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IN MEZZO AL GUADO

 

Un diario bruciato, le scintille, e quello che n’è rimasto

da Il vento del cinema '09

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

A Procida

 

La bellezza non è una cosa nella quale si possa penetrare immediatamente.

O meglio, e più precisamente, ci si può penetrare anche subito, ma dopo esserci

rimasti accanto per un po', e dopo che nell'animo i vari elementi assimilati

progressivamente si sono composti insieme in maniera organica.

 

Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi

 

 

Quando un'onda ti riporta su questa sponda, ti viene in mente di essere come Ulisse che approda felice in un eden nascosto dietro l'angolo. Con l'odore del mare e la bellezza celata, elegante ed accigliata dell'isola di Procida.

In mezzo a questo guado stanno le visioni della nuova edizione de "Il vento del cinema '09", in mezzo a tutto ciò stanno le rushes finali, le frattaglie chirurgiche di un  percorso che si fa tortuoso ed imprevedibile. (Non) ti immagini che potrai perderti nel flusso continuo di frames aurali che avevi programmato di vedere/subire. Il fisico si mette in mezzo a tutto ciò, la mente ti obbliga a scegliere un percorso, una traccia da seguire, persa nelle numerose scie di un solco che si fa via via sempre più complicato da decifrare.

In questo percorso, e in questo decorso, ci siamo imbattuti nel cinema di Vìctor Erice, di cui abbiamo visto quasi tutta l'opera, ma ci è mancato di assistere alla proiezione di El Espiritu De La Colmena (1973) sulla nave. Confessiamo che non ce la siamo sentita, eravamo affamati e stanchi, le ginocchia facevano una gran fatica a rimanere piegate, le giunture erano atrofizzate da un intero pomeriggio passato a sprofondare nelle immagini parallele di numerose e vitali opere filmiche che passavano sullo schermo del piccolo Procida Hall.

Continuiamo a random, in questo mulinello acqueo spazio-temporale, il nostro viaggio intrapreso un giorno di cui non ricorderemo mai la data. Non sappiamo quando l'immagine ci ha rapiti, forse è stato nel preciso momento che abbiamo aperto gli occhi subito dopo essere venuti al mondo, nell'attimo in-cosciente di presa di coscienza di assistere al personale film della nostra vita. Sono queste le forti sensazioni che (es)si vivono, scoprono, quando si assiste, tramortiti quasi dall'opera di Erice, alla splendida re-visione in pellicola di quel capolavoro incompiuto dell'anima, El Sur (1983), che ancora una volta ci cattura, ci fa prigionieri di una storia che adoriamo, di un ménage che rimane in sospeso tra la realtà ed un trasalimento tutto interiore; una storia privata e collettiva allo stesso tempo, l'incomunicabilità, la paranoia di un passato lontano ed ingombrante che si fa fatica a nascondere, con un Omero Antonutti che, mostruoso rabdomante, si muove silenziosamente tra i cocci del suo passato. E la figura di Icìar Bollaìn che angelica chiede di svelare quel velo di paura che aleggia sopra i corpi. Un film misterioso, una nave che affonda e fa acqua da tutte le parti, un titanic in forma d'ologramma intimo e infelice. Un capolavoro mancato, il sublime passo falso di Erice, complice una produzione che taglia di netto i giorni di lavorazione della pellicola e riduce l'opera a monca e malata figura quasi caravaggesca. Con quel buio, quelle luci, che sembrano gridare aiuto. Una luce che vede la nascita in Alumbramiento (2002) – episodico lavoro contenuto in quel progetto collettivo, Ten Minutes Older: The Trumpet (2002), presentato al Festival di Cannes – e nella quale sembra di intravedere uno spiraglio di salvezza, enucleato in un corpo che vede la vita per la prima volta, circondato dal calore materno e familiare. Una piccola torcia umana che serve a ribadire la necessità ciclica della vita. Che insegue una passione bambina nel bel documentario delle ossessioni giovanili dal titolo La Morte Rouge (Soliloquio, 2006), oscuro viaggio nei ricordi cinematografici infantili di Erice che spiega con fare trasognato ma lucido tutte le sue paure e le sue fisime legate a vecchie pellicole dell'orrore che lo hanno segnato indelebilmente sin da bambino. Il ricordo vivido di The Scarlet Claw (1944) di Roy William Neil lo scuote e lo accompagna in un vortice di emozioni legate al passato remoto del cinema, quando questo era pregnante spiraglio e passaggio nel linguaggio primitivo di una società ancora non completamente conscia della propria modernità, che lottava contro di essa e viveva sulla propria pelle tutte le coercizioni del regime franchista. Passato questo tempo della memoria, un regista adulto rende omaggio agli effetti del cambiamento e della modernità filmando in Apuntes 1990-2003 (2003) le fasi preliminari del lavoro dell'artista Antonio Lòpez, impelagato nella utopica rappresentazione di una Madrid trasfigurata e protesa verso uno sviluppo architettonico apparentemente lineare, un modo di dare un ordine a questo caos predefinito che sa tanto di donchisciottesca visione di morte. Preludio al film-capolavoro di Vìctor Erice, quel El Sol Del Membrillo (1992) che tanto aspettavamo di ri-vedere, dopo una prolungata fase di immersione nella quale si intravede una speranzosa e disperante voglia di fermare il tempo. Una in-utile corsa contro il tempo stesso, a cercare di immortalare su tela un elemento naturale caduco come sa essere solo un albero di melo cotogno, cresciuto nel giardino cittadino di Lòpez, che imperterrito cerca in tutti i modi di dipingere, con un assiduo lavoro di messa in opera, ancora, di una utopia –la pianta che vive e invecchia, e perde le sue foglie – nella quale maturano i frutti, e che si agita e cambia posizione, come la terra che gira attorno all'uomo. Un tempo galileiano che sembra non finire mai, e col sorriso dell'artista che continua assillante il suo lavoro incompiuto. Una pellicola davvero mortale, tristemente attaccata alla vita, semplice coacervo di elementi che si disperdono con l'inevitabile passare del tempo. Il cinema di Erice come una spirale organica di nozioni e idee che si perdono strada facendo, ma che non abbandonano mai l'idea della futile bellezza del mondo.

Come una ghirlanda, attorno a questo cerchio, il lavoro di Alberto Morais, che con Un Lugar En El Cine (2007) cerca in tutti i modi di cristallizzare più momenti legati al passato del cinema degli amatissimi Pasolini, Angelopoulos, lo stesso Erice, e apprende le testimonianze di Nico Naldini, Ninetto Davoli e Tonino Guerra sulla vera natura del cinema che si fa poesia, storia, società, sogno. Un sincero omaggio alle locations, alle atmosfere che hanno caratterizzato il lavoro di cineasti della mente, che avevano una sincera propensione all'umanesimo dell'uomo ed alla sua centralità sulla terra. Un cinema allo stesso tempo terrigno, il loro, e un luogo psichico che si fa materia.

Materia che scompare nel piccolo La Tana (1967) di Luigi di Gianni, splendido ottantenne che ricorda con il pubblico i suoi progetti passati, soprattutto quelli mancati, in particolare Il Castello tratto da Kafka per la Rai, e del quale apprezziamo la sincera trasposizione in immagine di un'idea, solo quella, e nella quale si ritrovano tutti i difetti e i pregi di un lavoro misconosciuto e quasi artigianale. La Tana come scrigno polveroso adatto ad un pubblico che non c'è più, con le musiche atmosferiche e berghiane di Vittorio Gelmetti, un lavoro che palesa drammaticamente il tempo perduto-passato ma che non possiamo non rispettare, nella convinzione che altri sono i lidi che Di Gianni stesso ha frequentato meglio e con più efficacia, pensiamo ai primi, oscuri lavori di stampo antropologico nati in collaborazione con Ernesto de Martino come Magia Lucana (1958) e Nascita E Morte Nel Meridione (San Cataldo) (1958). Avremmo voluto poi accedere anche al mondo spettrale de Il Tempo Dell'Inizio (1974), ma ahinoi, il tempo è stato ancora una volta dolcemente tiranno.

À rebours, uno splendido, fantasmatico lavoro di Serge Bromberg e Ruxandra Medrea, L'Enfer De Henri-Georges Clouzot (2009), incentrato su uno dei film maudit per eccellenza, L'Enfer (1964) del cineasta transalpino appunto, sulfureo lavoro rimasto segreto per anni, scolpito nella memoria inconscia di tanti cinéphile appassionati che hanno visto in questo grande capolavoro mancato una sorta di immaginaria e farsesca opera di distruzione del rapporto uomo-donna, un inferno colorato e paranoico che si incunea in un anfratto della memoria davvero junghiano, con un rapporto irrisolto, carnale, disgustoso quasi tra una splendida Romy Schneider ed un inquieto Serge Reggiani, condotto da un maestro burattinaio come Clouzot che sublima in questo inseguimento dei corpi tutte le proprie paure e ansie. Un lavoro, questo, che va a scavare nel profondo degli abissi del cinema, e che come in apnea ci toglie il fiato e ci tiene sott'acqua costretti a vedere una sirena che gioca capricciosa con i sentimenti. L'uomo prende troppo sul serio questo play at work, e la donna lo conduce nella distruzione dell'oggetto, l'uomo stesso, che non può far altro che soccombere e provare una tremenda sensazione di nausea, come quella che si assorbe vedendo questo piccolo gioiello nascosto.

Là, dove i corpi si fanno pensiero, qui, in Facs Of Life (2009), è la parola che si fa materia. Un omaggio godardiano all'ennesima potenza alle lezioni di Vincennes tenute da monsieur Gilles Deleuze, mente-corpo che si fa prospettica profondità nel significante mondo della cultura post-sessantottina, anarchica e solitaria prova di forza di un uomo che tiene le sue lezioni per un numero spropositato di esseri umani che assistono stoici, stipati, quasi paralizzati in questo maelstrom di concettuale farsi del pensiero. Il lavoro liquido, quasi sokuroviano, di Silvia Maglioni e Graeme Thomson è un foglio ruvido che si ispessisce e diventa tela per la parola, attaccato al muro della memoria, accompagnato dalle textures polimorfe delle musiche di gente come Masami Akita a.k.a. Merzbow, con quel suo incedere da suono sordo del dopo-bomba, e dalle spazzole stridenti della piccola batteria di Seijiro Murayama, presente in prima persona in quel non-luogo parigino a musicare un concetto, quello della vita dei collaboratori di Deleuze, in una logica sensoriale assolutamente viva, pulsante. Pulsazioni che si avvertono appena accennate, ma comunque affascinanti, anche nel lavoro di Graziano Staino, Water Shed (2009), con quelle immagini palindrome, oscure ed opalescenti, con gli amniotici arpeggi di chitarra di Alessandro Stefana che ricordano tanto le atmosfere lynchane di Twin Peaks che sembrano sbattere la testa contro le tessiture armoniche di un drogato Ry Cooder. Meno interessante un suo videoclip per un fantomatico gruppo musicale italiano di cui ci dimentichiamo presto il nome.

E come non ricordare l'omaggio dei presenti Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi che ci propongono una delle perle meglio nascoste del cinema italiano, Ti regalerò Il mio ultimo respiro (2009)? Una manciata di minuti che immortalano un vivissimo Walter Chiari sul finire della propria vita, che sardonico parla davanti a una telecamera e racconta di un'operazione subita alle corde vocali e che rimane uno dei momenti più intensi di questo piccolo-grande festival delle anime perse, che vagheggiano un'utopia che mai sarà tale. La materia di cui si ciba il piccolo gioiello appena visto è pura invenzione filmica della quale non possiamo fare a meno, come del lavoro stesso della coppia italo-armena, che ci propone anche un erotico documentario intitolato Essence d'Absinthe (1981), nella quale ci perdiamo rapiti, e consci di aver subito per sempre il fascino della carne.

Carne che non si vede, ma che si percepisce nelle mani che scartano, letteralmente, i biscotti della fortuna, nel piccolo Fortune Cookie (2009) dell'amato Amir Naderi, cortometraggio mini che si fa pura, anfetaminica operetta dell'ossessione, del ripetersi del gesto, come le parole mute di Naderi, sparate a mille verso un baratro che intravediamo di nascosto.

Come nascosta, dall'aldilà, sembra divenire la voce da rancoroso cane da guardia di Jean-Marie Straub che legge un passo da Jean Jacques Rousseau, o quella filmata da Tonino de Bernardi che ironicamente ondivaga tra i suoi ricordi, i progetti mancati, il viaggio in India, le magnifiche sceneggiature incompiute, in una dimensione privata che ci acceca e dalla quale ci teniamo a debita distanza di sicurezza.

E poi a braccio, armato, gli interventi al calor bianco di Massimo Donà, quello sornione di Antonio Gnoli, e Marino Niola che riflette chiaro e conciso sul naufragio del cinema di Francis Ford Coppola, nella citazione di Joseph Conrad e di James G. Frazer, sorretto da quel ramo d'oro che rimane magicamente come ultimo segno della naturalità delle cose, prima di soccombere, prima di gettare a mare la propria dignità di uomo.

Ai lati di tutto questo ci sta il festival mancato. Le opere di Raoul Ruiz e di Valeria Sarmiento, di cui abbiamo visto solo un paio di minuti di Secretos (2008) prima di soccombere per la stanchezza, e poi Aurélia Georges, Andrzej Wajda, Artavadz Pelesjan, F.W. Murnau, Mark Robson; ma anche Tetsuo: The Bullet Man (2009) di Shinya Tsukamoto, Mulberry St. (2009) di Abel Ferrara, in una cascata di immagini che ci avrebbe travolti definitivamente e che abbiamo voluto credere di aver perso solo per cause di forza maggiore. Quella di assistere ad un festival incompiuto, mancato, nel vero senso della parola; quindi la missione è (in)compiuta, l'approdo e la partenza sono stati effettuati. È il viaggio che conta, non la meta. Quello non è mancato, è invece sembrato la massima risultante di più parti speculari, in un sincretismo che ci fa sorridere, anche al solo pensiero di aver perso La Maison Nucingen (2008) e Agathopedia (2008) di Ruiz, che sapevamo essere forse le pietre di paragone per un cinema che, forse, non esiste più...

Durante il viaggio verso Napoli ci siamo imbattuti per pura coincidenza, o forse solo perchè attratti da questa calamita sognante-vivente, in una lettura che ci aspettava sulla scrivania da un po' di tempo. I pensieri e i gesti di un mirabile maestro come Pavel A. Florenskij non ci hanno mai abbandonato, anzi, ci hanno esortato a sopravvivere con forza d'animo e discreta dignità la nostra condizione di solitudine anelata, ma mai veramente voluta del tutto. Un fantasma ci ha accompagnato nel veloce farsi delle rotaie, nei pensieri che si accavallano confusi e con la quale conviviamo a forza; un disperante senso di vuoto ha abbandonato la nave quando abbiamo letto alcune parole, scritte alla cara figlia Olja, che non dimenticheremo mai.

 

Inoltre, come ti ho già scritto, bisogna lottare contro l'avidità e il desiderio di crescere forzatamente,

contro le leggi interne della crescita. Tutto verrà a suo tempo e tutto sarà completo se maturerà

a poco a poco e serenamente. Non metterti a fare tutte le cose insieme, altrimenti non otterrai niente.

Lascia che i concetti si formino gradatamente in te: solo a queste condizioni i cristalli crescono trasparenti.

A che ti servono tante cose, se sono torbide e brutte? È meglio che siano poche, ma veramente valide.

 

Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi

 

E ancora, ad infinitum, tutto quello che c'è stato e che mai (non) sarà...

 

 

 

 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -