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CITTÀ DEL DOLORE
Jonny Costantino
La strada
è come una piaga nella notte.
Blaise Cendrars, Pasqua a
New York (1912)
How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb
I luoghi conservano i segni del
dolore che hanno vegliato. Della morte, in casi straordinari, recano l’ombra
cicatriziale. C’è una foto che non smette di impressionarmi: Hiroshima, 6
agosto 1945, «la radiazione atomica ha stampato sul
muro di una casa l’immagine di un uomo e di una scala a pioli». È il fenomeno
delle cosiddette ombre calde: si
stamparono sul cemento, sulla pietra e sul metallo a causa della luce che
accompagnò l’esplosione del pikadon. La bomba atomica fu, innanzitutto, un inaudito
evento di luce, letteralmente accecante: chi aveva lo sguardo rivolto al cielo,
verso i tre bombardieri della missione (la bomba ci mise 51 secondi per cadere), perse la vista all’istante. Pika sta per luce abbagliante, splendore, bagliore di fulmine. Don sta per “bum”, scoppio rumoroso,
rombo di tuono. Il pikadon fu la prima bomba all’uranio sganciata su anima viva, dal greco οὐρανός, “cielo”, da dove è venuta. Un’altra parola per quanto accadde è gembaku: “luogo della sofferenza”. Quella che era una città divenne, in un lampo-tuono, una
radura radioattiva di macerie, emorragie, vomiti sanguigni, escrementi, corpi
bruciati che odorano di sardine secche, oggetti riplasmati e fossilizzati,
trame di kimono stampate sulle carni di donne-mummia, ossa di piedi sciolte nella
pelle di scarpe, smalto di denti impastato con la ceramica di tazze, lineamenti
liquefatti di uomini-cera. Dunque: cos’è un’ombra se
paragonata a un neonato che allatta dal seno della madre morente, calva e
ricoperta di cheloidi e petecchie, devastata pietà aureolata da nugoli di
mosche in cerca di piaghe per deporre le uova nel pus? Solo un’ombra. Eppure
quest’ombra indelebile di qualcosa che è stato vivo, questo imprinting calcato
dall’istante della morte, questo tatuaggio dell’umano su una superficie inorganica
non smette di produrre un certo effetto. La carne lacerata e la mente devastata
guariscono, altrimenti soccombono. Gli spazi si ristrutturano o si mandano in
rovina. Talvolta, però, trattengono l’impronta di una morte sopravvissuta ai
suoi portatori. Immagino che un chimico saprebbe spiegarmi il perché e il
percome quelle particelle di nero sono andate a fissarsi per opera dei raggi
gamma sullo sporco di un muro qualsiasi. Ma sono certo
che il mio sgomento non si attenuerebbe davanti a questa ritenzione
foto-traumatica. Davanti all’ombra di un uomo e di una scala
per sempre sganciati dai loro originali di carne e legno. Davanti a
questa lastra dell’annichilimento dell’uomo impiantata nella materia. Davanti a queste ombre fissate dalla (fissione della) Morte su una
parete della caverna scoperchiata della Terra.
[…]
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LA
CITTÀ E IL CINEMA
FISIONOMIE
DELL'EMOZIONE
Raffaele
Milani
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Si sa che, nella tradizione
occidentale, il disegno è padre di tutte le arti. E' così per Vasari, come per
Leonardo, Raffaello, Michelangelo. Il disegno è l'idea fondatrice, essenza e
pensiero strutturante della rappresentazione, riguarda sia le figure che le cose; tutta la natura può esservi raffigurata. Del
disegno, in questo senso, ha trattato magistralmente Erwin Panofsky.
Il disegno trattiene l'esperienza e tutto il sentire in una grandiosa
concertazione di segni: illustra, descrive, progetta, visualizza il mondo
intero. Anche la città è, in sostanza, un disegno, opera di visione e di imitazione, lavoro di forme e tracciati, immagine di
volumi e di superfici, arte del progetto e della tecnica, creazione d'insieme
per una poesis mirabile che possa
racchiudersi in uno schema operativo e ideale allo stesso tempo. Tutta la
casualità del fare e del costruire che l'umanità ha potuto produrre per tre
millenni è stata posta in un ordine, in un tessuto organizzatore. Dal modello
antico, greco e romano, a quello rinascimentale, fino all'Ottocento, anche la
città risulta essere risultato di un disegno, di
un’ideazione poietica.
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Da più di un secolo il disegno si
è però dissolto, l'idea ha perso il suo centro, la civiltà vive la crisi della
sua funzione simbolica. La struttura che teneva la città unita in un'idea, per
quanto composita, si è spaccata: pratiche, tecniche, linguaggi, usi hanno disfatto l'insieme che precipita ora in mille rivoli
esterni, svuotando il suo senso e lanciando filamenti di nuove crescite,
improvvisate, anonime, disordinate. La città s'espande
così nel caos e nella casualità che
prendono il sopravvento. Nell'epoca della riproducibilità tecnica vengono privilegiate frammentarietà, conflittualità,
incoerenza; ne osserviamo il riflesso nelle arti della fotografia e del cinema,
poi nelle arti delle virtualità elettroniche. La città ha risentito di questi
cambiamenti e dei loro effetti, sia nelle sue mappe d'espansione che nello
stile dell'architettura, nella qualità della vita e dell'abitare come nella
sensibilità che ha favorito. In particolare negli anni Trenta del secolo
scorso, le avanguardie e il Movimento Moderno dell'architettura registrano la
caduta dell'aura e della condizione contemplativa dell'opera dell'arte
e mettono in campo un'attenzione progettuale, all'insegna della nuova
razionalità, che si concentra attorno alla Carta d'Atene, un sofferto documento
che vuole definire la città moderna e non manca di proficue discussioni sul
vivere e abitare il mondo. Alla fine della civiltà della rappresentazione
corrisponde l'ascesa del nuovo, dello shock, della provocazione. La condizione
urbana del Novecento, nel suo corso di un’epocale,
profonda modificazione, viene letta da Weber, Simmel, Kracauer, Benjamin, Heidegger, Lukacs, Adorno. E ciò fornisce tutto un immaginario
che, nella cinematografia precedente il secondo conflitto, muove attorno al
film Metropolis di Lang o a Tempi
Moderni di Chaplin, e che, in tempi recenti, hanno a che fare con Blade Runner, Brasil, Batman, Matrix, Star Trek (ultima raccolta), Inception. Nella nostra mente,
futurismi del mondo cinematografico e del fumetto si uniscono a visioni reali
di New York, Dubai, Tokyo, Shangai, Chicago, Shenzhen, Kuala Lampur, Pechino. Cadiamo nella rete dell'inganno
visionario. Il grande oggetto che ci appassiona è il grattacielo con le sue
ardite altezze. È la nuova meraviglia del mondo. Quale scegliamo? Il classico Empire
State Building di William F. Lamb (New York, 1931), il Sears Tower di Skidmore Owings (Chicago,1974), il Petronas Towerdi Cesar Pelli (Kuala Lampur,
1998), il Burj Khalifa di Adrian Smith
(Dubai, 2010), il Pingan International
Finance Center di Kohn Pedersen Fox (Shenzhen, 2011), o il China Zun di Terry Farrell (Pechino, iniziato nel 2011)? Senza
trascurare le astute bizzarrie di Rem Koolhaas (il Cctv, Pechino, 2011) o di Renzo Piano (The Shard, Londra, non terminato).
L'immaginazione cinematografica e virtuale ha prodotto un grande stupore
cambiando la condizione simbolica: nell'età della globalizzazione, la nuova
torre riunisce le lingue, non le divide nell'incomprensione delle genti. Non è
però di questo stupore che vogliamo parlare, intrattenendoci ora sul tema
cinema e città, ma della percezione del territorio urbano, termine più
aggiornato e proprio per sottolineare tutta una
fisionomia delle emozioni spaziali, ed entrare così nel vivo di una descrizione
della sofferenza dell'abitare e del muoversi. Non ci vogliamo occupare, in
questo scritto, né del dinamismo visivo di uno Dziga Vertov o di un Walter Ruttmann, né di un realismo povero alla Rogosin di On the Bowery,
come nemmeno di una visione
nostalgica o “patetica” alla Pasolini o alla Wenders.
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RIFLESSI IN UNO SPECCHIO SCURO
LA COPENHAGEN DI NICOLAS WINDING REFN
Pier Maria Bocchi
Non c’è una
sola panoramica in Pusher e in Bleeder.
Non un orizzonte. Non una dichiarazione di luogo. La Copenhagen di Nicolas Winding Refn potrebbe essere una
qualunque altra metropoli, tanto è indefinita geograficamente. Non ci sono né i
carrelli aerei di Drive, né i
grandangoli di Valhalla Rising. Il set
è imprecisato, non enunciato. Nel primo Pusher si parla di fuggire, ma non soltanto non si menziona
verso cosa, ma neanche in verità da dove. Ovvio che la tensione all’altrove e
il desiderio di abbandono del presente siano connaturati alle vicissitudini del
protagonista, ma la rinuncia alla definizione topografica e a una mappatura è
troppo insistita per essere casuale. Di certo non
trova la sua ragione in un semplice simbolismo di genere.
Azzardo un
paragone: la trilogia di Pusher e il suo figlio legittimo Bleeder esercita una ricognizione sociologica pari a quella
di uno Stanley Kwan. Nel cinema del regista di Center Stage e di Rouge l’ambiente e l’aria
del tempo sono definiti dai personaggi: più che d’arredamento e di costumi, più
che di una data, la Storia è una questione di sentimenti e di sensazioni
personali. Non è il tempo che si riflette nello sguardo delle persone, è
quest’ultimo che lo crea. Sono i
protagonisti delle storie di Stanley Kwan a fare
dunque la Storia in cui gli eventi accadono. Kwan,
dal canto suo, ci mette il montaggio: è per mezzo del montaggio che le cose
avvengono, ed è sempre col montaggio che le cose acquistano importanza agli
occhi dei personaggi, delineando un’esistenza,
configurando un mondo. In un film come Everlasting Regret, ad esempio, Shanghai è completamente
introiettata, diventa una specie di set da camera, è guardata e vista soltanto
dallo sguardo della protagonista e rappresentata (direi praticata) col montaggio. Una geografia
antropocentrica e cinematografica insieme.
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STACCHI
SULLA CITTÀ
Massimo
Causo e Grazia Paganelli
Stratificazioni
È attraverso l’arte della fotografia che in un
primo momento ho scoperto il cinema. Ed è sempre
attraverso la fotografia che ho scoperto il paesaggio
della mia nuova casa – New York City.
Amir Naderi
Prima di
iniziare la sua seconda vita da regista a New York (e dopo aver lasciato l’Iran
all’apice del successo), Amir Naderi fotografa i muri della città cercando di estrarre da essi l’anima della grande
Mela. Si tratta di fotografie apparentemente casuali, scatti “improvvisati” che
ritraggono a loro volta le immagini dei manifesti pubblicitari strappati che
mostrano, sovrapposti, i segni del tempo della città, quell’evoluzione continua
e rapida in cui il suo cinema da sempre si specchia. Affreschi metropolitani
capaci di descrivere l’ambiente che li ha prodotti. Volti, gesti, situazioni,
personaggi famosi e modelli, parole e fotografie emergono dai muri e si
lasciano contaminare dal contesto, lo anticipano
talvolta, tracciando un doppio ritratto, quello del fotografo che, manipolando,
ha rivelato l’immagine, e quello di una città che cambia sotto i nostri occhi.
Ecco il segreto del cinema di Naderi: l’accumulo e la
sottrazione, la corsa e la fissità, il dettaglio che si trasforma in paesaggio,
i segni che impazziscono per trovare, istante dopo istante,
nuovi significati.
A vedere
queste foto viene in mente Made in Iran, Made in America (Sakht-e-Iran, Sakht-e-America), il primo vero film “americano”
di Amir Naderi, girato nel
1977 a New York (ma di produzione ancora totalmente iraniana) e mai distribuito
per via della censura. Storia di un pugile iraniano che cerca negli Stati Uniti
la sua occasione per conquistare fama e fortuna, ma che si trova a scontrarsi
con mafia e squallore degli ambienti clandestini. In questo film, dove la
vicenda è solo un pretesto, la città è già quella che sarebbe diventata anni
dopo, con la trilogia su Manhattan, ma ritratta con lo
sguardo graffiante di chi vuole farla propria. Perché lavorare a New York era occasione preziosa per portare a compimento quella
ricerca iniziata in altri contesti, una svolta e uno stimolo proprio nella
rappresentazione della città, spazio del cinema per eccellenza che Naderi ha dimostrato più volte di saper descrivere e
interpretare nel suo aspetto umano, nei nessi visionari, in stretta relazione
con le dinamiche dei protagonisti. E in effetti Made
in Iran, Made in America si rivela subito come una sorta di laboratorio, un
campo di prova delle possibilità ritmiche di un racconto più articolato che si
nutre degli innumerevoli elementi esterni per esemplificare uno stato d’animo e
una tensione emotiva via via più soffocanti. Le strade, ancora una volta
offrono l’ispirazione più importante, perché negli automatismi della vita
consueta di una metropoli si possono scoprire meccanismi interessanti che
condizionano l’osservazione e il lavoro intero di Naderi.
Si tratta di captare in una città come New York gli spunti che daranno origine ad un racconto. L’abilità del regista sta nella capacità
immediata di assecondare il set che lui ha scelto e di raccogliere dai
particolari, dai movimenti, dalle contraddizioni apparentemente senza
importanza, strumenti utili ad entrare nella
personalità del suoi personaggi, fino a prevederne le mosse e conoscere i moti
interiori del loro animo. Si tratta di sfruttare l’istante per concentrare in
una scena o in una sola inquadratura i sentimenti dell’urgenza e della
precarietà che si trova a vivere il protagonista, il senso di solitudine, la
paura, l’esaltazione, la frenesia e il dubbio. E così anche lui è spinto a
vagare per queste strade seguendo il ritmo dei semafori che si insinuano tra i pensieri, fissando le persone, immaginandole, forse,
nell’immediato futuro, lasciandosi condizionare dalle proprie manie. Anche in
questo caso, dunque, prevale lo sguardo di un regista che sembra voler dare una
forma visibile alle ossessioni e alle derive della mente, senza mai eccedere
nelle metafore, ma mostrando il mondo come lui stesso lo vive, a nervi
scoperti, con gli occhi spalancati, e i nervi esposti alle tensioni che si
respirano nell’aria. Eppure non c’è niente di improvvisato
sul set dei film di Naderi. Ogni oggetto e ogni
movimento sono previsti con estrema cura, persino sulle strade newyorkesi si
respira la precisione del suo punto di vista, la capacità fotografica di
cogliere il senso dell’immediatezza, di organizzare l’immagine attorno ad un
centro che, poi, si espande come in un’esplosione che va a coinvolgere tutti i
film. (G.P.)
[…]
UN’AGONIA GLOBALIZZATA
NOTE SULLA “TRILOGIA QATSI” DI
GODFREY REGGIO
Francesco
Cattaneo
Pensatori sono quegli uomini che
ri-pensano, e che pensano che quel che fu pensato non
fu mai pensato abbastanza.
Paul Valery, Tel
Quel
La
“Trilogia Qatsi” di Godfrey Reggio – Koyaanisqatsi (1983), Powaqqatsi (1988) e Naqoyqatsi (2002) – può a buon diritto essere considerata un unicum sui generis, un lavoro inclassificabile, attestato sul punto
d’intersezione tra clip musicale, sinfonia audio-visiva, documentario e
film-saggio. Per quanto atipico sia quest’universo cinematografico, esso
presenta comunque delle leggi generali che lo governano, a
cui si aggiungono le leggi specifiche in vigore nelle sue tre galassie.
Nostro
compito è tentare di muoverci sui due livelli individuati, per far emergere
alcune caratteristiche dell’eccentrica opera di Reggio – ec-centrica nel senso etimologico di “fuori dal centro”,
cioè, qui, marginale rispetto agli standard produttivi dominanti e alle
abitudini percettive invalse.
Al fine
di individuare i tratti del procedimenti di Reggio, e
di mettere a fuoco il senso del suo discorso, conviene prendere le mosse da un
serrato confronto con la specifica fisionomia di ciascun film.
Koyaanisqatsi
In Koyaanisqatsi la principale forma di intervento sulle immagini, catturate (come poi in Powaqqatsi) con un approccio
documentaristico refrattario alla fabbricazione a tavolino delle scene, è
l’applicazione di un effetto di accelerazione. A volte si può riscontrare anche
l’uso del ralenti. Raramente il film fluisce a
velocità normale.
La
domanda che subito s’impone riguarda il modo in cui
interpretare tale pervasiva rielaborazione, spesso accostata dalla critica
all’avanguardia degli anni Sessanta, alla visione psichedelica, e al Ballet mécanique (1924) di Fernand Léger. Di primo acchito, si sarebbe
tentati di parlare di una manipolazione, di una distorsione arbitraria atta a
creare un nuovo mondo visivo/narrativo, indipendente dal profilmico, o
parallelo a esso. Ma è davvero così?
Vi sono
buone ragioni per credere che le cose stiano all’inverso, vale a dire che la
rielaborazione non abbia un carattere manipolatorio o distorsivo (quindi di violenza, comunque connotata, nei
confronti delle immagini), bensì un carattere amplificatorio (nel senso della
sottolineatura, dell’enfatizzazione di aspetti già insiti nel profilmico, ai
fini di un loro migliore e più nitido coglimento).
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