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Babylon. Sguardo e visioni della città:

con Benjamin oltre la città come montaggio di immagini

 

di NAZARIO ZAMBALDI

 

 

Mi trovo in questi giorni a Berlino, come mi è capitato in particolare dal 2000, l’estate. Sono ospite questa volta di Flavio De Marco e con lui lavoro – come si voleva fare qualche anno fa a Bologna quando cercavamo un atelier da dividere – nello studio dove prepara per novembre una mostra sulla città: vedute. Io pure sto riprendendo alcuni rizomi che partivano da Parigi alla fine degli anni novanta e poi da Berlino, città di studi ed esperienze: essi diventano un po’ la metafora al fine di provare ancora una volta quella civilizzazione che non mi è mai riuscita del tutto, restando un po’ sauvage, liminale, secondo un percorso per lo più autonomo, a tratti persino autistico, spesso solitario. Insomma, caro compagno lettore, se ancora non hai abbandonato questa narrazione del sé, aggiungo ancora – prima di motivare – che qui proprio questa inferenza, questo piano privato che tenta di comunicare un valore pubblico (quanto è vero che Mao Tse-tung non salva il mondo mentre lo salva una donna ogni volta che fa il pane, o l’amore) voglio sostenere e difendere. L’idea di partenza è quella di un diario, flânerie nella città, nei suoi margini che divengono vie, stazioni, zone, un diario spaziale più che temporale, come nelle immagini di città lasciateci da Benjamin, alla ricerca di uno sguardo che forse si può cercare attraverso un linguaggio anacronistico come la pittura, o nel cinema, per esempio quello tarkovskijano che qui si propone discendente più di Daguerre che dei Lumière, ma forse soprattutto nella cucina;[1] il resto è solo tempo (e spazio).

 cinema Babylon

Cinema Babylon, Berlino

 

 

Ombre sul vetro

 

Prima che Mosca stessa, è Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca.[2]

 

Berlino, 10 luglio 2010

 

DaguerDaguerre, Boulevard du Temple (particolare)
La fotografia è secondo Giorgio Agamben il luogo del Giudizio Universale;[3] l’esempio che lo mostrerebbe in modo esemplare il dagherrotipo del Boulevard du Temple, considerato la prima fotografia in cui compaia la figura umana. Il boulevard che sicuramente doveva pullulare di carrozze e persone, dato l’assai lungo tempo di esposizione nel dagherrotipo, offre una visione cittadina deserta, fatta eccezione per una piccola figura nera, un uomo restato fermo a farsi lucidare gli stivali un tempo abbastanza lungo per restare impresso. Quella figura, un po’ come il visitatore de Las meninas di Velázquez, ci restituisce lo sguardo, che è sguardo immanente, epifania eterna del mondo, messa in quadro, inquadratura. La città, la veduta cittadina, permane mentre tutti i movimenti, i passaggi, gli attraversamenti del campo scompaiono, in un rapporto con il tempo che crea sfondo al discorso e ai pensieri che andiamo a cominciare: montaggio scenico in cui delle moltitudini di azioni e comparse rimane un’immagine, un fotogramma paradossale, sintesi fatta di assenza. Se del famoso paradosso di Zenone assumiamo la figura umana nel dagherrotipo come tartaruga, allora i tanti Achille veloci nelle loro traiettorie non hanno mai raggiunto la figura, non hanno lasciato traccia. Delle immagini come istantanee che avremmo potuto scegliere per riprodurre quel movimento apparente, che vorremmo qui chiamare cinema, ne permane una come sintesi; il cinema ancora non è (o conservando la prospettiva apocalittica, è già stato). Oppure è un altro cinema. O un cinema altro. Achille forse è perduto un momento prima o uno dopo l’immagine scattata nella ricomposizione di una scomposizione infinita. E se avessimo necessità di un tempo di esposizione più lungo, diciamo di anni, o di secoli, per impressionare un supporto che fa quadro, anche la città forse si muoverebbe troppo veloce, certamente la città del ventesimo secolo, e allora il panorama di cui parla Benjamin cederebbe gradualmente al paesaggio. Proseguiamo in questa linea parossistica: assenza come essenza del cinema, senso stesso dell’esperienza onirica cinematografica, in quanto fantasmatica: le immagini affiorano scomparendo. Su questa linea si procede dall’infinita scomposizione – verso un istante che è sempre astrazione e in cui Achille e qualsiasi figura non comparirà mai perché persi nell’infinitesimo, nello spazio tra fotogrammi o istantanee sempre più prossime le une alle altre senza mai potersi raggiungere – alla visione che necessita di un tempo molto lungo, tendente all’infinito per avverarsi, in cui la visione, il punto di vista, diverrebbe infinito nella monade delle monadi di leibniziana memoria[4]. Tra la solitaria visione dell’artista, ad esempio di Tarkovskij, il cui cinema diviene riflesso di un mondo personale, monade appunto, e il mondo, la società, la civiltà, quale possibilità di rappresentazione si dà, quale teatro, quale città, quale immagine? Dalla solitudine del passante nel dagherrotipo di fronte al Giudizio, ad Alexander di Sacrificio lo sfondo cambia, la città dell’uomo senza qualità diviene l’isola in cui la casa brucia. Differenti cecità, più o meno luminose, sono a confronto.

 

 

 

Sul marciapiede piume

 

Come l’architettura comincia a sfuggire all’arte nella costruzione in ferro,

così fa a sua volta, la pittura nei panorami.[5]

 

Berlino, 11 luglio 2010

 

Qualche anno fa una lettura della città «polifonica» riecheggiava la monadologia sopra citata con la moltiplicazione barocca dei punti di vista per cui il «perdersi» benjaminiano era ancora una volta assunto a modello in un contesto metropolitano dove la trasformazione, il mutamento sono la norma, entro un montaggio complessivo dell’esperienza urbana.[6] Ma questo «perdersi» di Benjamin dove nasce? Al di là della riscoperta per lo più postuma dovuta forse ad un personale modo di interpretare la propria collocazione nella realtà… storica, spazio temporale, per cui oggi, come per lo più accade leggiamo come innovativa l’opera che avevamo valutato oscura o confusa[7], questa perdita va ricercata piuttosto nell’infanzia in cui «il ritmo della ferrovia urbana e dei battipanni mi cullava nel sonno. Era la conca in cui si formavano i miei sogni. Prima quelli informi, forse percorsi dallo scorrere dell’acqua o dall’odore del latte, poi quelli tessuti a lungo: sogni di viaggi e di pioggia».[8] (Qualche anno fa notavo a Berlino molti corvi incedere, signorili. I corvi di Berlino sono ricomparsi oggi, nel pomeriggio, in coppia. Ho raccolto una piuma da terra, fermandomi in bicicletta, nera, e un po’ grigia. Più grande di quelle di piccioni che ho collezionato nelle altre città, di una bellezza mite insospettata). Dall’infanzia berlinese il fanciullo vagante si sorprende di fronte alla miriade di dettagli che si imprimono in una coscienza vigile, malinconica: il cortile è divenuto città, la città mondo. I particolari nitidi si stagliano attraverso Mosca, Marsiglia, Napoli con quella prossimità e quella distanza che si riconosce l’inverno nei paesaggi coperti dalla neve, in cui tutto è nascosto ma è al tempo stesso più definito, disegnato; una realtà incantata come nei globi di vetro in cui la neve cade su un paesaggio, che pare fossero tra gli oggetti preferiti da Benjamin. In un sogno tra l’11 e il 12 ottobre 1939 Benjamin si vuole appoggiare a giacigli coperti di «muschio e edera», procedendo in un paesaggio a metà tra foresta e costruzione nautica, fino all’incontro con una donna bellissima sdraiata su un letto, che dopo la sua frase «Si trattava di trasformare in fazzoletto una poesia», scosta parsimoniosamente e improvvisamente la coperta che la avvolge, non per mostrare il suo corpo, ma il disegno del lenzuolo e le sue immagini[9]. Il sogno e la morte sono certo elementi limite di questo discorso, e del cinema, rischio di esiti tautologici, ma anche possibilità di alludere a un’arte, quella cinematografica ad esempio, che fa dei propri elementi sostanziali, del proprio senso, e quindi del senso, la stoffa dell’opera. Sguardo del sogno, sguardo della morte. In sogno appare la figura salvifica.

 

Palast der Republik

Palast der Republik, Berlino, agosto 2008

 

 

Verde edera sul muro dalla finestra (aus dem Fenster)

 

L’immagine non è solo inseparabile da un prima e un dopo che le sono propri,

che non si confondono con le immagini precedenti e seguenti,

ma oscilla d’altra parte in un passato e un futuro

di cui il presente è soltanto un limite estremo, mai dato.[10]

 

Berlino, 12 luglio 2010

 

finestraFinestra aperta su muro ricoperto

di edera, Berlino, luglio 2010

Benjamin resta quindi guida o suggestione di queste poche frasi, senza enfatizzare il rapporto benjaminiano con una temporalità, con il prima e il poi, che in qualche modo ispira queste parole, quello sguardo dell’angelo rivolto verso un passato, uno sguardo di attesa rovinosa di cui la città ancora una volta, Berlino in particolare, diviene rappresentazione tra utopia e distruzione, tra futuro dell’umanità e promesse dell’infanzia individuale. Le città in globi di vetro, i dagherrotipi o ancora lo sguardo della o dalla finestra riportano a una trans-parenza, una messa in quadro che rende visibile e nell’esclusione dallo o dello sguardo tanto nello spazio che nel tempo crea quell’invisibile cui cerco di fare riferimento. Questo l’elemento sostanziale allo sguardo, abisso dell’istante o del fuori campo che ci riporta ai «cristalli di tempo»[11] in cui Deleuze da Cuore di vetro di Herzog passa a Specchio di Tarkovskij, che costituirebbe «un cristallo girevole, a due facce se lo si riporta al personaggio adulto invisibile (sua madre, sua moglie), a quattro facce se lo si rapporta alle due coppie visibili (sua madre e il bambino che egli è stato, sua moglie e il bambino che egli ha)».[12] Il legame con alcune immagini riportate dalla memoria individuale di Benjamin qui risulta suggestivo. Del resto la linea, o meglio il concatenamento – sfera di cristallo con neve che cade – dagherrotipo - specchio o specchi – impone quantomeno la qualificazione di uno sguardo cinematografico sul reale; rovesciando il discorso, evitando così di dichiarare che il dagherrotipo o la palla di vetro con la neve che scende sono «cinema» per il particolare rapporto intrattenuto tra immagine «in quadro» e tempo, possiamo riferirci alle stesse parole di Tarkovskij per oltrepassare i limiti di una visione «inquadrata»: «Come si avverte il tempo dell’inquadratura? Esso diventa avvertibile là dove, aldilà di ciò che accade, si sente una verità particolarmente significativa: quando si percepisce del tutto chiaramente che quel che si vede nell’inquadratura non si esaurisce nella sua raffigurazione visiva, ma allude soltanto a qualcosa che si estende all’infinito al di fuori dell’inquadratura, allude alla vita».[13]

 

 

 

Gin tonic (dell’immanenza)

 

Insomma il ritmo del film viene determinato non dalla lunghezza dei brani montati,

bensì dal grado di tensione del tempo che scorre all’interno di essi.[14]

 

Berlino, 15 luglio 2010

 

Notte. Cocktail. Con Daniel, Flavio e Sophie, difendo il concetto di «peccato». Iniziata come boutade la mia difesa prosegue, si ostina, non semplicemente per un amore del contraddittorio che ho da tempo moderato, c’è qualcos’altro. La tesi che il peccato dia senso ad azioni ed esperienze, un senso, per così dire ulteriore, anche o proprio nel suo tradimento, mi rendo conto è debole e rischia di ridursi a un facile luogo comune. Io stesso non capisco questa resistenza, ma mi pare contesti una eccessiva semplificazione dell’idea di libertà o autonomia, percepita più come annullamento che come superamento dei valori (trasvalutazione). Come rifletterò il giorno seguente, ci sono modalità di essere «al di sopra» in apparenza simili: differenti tipologie di superficialità come «superiorità». Quindi alla domanda diretta se su di me agiva l’idea di peccato, non ho potuto che essere affermativo e spingermi fino a dire che mi ritenevo «peccatore». Il senso pieno di questa presa di posizione mi si è rivelato il giorno successivo rivedendo Sacrificio di Tarkovskij (cinema Arsenal, Institut für Film und Video Kunst, Potsdamer Strasse 2); essa non era rivolta al concetto specifico, bensì a un atteggiamento di fronte al mondo, ove si possono sempre riconoscere «classi produttrici» di senso, che sono, per meglio dire i gruppi o le monadi di reietti della storia, i poveri, i lavoratori, gli abusati, i «mancanti», coloro che creano differenza e in ciò producono trovando di fronte coloro che possono annullare, vanificare, ma non superare, trasvalutare, questo patrimonio di produzione, poietico, culturale, che è invece promessa del loro riscatto. Mi scopro per la prima volta hegeliano nel rileggere questo pensiero che non voleva se non marginalmente rispolverare un pensiero dialettico. L’intento principale era di andare oltre una semplice idea di montaggio come accostamento, verso un montaggio di passaggi, un piano sequenza della città in cui il pulsare del tempo si cristallizzasse un po’ come nel dagherrotipo di poco fa. «Io respingo il cosiddetto “cinema di montaggio” e i suoi principi perché essi non permettono al film di prolungarsi oltre i confini dello schermo, ossia non permettono allo spettatore di innestare la propria esperienza personale su ciò che appare di fronte a lui nel film».[15] Ed è proprio sull’idea di quadro, necessaria per definire una visione, e il rapporto con ciò che non è visibile nel quadro, su cui ho puntato l’attenzione. Se filmicamente il discorso che stiamo abbozzando ha trovato una sua possibile soluzione, o declinazione, in Sokurov, e in un suo particolare modo di intrattenersi con il tempo, sia per un aggancio tematico che per simmetria retorica riprenderei l’accenno alla lettera di Benjamin al principio di questo scritto (Lo sguardo di Salles pure è un’introduzione alle opere d’arte esposte al Louvre), facendo riferimento all’Arca russa.[16] Il mio scopo è affermare come quanto emerge ancora e sempre in questo cinema sia l’attesa, l’attesa del presente, ovvero, per esprimermi diversamente e rischiando di essere didattico, l’epifania di immagini si dà con tale forza proprio perché in esse è più evidente la loro scomparsa (per questo assumiamo qui il dagherrotipo di Daguerre come cifra di questo sguardo cinematografico e pittorico, sguardo cieco, in analogia allo sguardo interiore e a quello del sogno). Ancora, per dire proprio tutto (o quasi) noi possiamo rivivere l’intensità onirica dell’esperienza – che è poi l’intensità della nostra vita, di fatto da noi sognata – nel cinema in quanto ci rivela il meccanismo stesso del nostro essere al mondo.[17] In una battuta, l’ultima: noi attendiamo nella visione – ed il cinema in particolare rende chiaro ciò – il presente che ci è sempre negato, che, letteralmente noi non vediamo. Il cinema ci rivela l’assenza, ovvero la nostra essenziale, inesistenza, non lasciandoci come possibilità – e in parte a differenza di altre arti, accompagnandoci in questo - che il rifugio dello sguardo, come prospettiva allargata, oltre il quadro, un oltre non propriamente metafisico. Quando quindi Tarkovskij richiama a una chiarezza del cinema – «Per sua stessa natura il cinema è tenuto a rivelare e non a occultare la realtà (tra parentesi, i sogni più interessanti e più spaventosi sono quelli dei quali si ricorda tutto, fino ai più minuti dettagli)»[18] –, per esempio, pur riferendosi ad aspetti prevalentemente formali, non contraddice, anzi enfatizza la peculiarità dell’arte come intensificatore di esistenza in quanto agente selettivo: la poesia ci presenta una realtà più convincente di quella della nostra esperienza proprio in virtù di un processo selettivo. In questa direzione posso sicuramente ricordare i riferimenti di Tarkovskij agli haiku giapponesi.[19] Sogno e cecità, visione interiore, cecità della monade, ci dicono qualcosa del nostro essere in-visibile nel mondo. Il tempo kronos del cinema enfatizza il rapporto con il kairos in alcuni autori, ma non vorrei risolvere o semplificare la questione del montaggio con il riferimento a «tempi» differenti. L’immagine, l’icona, non porta mai il senso in sé; l’immagine nella sua dimensione eidetica è attesa della parola, che qui ancora manca (verbo, parola originaria, parola piena, soffio). Mi soccorre nel tempo apocalittico, forse unico presente possibile (il tempo del giudizio di Agamben-Daguerre), il «mal bianco» di Saramago, una cecità bianca che si diffonde a partire da un primo «cieco», di cui l’autore sorridendo ad un tratto dice: «Quella notte il cieco sognò di essere cieco»[20]. Riecheggiano le parole del postino Otto in Sacrificio: «Siamo ciechi, non vediamo nulla», dopo aver narrato il suo singolare collezionismo e poco prima di accasciarsi al suolo «sfiorato dalle ali dell’angelo». E poco prima che si annunci la fine. E del dialogo di Maria e Alexander nel bosco. La cecità anche in Saramago va resa silenziosa e quindi i ciechi «che vedono bianco» vengono rinchiusi via via in un ex manicomio, marginalità del linguaggio come alla fine per Alexander in Sacrificio (muto per sacrificio). Anche in quel caso, come in Cecità, una singola donna salva il mondo – la strega Maria – offrendo quello scarto del linguaggio che permette di cambiare quel mondo, compito che l’arte oggi per lo più dimentica adeguandosi alla società manicomiale dell’occidente globale: «La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, È arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì».[21]

 

Tarkovskij

Tarkovskij, Sacrificio, Alexander con Maria



[1] Sul paragone tra l’arte culinaria e l’Arte, vedi W. Benjamin, Una lettera su «Lo sguardo» di Georges Salles, in Opere complete, vol. VII, Torino 2006, p.479.

[2] W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007, p. 17.

[3] G. Agamben, Il Giorno del Giudizio, Nottetempo, Roma 2004, p. 5.

[4] Il riferimento alla monadologia leibniziana vale solo a forzare il discorso al di là di una forma o linguaggio artistico (una tecnica), per enfatizzare il pensiero e il senso (le facoltà spirituali) che muove taluni.

[5] W. Benjamin, Daguerre e i panorami. Baudelaire e Parigi, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 148.

[6] M. Canevacci, La città polifonica. Saggio sull'antropologia della comunicazione urbana, Seam, Roma 1997.

[7] Come si apprende dalla biografia, oltre alla personale afflizione per incomprensioni e scarso riconoscimento, dobbiamo ricordare come significativo il rifiuto de L’origine del dramma barocco tedesco per l’abilitazione all’insegnamento universitario da parte di Cornelius (e dell’assistente Horkheimer!) con la motivazione: «incomprensibile modo d’esprimersi, che deve venire senz’altro interpretato come segno di una oggettiva mancanza di chiarezza, non può rappresentare una guida per gli studenti in questo ambito».

[8] W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento [Ultima redazione (1938)], in Opere complete, vol. VII, Einaudi, Torino 2006, p.18.

[9] W. Benjamin, Sogno dell’11-12 ottobre 1939, in Opere complete, vol. VII, Einaudi, Torino 2006, p. 465.

[10] G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 51.

[11] Ivi, p. 82.

[12] Ibidem.

[13] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p. 111.

[14] Ivi, p. 110.

[15] Ivi, p. 111.

[16] Il film di Sokurov ambientato come noto all’Hermitage, è una sorta di apoteosi dello sguardo nel senso affine a quello di Salles, a proposito di cui Benjamin scriveva, avvicinandolo a Proust: “L’azione del tempo, a proposito, mi sembra operi su un duplice piano, sul piano spirituale quanto su quello materiale …” (W. Benjamin, Una lettera su «Lo sguardo» di Georges Salles, cit., p.480).

[17] Cfr. Deleuze, op. cit. su Bergson e Proust.

[18] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, cit., p. 68

[19] Ivi, p. 111; Tarkovskij cita gli haiku riportati da Ejzenštejn.

[20] J. Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996, p. 17

[21] Ivi, p. 315

 

 

 

 
 

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