LA VOCE FOLLE DI W. H.
di MAURIZIO INCHINGOLI
Werner Herzog. Incontri alla fine Del mondo.
Conversazioni tra cinema e vita,
a cura di Paul Cronin, edizione italiana a cura di
Francesco Cattaneo
(Minimum Fax, Roma 2009)
Questa pubblicazione non è solo una raccolta di pagine
qualsiasi. Queste pagine trasudano vita, esperienza sul campo, un incredibile e
vitale modo di vedere-fare il mondo, attraverso l'uso pratico dell'intelletto,
della forza fisica, della materia che si lascia plasmare da mani esperte, da
arti che hanno cominciato a muoversi già nel feto di una donna, che racchiude
in una sacca amniotica la prorompente aura divina della creazione dell'uomo nel
senso più nobile e leonardesco del
termine. Quando ci si imbatte in queste pagine fatte di parole mai lasciate al
caso, in questo libro-intervista che si illumina di luce propria, si ha la
netta sensazione di star leggendo finalmente quello che non è più solo un
panegirico critico nei confronti del regista di turno. Si ha, invece, la
certezza e la sensazione viva di leggere, finalmente, attraverso le più ardite
esperienze-esperimenti nel campo umano, delle imprese di un filmmaker che prima
di tutto è un uomo dalle mille potenzialità, primitivo e moderno al tempo
stesso, conscio di essere un corpo che si muove tra le insidie di una foresta,
vera o metropolitana che sia poco conta, e che, con l'ausilio dei pochi mezzi a
disposizione, di un ingegno innato, e di un manipolo di validi collaboratori,
mette su, costruisce letteralmente un set, una situazione filmica, un
immaginario, un mondo, come un provetto esploratore che ha un'idea precisa:
quella di portare a termine, costi quel che costi, la sua missione. Che abbiamo
la fortuna di scoprire grazie alla lunga intervista di Paul Cronin, tradotta
per l’edizione italiana grazie al lavoro attento di Francesco Cattaneo, che
integra la prima versione del libro con un’appendice critica sull’opera recente
di Herzog, la quale fa da convincente corollario all’ultima, fertile fase di
impronta cine-documentaristica del regista nato a Monaco di Baviera.
Il cinema, quindi, non soltanto come opera filmica da
analizzare attraverso le sole immagini, ma anche come reperto fisico, prova
oggettiva narrata, e oggetto della disamina che si pone come pietra di paragone
tra l'oggetto filmico stesso e lo spettatore. Qui sta l'operazione tutta
materica e artigianale delle opere di Werner Herzog. Il regista bavarese ci
racconta del rapporto con i suoi attori, dei conflitti nati ed alimentati sul
set, ad esempio col suo presunto alter ego Klaus Kinski, della mole di lavoro e
delle leggende che nascono durante la lavorazione di Fitzcarraldo (1982). Le difficoltà di portare avanti un progetto a
tutti i costi, tutte di fatto legate alla fattura del film, come fosse una
lotta per la sopravvivenza. Herzog ci tiene a sottolineare come le sue opere si
siano sempre fatte con pochi mezzi economico, compiute nel rischio economico,
con somme di denaro tutto sommato modeste rispetto alle mega-produzioni
hollywoodiane ed europee coeve. L'oggetto filmico che viene infine plasmato,
forgiato e ri(de)finito come fosse un’opera d'arte fatta a mano, intagliata
finemente, è lo scopo finale. Come trucioli da buttare via, i metri di
pellicola tagliati in sede di montaggio stanno a indicare come il risultato
finale sia l'unica missione per Herzog. L'unico vero obiettivo, l'uscita nei cinema,
orgoglioso delle sue creature, a fianco dei suoi più stretti collaboratori,
sempre a lottare strenuamente per esse. Che a volte c’investono come bagliori
che si accendono improvvisamente, in un vulcanico pensamento che davvero fa di
quest'uomo un esempio di prisma che riflette ed emette luce da tutti i lati, assorbe
ed elabora idee su idee, a partire anche dalla più banale considerazione, sia
essa una storia privata, sia essa una storia collettiva.
A questo proposito, ad innestarsi nel lavoro di fiction,
in questo albero immaginario della memoria filmica, stanno tutti i suoi lavori documentari, che non si spostano dai suoi intendimenti di lucido
cineasta, e rimangono attaccati ad una concezione di realtà che sembra, solo a
prima vista, mediata dall’idea di portare su un piano più alto un discorso che,
invece, deve e vuole rappresentare la realtà stessa per quella che è, assurda e selvaggia al tempo stesso. Il documentario per
immagini come protesi ideale da inserire nella memoria, e come compendio per i
suoi lavori di immagin-azione, risulta
perciò come il più vivido esempio di oggetto della disamina herzoghiana delle
dinamiche e della forza dell'uomo sulla terra, del suo tentativo di filmare la
realtà, alterandola con cognizione di causa, per cogliere le contraddizioni che
albergano in un essere umano alle prese con situazioni tutt'altro che semplici.
Il cinema geografico e aggrappato ai luoghi di Herzog, come un atlante della
memoria che deve essere sfogliato pagina dopo pagina ogni qualvolta si vuole
ritornare alla centralità dell'uomo, a quella totalizzante voglia di ca(r)pire
il fenomeno, trae una profonda ispirazione, riprende e rafforza tutto il
curioso e primitivo lavoro sul campo di un genio come Roberto Rossellini, del
quale, in tal senso, Herzog rappresenta la naturale, moderna evoluzione, solo
con quella voglia matta di stupire in più, con quell'atteggiamento così
aggressivo, diremmo quasi distruttivo, di scardinare l'immagine, mettere in scena ed immortalare su
pellicola una o più storie lavorando dal fresco, usando soprattutto locations
non sottoposte a modifiche scenografica, potenziando alchemicamente l'idea. Un
regista che esplora fisicamente i luoghi, che è fiero di consumare il suo
fisico, sempre pronto a mettere la propria faccia e le sue membra a
disposizione di un obiettivo o di un suo amico (si veda storia di amicizia con
l'amato cine-documentarista statunitense Errol Morris poi immortalata nel film
di Les Blank Werner Herzog Eats His Shoe, del 1980). A questo proposito, tra le tante questioni affrontate
nell’intervista, lascia quasi senza fiato, e ci pone una nuova chiave di
lettura, la sua idiosincrasia nei confronti del cosiddetto cinéma vérité, con le sue dichiarazioni tranchant, anticipate nel provocatorio manifesto soprannominato Dichiarazione del Minnesota, risalente
al 30 aprile 1999, e pubblicate a postilla del libro. Qui egli ridimensiona,
quasi a volerci metter su una pietra tombale, il lavoro di registi come Frederick
Wiseman, D.A. Pennebaker, e Jean Rouch, svolto attraverso cineprese leggere e
proteso a un’indagine dal di dentro della realtà.
[1]
Herzog segna un solco linguistico che lascia un’evidente
traccia su una terra da ri-lavorare, ne delimita i confini e, provocatoriamente,
scarta ogni possibile prova autoriale che non sia alterazione della realtà, con quel fare bambino gelosamente custodito nella sua ardente idea di uomo
e di regista, e riservato a tutti
gli interessati alla materia in quel manifesto programmatico che è racchiuso con
vigore nelle sue opere, così vive e pulsanti da far imbestialire quasi gli
addetti ai lavori che temono e si tengono a distanza dallo scarto e dall’abisso
in esse contenuto. Dimenticando che di registi come quello bavarese dovremmo
apprezzare in primis l'onestà e la capacità di mettersi sempre e comunque in
discussione, anche a costo di sembrare utopico e fuori fuoco, fuori dalle
regole prestabilite del cinema convenzionale. Mai come ora sembra che il suo
lavoro si nutra di quella in-sana e polisemica voglia di superare i confini prestabiliti dalla grammatica
cinematografica ufficiale.
…puoi contrastare una voce solo con una voce ancora più
folle (p. 82).