SPECIALE
GAUNDRI / LIBERT
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CINEMA NONOSTANTE
CONVERSAZIONE
CON GIUSEPPE GAUDINO E ISABELLA SANDRI
Intorno a Per questi stretti morire (Cartografia di
una passione)
a cura di Margherita Palazzo
Giuseppe
Gaudino e Isabella Sandri sono tra i pochi resistenti italiani che fanno un cinema
necessario. Averli di fronte, pure attraverso lo schermo (Skype),
in una serata di marzo, con le finestre aperte, è aria libera e pulita nello
spazio di ciò che può ancora significare indipendenza e purezza di sguardo. Ho
visto a Venezia il loro ultimo non-film, misterioso e ipnotico, Per questi stretti morire (Cartografia di
una passione) (2010) sul
salesiano Alberto Maria De Agostini, esploratore – cartografo, andinista, cineasta, fotografo, fantasma. Tedoforo senza fiaccola
della verità, con in mano solo il sintetizzatore che
rimanda una pluralità di voci smarrite, che metteva piede per la prima volta
sulle sue Terre Magellaniche, prossimo alla morte: la verità dei nativi sterminati al
contatto con i bianchi, dal sopruso, come da un virus. Malgrado la vertiginosa bellezza del paesaggio, Per
questi stretti morire mette al centro la presenza umana (anzi l'assenza) in
tutta la sua fisicità straziante. Segna un movimento non lineare del tempo,
frane e smottamenti della storia ufficiale, quella che predomina, che tralascia
o occulta molteplici altre storie, spesso scomode. Giuseppe e Isabella mi
dedicano il loro tempo con generosità, con semplicità, e finiamo per parlare di
questo loro film nonostante... e di
tutto il resto.
Il processo creativo affrontato insieme diventa anche
politico, nel senso di modellare la propria vita, darle il senso dello sforzo
di restituire la bellezza e l'orrore che si sperimentano insieme? Lavorare insieme per due che si amano può
essere una forma di resistenza?
Isabella Sandri: Nel lavoro comune s’intrecciano sempre un aspetto più
solare e positivo e uno di conflitto e reciproche intransigenze. Spesso abbiamo
il desiderio di lavorare insieme, ma nel linguaggio giocano le passioni mie e
di Beppe, che non sono le stesse. I due percorsi viaggiano paralleli e
accostati, durante le riprese siamo solidali con le passioni dell'altro, siamo
a fianco, complici e amici; l'uno aiuta l'altro a realizzare la sua idea; ma
l'intreccio avviene solo dopo. Ognuno ha il proprio spazio di passione,
rispetto a un certo tema, all'interno dello stesso lavoro. Una luce che
seguiamo individualmente, mentre ci confrontiamo con l'altro. Riguardo a Per questi stretti morire ho un'idea chiara di quale sia stato il mio motore e quale
quello di Beppe, una direzione comune l'abbiamo trovata solo nella fase finale,
quella del montaggio.
Giuseppe Gaudino: Inizialmente, lavorare in
questo modo è stato anche un gesto di rivalsa. Negli anni '80 era una
scommessa, quella di creare una nuova forma di racconto, e il fatto che se ne
occupasse una donna era certamente anche una questione politica. Soprattutto in
questo momento, in Italia è difficile praticare con coerenza la propria
visione. Noi abbiamo sempre avuto questa attitudine a
mescolare due intelligenze, due attitudini diverse: non sappiamo, poi, se
diventa cifra del linguaggio che arriva allo spettatore. Per esempio, in Per questi stretti morire tu riesci a separare qual è la parte maschile e femminile,
qual è la parte ibrida in cui uno rinuncia all'altro? Noi cerchiamo di
amalgamarle, anche seguendo il ritmo del montato, che spesso può contraddire
una riflessione, oppure dilatarla...
I.S.: Lavorare insieme comporta anche che, se la passione, se
l'idea di uno è debole, l'altro la stronca subito! In noi c'è sempre stata la
volontà di superare quei luoghi comuni che si trasformano in vere e proprie
gabbie, pastoie. Io vorrei non soffrirci più di tanto, non intendo per questo
sacrificare i bei momenti di creazione comune: una delle cose che mi piace di
più dell'esperienza con Beppe è che ciascuno si è sempre sforzato di annullare
il genere, guardando all'altro come a un artista. Il mondo esterno è diverso, e
devo combattere di più. La questione dell'essere una donna e fare quello che faccio comporta ancora dei problemi non risolti, esiste, è
difficile e lo è sempre stato…
G.G.: È un problema etico, più
che politico.
[…]
*
PER UN CINEMA
DI POESIA OGGI
APPUNTI
SULL’OPERA DI CATHERINE LIBERT
Gianluca Pulsoni
Con
questo scritto si ha l’ambizione di presentare una possibile introduzione al
cinema di Catherine Libert,
cineasta belga contemporanea, attraverso una breve riconsiderazione di alcune
nozioni alla base di un’urgenza di ripensare il cinema come possibilità di
poesia. Il lavoro è impostato come un breve focus che
parte da due suoi film: si cercherà di introdurre il suo lavoro, proponendolo
come un contributo a quanto oggi rimane di un cinema che sogna di rifondarsi
per esprimere la sua indipendenza, sia criticamente che poeticamente. Questo articolo vede presenti anche
altre voci: Alessandro De Francesco e Philippe Dijon de Monteton, tra i
responsabili del Lucca Film Festival (assieme ad Antoine Barraud, Monteton sto
producendo anche il primo lungometraggio ufficiale della cineasta, tramite la
casa di produzione parigina House on Fire), che hanno
lanciato per primi, in Italia, il lavoro della Libert.
Le voci sono libere e prese, se non rubate, in momenti e su supporti diversi.
Il montaggio – “la cura” – è invece arbitrario e soggetto ai gusti
del solo scrivente.
Introdurre,
ecco un’azione che, se ben fatta, riesce nell’intento di evocare e saper evocare, o quantomeno cercare di evocare, e può essere il
modo per arrivare a suscitare una qualche forma di curiosità o interesse nei
confronti di qualcosa o qualcuno, da parte dei nostri ipotetici interlocutori.
Nel particolare, nel “raro”, nel prezioso che si nasconde nel quotidiano sta – forse – la verità delle cose, o
ciò che oggi l’ha sostituita. Nel nostro caso, l’argomento in questione è il
lavoro di una cineasta belga, molto appassionata della cultura e della storia
d’Italia, con formazione intellettuale, capace di porre nel suo cinema
questioni eticamente ed esteticamente radicali. Lei
si chiama Catherine Libert.
[…]
INCONTRO CON
CATHERINE LIBERT
a cura di
Gianluca Pulsoni
Catherine Libert vue par Catherine Libert… proveresti a descriverti e a descrivere il
tuo cinema – ciò che sei e ciò che fai – ai nostri lettori?
La domanda mi sembra
insormontabile. Se dovessi descrivermi non si
troverebbero che frammenti, una confusione di momenti dove si mescolano gli
amici, gli amori, le loro influenze, l’esperienza di ogni film (quelli che ho
visto, quelli che ho fatto). Ma "Catherine Libert" resta un ritratto incompiuto, uno schizzo che
mi rifiuto di finire... Se non si guardassero che i tratti più evidenti di questo disegno, ciò esprimerebbe: una cineasta, una
mamma, un’amante, una viaggiatrice, una forma instabile… niente di più. Mio
padre mi ha sempre augurato di cercare l’é che manca al nostro nome di famiglia e credo che tutte le mie scelte (intime e
cinematografiche) siano state determinate da questo augurio… ma a parte questo, no, non so chi sono, cerco di essere interamente in
tutto quello che vivo, il mio autoritratto non può andare al di là dell’istante
vissuto.
Parliamo della tua ricerca attuale, come nasce la tua idea di film sul
cinema italiano? Nello specifico, cosa stai preparando ora?
Mio padre era cinefilo e italofilo (sono cresciuta ascoltando Dalla,
Battisti e Conte), abbiamo fatto numerosi viaggi in Italia e il legame col
cinema di Pasolini, Antonioni e Fellini s’è così instaurato naturalmente. Ho perciò
un rapporto genealogico, intimo e cinematografico con il vostro Paese. Ho poi
affilato le mie armi cinematografiche realizzando qualche film fra il Belgio e
la Francia e il caso m’ha un giorno ricondotta in
Italia. Qui ho incontrato Alessandro De Francesco e Andrea Monti, programmatori del Lucca Film Festival, a proposito di un progetto di
diffusione dei film inediti di Pierre Clémenti (che
cercavo da qualche anno di rendere visibili). L’arrivo a Lucca e la grandissima
amicizia con Andrea e Alessandro hanno riacceso il mio desiderio più caro:
girare in Italia. Prima di scrivere il progetto che mi avrebbe permesso di
iniziare questo sogno, Chemins de traverse, volevo assicurarmi che
potevo trovare i mezzi per realizzare dei film in Italia nella maniera più
libera possibile. Perciò ho cominciato a cercare se ci fossero reti alternative
di produzione, delle cooperative, dei laboratori artigianali, in breve se ci
fossero dei cineasti indipendenti operanti oggi in Italia. La risposta che ho
trovato presso i miei amici programmatori o cinefili è stata unanime: c’è stato un cinema indipendente molto
forte negli anni ’70 ma oggi questo tipo di cinema è morto. La questione era a
quel punto diventata ossessiva, ma non mi sono arresa, dovevo trovare chi, in
qualche modo, continuasse quella via. Ho cominciato allora a scrivere a
critici, cineasti, specialisti di cinema italiano e nel momento in cui mi sono
resa conto che non facevo solo che questo, stavo già scrivendo il mio film.
Poco tempo dopo, ho incontrato Stefano Canapa che sarebbe diventato il mio
compagno di strada nel progetto ed Enrico Ghezzi, il
nostro ‘‘Virgilio’’. Questi due incontri prepararono rapidamente la
realizzazione del primo tassello della serie (a tutti gli effetti, il capitolo
quinto): Les champs brûlants. Ora, siamo a girare il
secondo film (che sarà il primo capitolo della serie), ambientato in Piemonte:
esso evocherà soprattutto la resistenza
nel cinema, non solamente da un punto di vista storico, attraverso la
storia dei partigiani del Piemonte, ma anche da un punto di vista
cinematografico e politico: chi resiste oggi nel cinema? A cosa e come
resistere nella propria “vita-cinema”? Appariranno tre
cineasti: Daniele Gaglianone, Alberto Momo e Tonino De Bernardi, senza
dimenticare ovviamente le luminose apparizioni e le sparizioni di Enrico
e Adelchi Ghezzi.
[…]