PEGGIO DI UN BASTARDO
Dialogo intorno a Io
sono Tony Scott,
o dell’artista in terra desolata
Jonny Costantino / Franco Maresco
Eh sì,
caro mio, la vita è proprio uno zuccherino.
Eppure in
certi casi è meglio perdere che vincere.
Billie
Holiday, Lady Sings the Blues (1956)
11 luglio 2011, Bologna, Piazza Maggiore,
ore 22
Non amo
il cinema sotto le stelle, tanto più quant’è suggestiva la cornice, figuriamoci
in Piazza Maggiore: troppo chiaroscuro a esaltare questo monumentale connubio
tra architettura sacra e profana, troppo rumoroso il dialogo muto tra queste
pietre secolari, troppa storia e troppa vita intorno, troppo sfolgorio di corpi
umani e celesti. Le stelle come le pupille mi distraggono, deviano
l’attenzione, disastrano la mia visione. Eppure mi trovo qui, compostamente
seduto nel centro esatto della città, con un’amica. Impossibile vedere altrove Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia
fece fuori il più grande clarinettista del jazz, presentato finora soltanto
in un paio di festival, Roccella Jazz e Locarno, e ora sotto il controllo del
Tribunale di Palermo, nelle more di un procedimento dove il film è impegolato.
La piazza è piena, lo è sempre in queste serate estive di proiezioni gratuite,
a prescindere da ciò che viene sparato sullo schermo gigante. Franco Maresco è
categorico nel presentare il suo Tony
Scott: «Non mi fido di chi non ama il jazz. Il jazz è libertà». Chissà
quanti dei presenti amano davvero il jazz, mi chiedo. Calano le luci, partono
le immagini. I centoventotto minuti del film durano un attimo. La vita e la
musica di Tony Scott, plasmati dallo sguardo lucidamente amoroso di Maresco, in
un battibaleno si mangiano tutto: il firmamento, San Petronio, la miriade di
occhi e ginocchi che costellano questo quadrilatero gremito di respiri e
sospiri.
[…]
JC Chi è per te Tony Scott?
FM Ce ne sono almeno due. C’è il Tony Scott che ho conosciuto durante le
riprese del film, risalenti alla primavera estate del 2000, e c’è il Tony Scott
che avrei approfondito dopo, col ritorno alla lavorazione, a partire dal 2007.
Tony era morto da poco. Allora ho ripreso ad ascoltarlo e studiarlo,
confrontandomi non solo con un grande clarinettista, ma anche con l’organizzatore di suoni, come lo
definisce Stefano Zenni, con un inventore di mondi sonori originalissimi. E
soprattutto ho conosciuto l’uomo, attraverso una gran mole di testimonianze,
delle quali nel film è finita una minima parte. Ho conosciuto l’uomo che
sospettavo, un uomo pieno di contraddizioni, con un irrisolto senso di colpa e
una non trascurabile tensione autodistruttiva, minato da evidenti problemi
psicologici, legati in particolare a un episodio di tortura in Indonesia,
svelato dalla prima moglie Fran Attaway. Un uomo che rappresenta l’artista che
ho sempre avuto quale modello: l’artista donchisciottesco. Un’idea
anacronistica, tramontata, che ha avuto in Tony, nella sua coerenza artistica e
umana, nel suo spirito di ricerca, nella sua incredibile generosità, uno degli
ultimi sopravvissuti.
[…]