Erano i primi anni settanta. Io ne avrò avuto
quattordici. Prendendo nei confronti del regime le dovute distanze, che gli
avrebbero permesso alla morte del dittatore di continuare a gestire il loro capitale
sociale – occupando quindi calcolatamente, forse in alcuni casi anche
sinceramente, posizioni d’avanguardia culturale e civile – alcuni preti
illuminati, da bravi strateghi, organizzavano dei cineforum alquanto impegnati.
Piuttosto per caso, sono capitato in uno di essi. Nella
stessa settimana ho visto, non ricordo in quale ordine, Edipo re e Medea. Pier
Paolo Pasolini era ancora vivo, e paradossalmente nella Spagna franchista i
suoi film non soffrivano i sequestri a cui invece non di rado venivano sottomessi
nell’Italia democristiana.
Ne restai abbagliato: dai raggi del sole che colpivano la
macchina da presa (a spalla) dell’operatore nella sequenza della morte di Laio:
dalla smisurata bellezza, dal pallore del volto di Silvana Mangano, dallo
smarrimento negli occhi di Giocasta. Mi si paravano davanti delle immagini che
turbavano, con la loro fisicità, la mia.
Ne restai stordito: dall’incalzare dei crotali nel rito
orgiastico della sacerdotessa Medea, dall’urlo lancinante di Maria Callas tra
le stoppie incendiate prima di compiere il tradimento e consegnare a Giasone il
Vello d’oro.
Era cinema quello che vedevo? Per me, ne fu la scoperta.
[…]