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LIBERATE I PADRI, E I BAMBINI
BRUCIATI
di MARGHERITA PALAZZO
Mostra del Cinema di Venezia 2008
Su
Venezia, isola al luccichio di calici e promesse, si abbattono le onde lunghe
di una fantascienza malinconica, che eroderanno i resti delle feste e del cattivo
cibo da turisti. Per la Mostra, per la laguna che ora si immagina risprofondata
nell’umidità congeniale ad ogni esiliato, si aggirano ritornanti di un nuovo
tipo: padri presi in prestito per il tempo di una battuta, e poi padri orfani,
destinati a vivere sempre un secondo in più dei loro figli. Che nel frattempo
sono stati offesi, presi in scacco, hanno fatto esperienza di mille suicidi
mancati o andati a segno, hanno giocato epilettici nella neve, raccogliendo
nell’orecchio destro il suono preciso di come respira un’asina quando agonizza,
indossando camicie sgargianti mutate all’improvviso in cappucci da homeless, sono stati vicini a farsi
crocifiggere in abito da steward di lusso, vittime di ustioni in colossali
incendi tutti invisibili all’esterno. In quel minuscolo campo di concentramento
personale che è l’esperienza di sé, in quei grandi campi da bestiame che sono
egualmente i terreni arsi del Brasile e i sobborghi parigini, le baracche
californiane e la vangate di follia alla ricerca del tesoro di Vegas, le
macerie algerine da elettrificare e i piccoli balconi giapponesi, o i cieli
animati: tutti deserti, quest’anno: popolati da una disperazione di lingue
diverse che si abbattono l’una contro l’altra a disegnare un vasto continente
immaginario — di film vissuti sulla scorta di viaggi impraticabili,
coproduzioni impensate, una condensa di lingue che non cercano la sintesi e
preferiscono nascere e morire nei suoni che le generano — ma che, pure,
trova la sua raffigurazione universale e più completa nella Melancholia di Lav Diaz (2008), l’infinite
jest di Venezia,
dove l’unico, il padre geniale, è assente e impossibile: le sette ore decisive
che condensano tutte le altre, vissute e non (ancora) vissute —
imprigionati in questo film non si riesce a smettere di pensare — finendo per distruggere
l’idea stessa di visione a tempo, di pellicola che si svolge, di riti di
attesa, entrata e uscita dalla sala, ridefinendo i confini dei momenti
destinati ai più elementari tra i bisogni fisiologici, esigendo l’accampamento,
un’apnea, il bivacco religioso, la sospensione di tutte le faccende che
riteniamo prioritarie, l’aderenza al ticchettare di un’alluvione planetaria. Il
vento corrompe in diretta i microfoni, galli che urlano e pioggia che batte
notte e giorno, l’uomo si traveste per superare lutti segreti: è un esercizio
per salvarsi, ma non c’è cura. Una donna, in piedi nei boschi metafisici del
poeta Lav Diaz, canta: «l’avvento del dolore rimarrà al mio fianco». Un
magnaccia ama il buio, una puttana e una suora cercano la luce: si incontrano
vestite entrambe dei loro identici paramenti neri — paralizzate di fronte
allo show del sesso da guardare, nella richiesta di essere salvate dall’inferno
della malinconia — sprazzi di luce accesa di colpo e di buio in una rappresentazione
dell’amore di precisione infinita che sembra uno spezzone al tritolo di un
vecchio Wakamatsu, rimontato tra le lacrime. È una storia che si muta di
traverso in giallo, in rivoluzione insanguinata e verità, ma che si rifiuta di
farsi portare con sé, di essere sintetizzata in un composto da portare via in
un’ampolla, a cui attingere qualche volta come rimedio per la vita… Deserti,
quindi, si diceva; e sogni in cui si muore due volte, una come padre, una come
figlio; e una moltitudine di padri di sabbia con piedi sproporzionati, desti e
vigili gli occhi, ma senza per questo poter vegliare sui figli; forse
condannati a tenere gli occhi aperti per fare a loro volta conoscenza di quanto
possa resistere un fantasma che non può andarsene. Si trovano sui serbatoi di
stazioni di servizio al neon, in prigioni spopolate, sulla Soglia di un lago
evanescente che sembra vivere solo al movimento delle fantasie inespresse di
chi lo abita — lievemente, come un uccello, come un albero. O restano
figure che non sono ancora genitrici di nulla, se non della vita stessa, si
incontrano nei cimiteri (del logos) e negli interni splendenti di luce fiamminga di Julio
Bressane (A Erva do rato, 2008) — profeta indomito della bellezza che pulsa nella carne
e oltre la carne, segnato dalla certezza che «l’arte è una tara», una magnifica
malattia genetica, una patologia erotica irrinunciabile — o cercano di
misurare il vuoto, come il topografo di Gabbla (Inland, Tariq Teguia, 2008), uno stalker che esplora gli
strati di una superficie che sfonda i margini dello schermo rettangolare e
trova, invece di calcoli, solo una donna nera cupa e bella; o come il medico,
padre soltanto di una moglie e un’amante, e dei suoi pazienti da lanciare sulla
luna nella magnifica follia azzurra che è Bumažnyj soldat (Paper Soldier, Aleksey German Jr., 2008). Sono
tutti padri di passaggio, inopportuni, che non hanno fatto in tempo a
esercitare un’autorità amorevole sulla loro stessa coscienza, evocati come
simulacri ma incapaci di assicurare pace, perfino ignari di reincarnarsi nelle
preghiere di figli combattenti; e trattenuti da lunghe prigionie nella siberia
delle pellicole non distribuite, mentre si vorrebbe liberarli, invece che
continuare a sorbire il veleno della loro solitudine come un gesto troppo privato
per poterne parlare. Due su tutti, miracoli ambulanti nella miseria
inoppugnabile del Nordeste brasiliano, in Puisque noùs sommes nés (Jean-Pierre Duret, Andrea
Santana, 2008): una poesia roca che sarebbe riduttivo definire “documentario”,
un glossario di resistenza — «Se continua così, prendo del veleno», dice
uno dei suoi piccoli mutanti, ma visto che (ormai) siamo nati, continua a desiderare di vivere
— uno è il camionista Mineiro, che approda come un astronauta dal
passato, un dio circonfuso di luce di padre salvifico, che lascia una scia di
olio motore dietro ai passi rilucenti di perdono, dispensa biciclette e
abbracci come madonna della notte, dal suo tir che significa fuga (il padre
vero, non può guidare più nulla verso il futuro, perché è morto sulla strada; e
i padri sostitutivi, che una decina di fratelli ricordano intorno a un tavolo
di famiglia, intorno alla colletta del riso e dell’acqua, erano ora alcolisti,
ora teneri, ora pazzi, comparsi e andati in un battito di ciglia) e l’altro è il
vecchio senza nome che fabbrica da solo una ziqqurat di mattoni, iniziata
all’alba, cotta nel fuoco al crepuscolo, che di sacro ha soltanto, lui, la
cesellatura delle mani spaccate: seduti accanto, il vecchio che forse non è
neppure vecchio, ma solo un fardello di fatica intorno a occhi azzurri di
dolcezza, e il bambino mostruoso, il bambino che sa già tutto, «sembrano padre
e figlio». Urgenza di un istante da conservare per sempre. Ma il simbolo di
questa confraternita di padri che hanno perso tutto, anche la facoltà di essere
distrutti, è nella faccia e nel corpo mutevoli di Anthony Wong, camaleonte non
addomesticato da Hollywood, in quel film di sensi largamente sottovalutato dalla
solita critica imbalsamata che pretende di esaurire nel “visionario” (che, va
da sé, per costoro fa rima con “confusionario”) tutto ciò che non può esaurire
con il metro dei generi riconosciuti o del trafiletto sbrigativo: Dangkou (Plastic City, Nelson Yu Lik-wai, 2008), un
altro empire dilaniante,
sospeso nella giungla in cui comincia il Brasile, oggetto recalcitrante che fa
sobbalzare e spasimare ogni nervo, spirale emotiva, conflitto spirituale tinto
nel nero delle lotte di mafia che deraglia continuamente in un’altra mappa
disgregata, opera scagliata direttamente a muso duro nell’unica possibile
resilienza dell’immagine, scritta da un brasiliano, interpretata da giapponesi
e cinesi che parlano un portoghese dolente, diretta a morsi scintillanti e
tornanti di luce da un hongkonghese, direttore della fotografia di Jia Zhang-ke,
che qui produce, e che, come regista, porta il suo contributo a questa Mostra
di padri trafitti con un corto struggente di figli, ma (troppo) cresciuti, che
si rincontrano sullo scorrere dell’acqua e dei tempi: Heshang aiqing (Cry me a river, 2008). Lontani da un
tradizionale dissidio padre-figlio, la rassegnazione ferita del padre (Yuda,
Padre di tutti perché Boss, ma di uno solo per elezione «lui non è mio padre,
ma io sono suo figlio») e il grido ferito del figlio (energia innamorata,
bellezza e fierezza svelte destinate a sporcarsi, Kirin, «perché abbiamo sempre
bisogno di un padre?») sono il corollario, il simbolo autentico di questa
Venezia paraplegica, proiettata in una guerra di fantascienza sempre più
spirituale, sempre meno bisognosa di appello a pianeti diversi da questo, che
può sputare sulla sua cartografia, e forse anche sulla storia dei libri e dei
documenti e degli archivi, per raccontare dimensioni sciamaniche in un rifugio
di stracci. Va detto con la violenza filosofica di Plastic City, o nel riflesso di occhi inquietanti di disegni di Mamoru
Oshii, che rifiutano il luccichio dei manga per fissarsi in parabola: i kildren — le eterni
deformità a due teste, di padre e di figlio di loro stessi, piloti mezzi vivi,
mezzi morti, inaffondabili — che popolano senza espressione, relegando tutta la loro
tristezza alla musica di angeli di Kenji Kawai, la sinfonia essenziale di Sukai
kurora (The
Sky Crawlers,
2008). L’ermetismo dell’immenso Oshii in conferenza stampa è una bastonata
doverosa sulle inutili ansie dei giornalisti, così come la sua risposta a un
ipotetico messaggio sulla necessità della guerra contenuto nel suo film è
semplicemente che la guerra fa parte della natura umana. Una consapevolezza che
vola sulla mostruosa Costa Azzurra di Parc (Arnaud des Pallières, 2007), così bene inserita nei
nostri tempi di noia mondana alcolica necrotizzata benestante disfatta che
l’impotenza dei suoi padri (giocatori di golf e all’occorrenza vendicatori con
motoseghe a benzina, l’oscurità in cui annegano i suoi figli, così non visti che si sentono prelevare e sparire, come dal copione di
una soap opera)
può essere corrotta soltanto da un uomo qualunque, nero umorismo, con un gesto
che appartiene ancora ad un immaginario mistico: «una crocifissione è il minimo
per svegliare il mondo». Non-muoiono i padri, non riescono ad andare via; non
muoiono neppure i figli — infine non sarà crocifisso, se non al cuore,
l’adolescente di Parc, così come resterà in vita, perfino bella, la vergine non suicida Stella (che cova nella grazia
l’eredità delle eroine di Colette e Queneau, ha un padre fragile da proteggere
e un non-padre seducente che la saluta un secondo prima che molli gli ormeggi
dall’infanzia), nella gemma esplosiva che è il film di Sylvie Verheyde (Stella, 2008); ma in più Stella ha un
livido sull’occhio. Il padre e il
figlio di Vegas: Based on a True Story (Amir Naderi, 2008) e il padre e la figlia di Akires to Kame (Achilles and the Tortoise, Takeshi Kitano, 2008) sono
legati per sempre e divisi per sempre, non dalla morte, ma dalla vita mortale
di un’ossessione che non si lascia sopprimere; la stessa, in fondo, che ha
portato i senza famiglia e senza casa di Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008) ad amarsi
dentro scarpe vecchie e furgoni abbandonati in un deserto senza più utopia; non
muore, anzi nasce, la figlia del padre per eccellenza di 35 Rhums (Claire Denis, 2008), né muoiono
i Figli di Philippe Grandrieux (Un lac, 2008): varcano un paesaggio che sembra nordico ma
si fa psiche, silenzio e talvolta solo respiro fuori dal mondo come solo certe
cose di Sarunas Bartas, si amano in un turbamento recluso ed escono fuori (di sé) accettando la loro
condizione di orfani di ogni universo. Però, probabilmente, nel dispotismo di
un sentire che rifugge la morte mentre la terra si perpetua comunque
ferocemente in passeggini furiosi spinti in avanti come martelli pneumatici (e
poi in un momento in cui un Figlio a tutti gli effetti, qualcuno, che però era nostro Padre,
l’incarnazione stessa della Famiglia che volevamo, decide di tirarsi via dal
tutto con una corda al collo), la maggiore preoccupazione comincia ad essere
quella di morire in vita, incapaci (il padre, il figlio; l’Altro, il nostro
sangue, un altro sangue) di riflettersi l’uno nell’altro e riconoscere la nostra incapacità in
fondo di soffrire e amare come l’altro, mentre l’altro soffre e ama — inutile
abiezione, essere al posto dell’altro. Riconoscersi anche in una pira di fuoco
— unica dimostrazione scientifica che si sta davvero ancora respirando.
Per ora.
David Foster Wallace (1962-2008). La fine del suo
racconto apparso su “Esquire” nell’autunno del 2000, Incarnazioni di Bambini Bruciati, tr. it. di Martina Testa, in Burned
Children of America,
Minimum fax, Roma 2001, p. 242: «[…]
Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio. Ti spezzerà il cuore
dentro al petto e ti lalalala un bambino, questa è la schitarrante canzone
country che il papà si sente ancora in testa come se la signora fosse quasi lì
con lui a vedere cos’hanno combinato, anche se, ore dopo, quello che il papà
proprio non riuscirà a perdonarsi è la disperata voglia di sigaretta che ha
provato mentre avvolgevano alla meglio il bambino in un pannolino fatto di garza e due
asciugamani incrociati, e il papà lo alzava come un neonato appena uscito dalla
pancia della madre, tenendogli il cranio nel palmo di una mano, e lo portava di
corsa fuori al pick-up rovente e si precipitava in città, al pronto soccorso
della clinica, lasciando sull’asfalto gomma di prima qualità per tutto il percorso,
e la porta dell’inquilino a penzolare aperta così tutto il giorno finché il
cardine non cedette, ma a quel punto ormai era troppo tardi, quando la cosa non
smetteva e loro non riuscivano a farla smettere il bambino aveva imparato a
lasciare il proprio corpo e guardare lo svolgimento del tutto da un punto in
alto, sopra la sua testa, e qualunque cosa fosse andata persa non ebbe mai
importanza da quel momento in poi, e il corpo del bambino si espanse e cominciò
a camminare in giro, riscosse stipendi e visse la sua vita senza avere dentro
nessun inquilino, come una cosa fra le cose, mentre l’anima della sua persona
restava sospesa a mezz’aria come una nuvola di vapore, cadendo come pioggia e
poi alzandosi di nuovo, il sole su e giù come uno yo-yo».
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