NEL GRUMO ROVENTE
Su Drive di Nicolas Winding Refn
Jonny Costantino
Swarming
like bees over the air
Off the
pump off the thing
The blood
that I’m pumping away
Lou Reed, Pumping Blood (2011)
Nicolas Winding Refn è un cineasta vulcano a cui non difetta l’oculatezza nel canalizzare la sua lava visionaria. Ipertrofico e
calibrato, caldo come un maniaco ossessivo, freddo come un neurochirurgo, Refn
cala la sua sonda cristallina nel grumo rovente di un eccesso di vita che per
farsi sentire va trasfuso nell’iperbole incendiaria del cinema. La vita è un
ossimoro e Refn la versifica di conseguenza, asservendo la capacità
illusionistica (la magia del cinema) alle impellenze poetiche (le verità
dell’autore). Una poetica focalizzata sull’esplorazione dei livelli di
precarietà e sugli impulsi distruttori che caratterizzano, darwinianamente, una
condizione, quella umana, non emancipata da quella bestiale. Una poetica pervasa dalla passione per l’uomo, uomo inteso come corpo e carattere, figura e personaggio, vasellina
su tricipiti pronti a guizzare selvaggi e prigione di una coazione alla
violenza che non si estirpa.
Quella refniana è una delle più prodigiose macchine da guerra filmiche
sbucate e consolidatesi negli ultimi anni. È la fucilata del talento nel ginocchio di molto cinema che ha
fatto e fa dell’autorialità un genere, il più fiacco
tra i generi. Ne rivela qui l’anchilosi illusionistica, lì la zoppia poetica,
originarie o sopravvenute (anche il miglior vino talvolta diventa aceto), nello
smarrimento di una reale spinta creativa o nella
carenza di uno stile di volontà radicale. Qualche esempio: Hazanavicius ovvero
la ruffianeria e la pretenziosità vittoriose, il sentimentalismo d’accatto, il
cinema d’autore abbassato al livello dei jack russell; Allen con le sue
nostalgiche smancerie d’antan, da
Cukor liso, imbottito di antitarme; l’imbalsamato Scorsese, oramai; Wenders
enfiato di belluria effettistica e “negazionista” degli azzardi passati –
l’elenco sarebbe lungo.
Georg Lichtenberg (1742-99) sosteneva che in ogni muscolo dell’attore
inglese David Garrick (1716-79) pulsasse la sua anima. Analogamente, sarebbe
arduo, ammesso che abbia senso, distinguere in un qualsiasi film di Refn
l’elemento cardiaco da quello mentale, poiché guizzano confusi in ogni inquadratura
e trovano l’unisono sul versante ritmico e retinico di un cinema
dove l’occhio (l’organo del vedere) è pienamente proporzionale alla
visione (dell’uomo tra gli uomini, dei rapporti di forza tra essi), alla
visione che esso sposa e veicola. Ed è un occhio potente, quello di Refn, che
– nell’articolarsi in sguardo e nel precipitare
in immagine, nell’immettersi cioè nel frantoio del linguaggio – nulla
perde della sua crudezza, resta brutale e raffinato, scostumato e colto.
[…]
APPUNTI SUL FAUST
Mario
Pezzella
Il Faust di Sokurov è un medico scienziato frustrato e fallito, che ha
perso ogni alone romantico. Del resto, già leggendo il capolavoro di Goethe,
può sorgere il sospetto che il grande alchimista sia un uomo mediocre.
All’inizio dell’opera, impaziente e un po’ isterico, evoca spiriti e fantasmi,
ma non ne sostiene la presenza, come uno psicanalista spaventato dai suoi
stessi sogni. La sua volontà di potenza è velleitaria: quando Mefistofele lo
invita a iniziare la sua avventura per il mondo, Faust si preoccupa – da
buon intellettuale topo di biblioteca – della sua goffagine mondana. Del
resto, le sue imprese non hanno nulla di grandioso: frequenta bettole e
bordelli, ostentando una insopportabile arroganza,
mette incinta una ragazzina poco più che quattordicenne, rozza e inesperta, ne
ammazza per sbaglio il fratello e scappa di gran carriera lasciandola nei guai.
Questo aspetto debole, egocentrico, abbastanza vile del suo carattere, è
posto al centro dell’interpretazione di Sokurov, che lo estremizza fin quasi
alla volgarità. Faust è davvero l’antenato dell’Hitler malaticcio e
ipocondriaco di Moloch, senza però
possederne la cattiveria e la forza demoniaca. Per Sokurov, dietro lo spettacolo della sublimità e
dell’idealità del potere, si cela la sua sostanziale oscenità; se gli si
strappa la maschera, il re si rivela uguale al suo compagno di baldorie, il
buffone, che –come Falstaff nelle tragedie di Shakespeare – mostra
la verità del suo animo. Ciò era vero per i potenti dei tre film sokuroviani
del ciclo sul potere: in Hirohito la sovranità divina era scossa dai tic
nervosi del volto e delle mani; Stalin si proteggeva dal contatto con gli altri
praticando un ritualismo ossessivo degno di un fobico; Hitler esibiva una vera
e propria ripugnanza per il suo stesso corpo. A differenza di tutti costoro,
Faust non ha una maschera sublime ed esibisce il proprio squallore senza veli e
messa in scena. La distruttiva dialettica dei film precedenti tra il polo
“sublime” e quello “grottesco” della sovranità, nell’ultima pellicola di
Sokurov non compare, perché il primo non tenta nemmeno di attivarsi.
[…]
L’ANTITEOLOGIA DI LARS
VON TRIER
Maria Moresco
Il vaso di putredine: Antichrist
Il lavoro di Lars von Trier sembra seguire una parabola coesa e
coerente, attraversata da una cesura, formale e contenutistica allo stesso
tempo, che mi sembra di poter individuare in Antichrist. Nel film il
regista costruisce come è abituato uno spazio chiuso
che diventa un mondo da cui nulla e nessuno può uscire, e lo fa in modo
particolarmente esasperato. La delimitazione dello spazio si riscontrava in
modo più o meno evidente anche nei film precedenti (la
piccola comunità nelle Onde del destino, l’ospedale di The Kingdom,
le semplici righe per terra di Dogville). In Antichrist sappiamo
subito cosa ci aspetta quando con un movimento di macchina molto bello
l’inquadratura si avvicina sempre di più a un vaso di fiori in vetro
trasparente in cui entriamo praticamente dentro. I
gambi, enormemente ingranditi, sembrano formare un paesaggio organico in cui si
notano distintamente le particelle di marciume galleggianti in acqua. Siamo
avvisati: è lì che stiamo per entrare, in una natura putrida e che non lascia
via di scampo.
Con questo film Lars von Trier costruisce una vera e propria teologia
negativa. Il regista abbandona l’idea del sacrificio salvifico dell’innocente
che, per quanto possa sembrare inaccettabile, contiene ancora troppa
consolazione (ma anche una buona dose di “cinismo”, vedi le oscene campane in cielo nel finale delle Onde del destino). Infatti,
tramite la sua sofferenza, l’innocente sacrificato al male del mondo può
comunque sortire un effetto: salvare, se non tutti, almeno la persona che ama (Le onde del destino, Dancer in the Dark).
Già in Dogville la cosa non è più possibile: i peccatori sono
irredimibili e il sacrificio diventa un atto di presunzione della persona
disposta ad accollarselo, che forse non ha capito fino in fondo con chi ha
davvero a che fare.
[…]