce dunque in un guadagno d’intensità: sottraendo e quintessenziando, il
regista và dritto al cuore dell’opera e ne spreme l’essenza tragicomica, senza
che ombre di letterarietà ammorbino la scrittura del film o che il voyage di Chinaski
sia gravato dall’enfasi patetica di cui sia Schroeder che Deruddere tendono ad
abusare in alcune scene, zavorrandole stucchevolmente… enfasi di cui anche
Ferreri a tratti eccede il dosaggio, cavalcando un po’ sfacciatamente il mito
del genio sregolato. Per converso, Hamer opta per una de-drammatizzazione della
macchina affabulatoria, lavorando nel verso di un’indefettibile concisione e
regalandoci momenti di autentico lirismo, come quando sulle immagini scorre la
voce off di Hank che recita brani estratti, oltre che dal romanzo, altresì
dalle raccolte poetiche The Days Run Away Like Wild Horses Over the Hills e What
Matters Most is How Well You Walk Trough the Fire, nonché dal
“diario di bordo” in prosa The Captain is Out to Lunch and the Sailors Have
Taken Over the Ship. Se poi la patina sentimentale che talvolta s’avverte in Barfly e Crazy Love è ispessita da una punteggiatura musicale fin troppo
“espansiva”, per contro risulta perfetta, nel senso del lirismo, l’affinità
elettiva che s’instaura tra le immagini di Hamer e la calda colonna sonora di
Kristin Asbjørnsen, che tra l’altro ha musicato e interpretato con voce
suadente e malinconica alcuni versi estrapolati dalle poesie bukowskiane «I wish
to weep» («I Wish to Weep») e «wind the clock» («Slow Day»), oltre che da «roll
the dice» e «my garden», ricavandone due canzoni tagliate nella versione
definitiva del film.
Col consueto occhio straniato, il regista non ci spiattella fin dalle
prime battute la psicologia del protagonista, ma costruisce situazioni nelle
quali il suo carattere emerge a schegge, un po’ per volta, e senza che venga
mai meno l’ambiguità di fondo della sua fisionomia esistenziale. Tali
situazioni si concatenano tra loro come cellule tendenzialmente autonome, le
quali compongono, in corso di visione, un organico mosaico drammatico. È
come se il cineasta, reduce tra l’altro da un lavoro documentario per la
televisione norvegese, adottasse la logica narrativa della sitcom per portarla
a una compiutezza espressiva e a un’apertura di senso squisitamente
cinematografiche. Qualcosa di simile accade pure in un altro recente gioiellino
nordico come Nói Albinói (2003), film d’esordio dall’islandese Dagur Kári.
Ma mentre Kári spinge l’acceleratore nel verso di una stilizzata surrealtà che
trascolora nel sogno a occhi aperti, Hamer precisa quell’ipotesi di asciutto
realismo di cui aveva già dato saggio in Kitchen Story, un realismo
che all’occorrenza non manca d’una certa crudezza. Fedele a questo registro,
quando si presenta l’occasione, l’autore traduce nella realtà (filmica) ciò che
nel romanzo è sogno; il riferimento è alla scena in cui Chinaski picchia un
vecchio agente immobiliare che non gli vuole restituire il proprio posto a sedere
(lo ha prenotato con un giornale) sugli spalti dell’ippodromo: se nel libro
l’episodio si svolge in un sogno di Hank (culminante con la caduta lenta
dell’antagonista nel vuoto sottostante la panca e col suo lento rimbalzare per
terra, prima di giacere immobile), nel film il pestaggio (fuori vista)
dell’indisponente ometto, peraltro ringiovanito da Hamer, si verifica in una
giornata come tante del protagonista, e per di più la cosiddetta “cagata
d’uomo” ritorna nel sottofinale: è quello con cui, ironia della sorte, Jan va a
vivere, dopo l’addio definitivo con Hank.
Ogni emozione ha i suoi tempi d’incubazione… li si può forzare, ma col
pericolo di alterare la veracità dei sentimenti in gioco e sfigurarne l’effetto
di realtà. È la durata a vivificare il realismo di Factotum, attraverso
una fermentazione dell’emozione la cui lentezza contrasta con la normale
gestione (spettacolare) dei recitativi e dell’azione. Nel cinema, avvertiamo la
durata come la sensazione di vivere, una sensazione che, intesa nella sua forma
più pura, è messa a repentaglio dall’intervento del montaggio, i
cui tagli rischiano sempre di mutilare il divenire trattenuto dalla scultura
temporale che prende forma sotto i nostri occhi oppure di contraffare il
dialogo che si sta stabilendo tra primo piano e profondità di campo o ancora…
Bazin ha scritto pagine illuminanti parlando di “montaggio proibito”.
Altrettanto illuminante è un pianosequenza di Hamer: innanzi a noi, seduto,
Chinaski riprende fiato dopo aver rigettato nella tazza del cesso una notte di
baldoria, mentre alle sue spalle, sullo sfondo, c’è ora Jan che vomita l’anima
nel water… dopo un lieve assestamento di panoramica, la sequenza culmina sul
letto, divenuto teatro di un lacerante congedo tra gli amanti.
A letto si gode, si soffre, si gioisce, ci si scompiscia dalle risate,
fiottano le lacrime…: «il sesso è ovviamente tragicomico. non ne scrivo come di
uno strumento ossessivo. ne scrivo come di una risata su un palcoscenico su cui
dovete finire per piangere anche voi», puntualizza Buk in Notes of a Dirty
Old Man. Pur smorzando i tour de force scoperecci di Chinaski, ridotti a un
paio di parentesi intime con Jan e Laura, Hamer non tradisce gli intendimenti
dello scrittore. L’apice (tragi)comico del film viene però toccato non già
inscenando un’azione sessuale, bensì ironizzando su una conseguenza del sesso,
nella sequenza in cui Chinaski s’accorge di essersi beccato le piattole per
colpa di Jan – divoratrice di uomini che «lo prendeva come fosse un
coltello, come se la trapassasse» – e si sottopone a un buffo medicamento
casalingo operato dall’untrice.
Senza una donna, fuori della propria tana, Hank non ha che due posti
dove andare a rifugiarsi: l’ippodromo e il bar. Per chi la sua lotta con la
vita l’ha bella che persa, la speranza di vincere scommettendo sui cavalli
assurge a parodia passiva e purgatoriale di un darwiniano struggle for life. Scrive Buk in
un brano di The Captain is Out to Lunch…, recitato nel film dalla voce
off del suo alter ego: «La folla di un ippodromo è il mondo in scala ridotta,
la vita che digrigna i denti contro la morte e perde. Alla fine non vince
nessuno, noi tutti cerchiamo soltanto una tregua, un momento di luce
abbagliante». Altrove Bukowski: «la ragione per cui la gente va alle corse è
perché è in agonia, eggià, ed è così disperata che preferisce prolungare
l’agonia che correre il rischio di affrontare la sua condizione attuale» (Notes
of a Dirty Old Man). Per un uomo così, conscio della propria disfatta,
fottuto a morte dalla vita, in fuga al galoppo da una realtà che gli fa orrore,
la bottiglia diviene l’unica boa che non affonda nel mare di disperazione in
cui sta annegando. «Quando bevi, il mondo è sempre là fuori che ti aspetta, ma
per un po’ almeno non ti prende alla gola» (Factotum, il libro). Se
esiste un’etica alcolica, Bukowski è uno dei massimi cantori. In merito, nel
romanzo c’è un passaggio particolarmente significativo. Licenziato per
l’ennesima volta e presentatosi per ritirare l’assegno di benservito, Chinaski
si sente ripetere, come il giorno prima, che il pagamento non è ancora
effettuabile; al che s’inalbera ed esige dall’impiegata che ha di fronte di
parlare col capo dei suoi capi. Si ritrova nell’ufficio di John Handler, a cui
chiede senza perifrasi di fargli dare i soldi che gli spettano, perché possa
andare a ubriacarsi con la propria signora. Dopo averlo ascoltato e avergli
offerto da fumare, il boss intima a chi di dovere di preparare l’assegno entro
cinque minuti; nell’attesa, i due uomini chiacchierano del più e del meno. Se il
capitolo del libro si conclude con un commento dell’io narrante che definisce
il manager un «uomo come si deve», il regista – da demiurgo che vede di
più del suo personaggio – fa uscire di scena Chinaski per mostrarci
Handler che apre il cassetto della sua scrivania e si fa un cicchetto in
solitudine. Come Bukowski, Hamer non dà appigli a manicheismi di classe. Per un
istante, vediamo smateriarsi le barriere sociali che dividono due esseri,
accomunati dall’urgenza della bottiglia. Non vi sono esclusive di ceto per
quegli squarci dell’anima che solo l’alcol solitario è in grado di lenire.
Ma Chinaski non è solo un uomo alla deriva, è uno scrittore. La lotta
che ha ingaggiato è innanzitutto con se stesso, e a capo può venirne solo
scrivendo «con potenza ed efficacia, con piacere, col gusto del gioco
d’azzardo».. Egli sente di non aver nulla a che spartire con le teste d’uovo rammollite
di cui traboccano università, circoli, riviste letterarie. Nell’ufficio di uno
dei suoi tanti capi, l’operaio Chinaski viene posto dal superiore al cospetto
di un suo amico, uno scrittore arrivato; nel romanzo trascorrono sette minuti
di silenzio prima che Hank tagli la corda; nel film, passano una quarantina di
lunghissimi secondi prima che il nostro, dopo esser stato scrutato da cima a
fondo con aria vagamente sospetta, rompa l’imbarazzato mutismo della situazione
con un: «Le dispiace se vado ora?». Scrive Bukowski: «Piuttosto che pensare
agli scrittori preferisco pensare alla morte. È molto più gradevole… dovendo
parlare con qualcuno, credo che preferirei di gran lunga un tecnico di computer
o un impresario di pompe funebri. Con bottiglia o meno. Possibilmente con»; e
ancora: «Il peggio in assoluto è però bere con loro, si sbavano addosso, sono
uno spettacolo davvero pietoso, sembra che cerchino l’ala della madre» (The
Captain is Out to Lunch…). Nella scena successiva, vediamo Chinaski nella
solitudine della sua camera ammobiliata. L’incontro con lo scrittore lo ha turbato.
Belle donne, buone bistecche, lunghi vialetti lastricati che portano a belle
case, viaggi in Europa, bella vita… tutte cose che suscita in lui l’aspetto di
quel tale ben vestito e con un sigaro di qualità tra le dita… tutte cose a lui
precluse. Più avanti dirà a Jan: l’uomo non cerca l’amore, cerca il successo, in
una forma o nell’altra.. Amara constatazione di un uomo che attraversa la
vita da fallito, cosciente però di quanto tutto possa tramutarsi in una
trappola, il successo come l’amore, questo cane che viene dall’inferno… perfino la
scrittura.
Quella di Matt Dillon è fuor di dubbio una delle sue migliori prove
attoriali: trasandato e appesantito a puntino, rossochiazzato in faccia dal
troppo bere, è riuscito a conferire al personaggio quell’atteggiamento ora
indolente e navigato, ora inerme e assente, ora scrutatore e rassegnato, ora
intontito e strafottente proprio del suo referente letterario. È lecito
supporre che Buk non gli avrebbe negato la propria benedizione. Più intenso e
meno costipato di Gazzara, più sobrio e meno barbone di Rourke, Dillon/Chinaski
incarna in modo superbo il disilluso eroismo dello scrittore che non abbassa la
guardia e persevera nella propria resistenza contro quella valanga angosciosa
che è vita e le logiche di un fare arte sempre più funzione di grette dinamiche
mercantili… personifica senza pecche un artista ripiegato su se stesso, che
rotola per il mondo come all’interno di un blocco di pietra… uno morto
per nove decimi che usa il decimo superstite come una pistola che sputa
parole necessarie, per non essere ghermito da qualcosa di peggiore della
morte. Resistere, costi quel che costi… scrivendo come si spara… per
uccidere la morte che detiene i vivi.
Di questa resistenza, umana e creativa, l’epilogo del film rappresenta
un radioso monumento. Siamo in uno stripbar. Una lapdancer si sta esibendo in
una performance erotica di smagliante atletismo. Avvinghiata alla sbarra
verticale, testa all’ingiù, le sue gambe si allargano fino a disegnare una
linea retta che fende l’aria rossastra e fumosa del locale quasi deserto, per
comporre con l’asta una croce di carne e metallo. Un’inquadratura più larga
include Chinaski, prima che uno scavalcamento di campo ce lo mostri in primo
piano. Il fumo di una sigaretta dà consistenza al pulviscolo, salendo davanti
al suo volto. Bottiglia di birra sul tavolo, mento alto, aria fiera e pensosa,
non esente da una punta di sovrano compiacimento… l’aria di uno che sa di
giocare una partita che, nel bene e nel male, è la propria.
Se a chiosare il romanzo è un’ultima dissacrazione del protagonista che
constata l’incapacità di avere un’erezione innanzi a cotanto spettacolo,
tutt’altro è il tenore delle ultime frasi proferite dalla voce off del nostro
sublime reietto, su un tappeto accordale steso da un discreto pianoforte. Sono
i versi della poesia «roll the dice»:
Se hai intenzione di provare,
vai fino in fondo,
altrimenti non cominciare neanche
Potrebbe voler dire perdere la ragazza,
la moglie, i parenti, il lavoro e
forse anche la testa. Potrebbe voler dire non mangiare per tre, quattro
giorni.
Potrebbe voler dire gelare
su una panchina del parco.
Potrebbe voler dire la prigione.
Potrebbe voler dire la derisione,
lo scherno,
l’isolamento.
L’isolamento è il premio.
Tutto il resto è un test
di resistenza per vedere
fino a che punto sei davvero disposto
a farlo.
E tu lo farai,
nonostante i rifiuti e le peggiori possibilità di successo
e sarà meglio
di qualunque cosa
tu possa immaginare.
Se hai intenzione di provare,
vai fino in fondo.
Non c’è una sensazione
al pari di questa.
Sarai da solo con gli dei,
e le tue notti le incendierà
il fuoco…
Cavalcherai la tua vita diritto
verso una risata perfetta,
è l’unica battaglia buona
che ci sia.
Per essere un grande scrittore… fottere un gran numero di belle donne,
scrivere qualche decente poesia d’amore, bere sempre più birra e non
preoccuparsi degli anni, dormire fino a mezzogiorno e non pagare nulla per
tempo, andare alle corse almeno una volta alla settimana, vincere se possibile,
essere cosciente della possibilità di una sconfitta totale, fare come il toro
nell’arena, quando carica la prima volta… sono alcuni dei provocatorî dogmi
prescritti da Bukowski in una poesia intitolata «how to be a great writer»,
chiosata da versi capaci d’infondere coraggio a chiunque abbia scelto di andare fino in fondo, combattendo l’unica battaglia buona che ci sia:
e ricordati dei vecchi cani
che hanno combattuto bene:
Hemingway, Céline, Dostoevskij, Hamsun.
se pensi che non siano diventati matti
in minuscole stanzette
proprio come sta accadendo a te adesso
senza donne
senza cibo
senza speranza
allora non sei pronto.
bevi più birra
c’è tempo
e se non ce n’è
va bene
uguale.
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