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LUCE DEL DOLORE

HEREAFTER DI CLINT EASTWOOD

 

Laura Falqui

Egli suppone che gli eventi siano ordinati come se fossero

il sogno di una “coscienza inconoscibile, più grande e più vasta”.

C. G. Jung [1]

 

L’onda

 

Hereafter di Clint Eastwood si apre con lo scenario dello tsunami thailandese del 2004. Nella sequenza iniziale, orchestrata magistralmente, l’onda che avanza e travolge appare come un evento di concitato slancio mozzafiato: potente, impensabile, divino. Nell’attimo del suo manifestarsi, la realtà trattiene il respiro. L’onda chiara che si leva altissima nello splendore di un mattino perfetto, devastando, uccidendo e trascinando via la giornalista Marie Lalay, portandola sulla soglia del mondo aldilà, è sì un evento concreto, ma è anche la metafora di un’irresistibile pulsione interiore, di cambiamenti repentini e imprevisti; perciò è ambivalente: distruttiva e trasformatrice, stupenda e terribile, è pura energia in movimento, è il luogo fluido in cui si nasce, si muore, si rinasce. In quest’acqua Marie affonda come una bambola molle: la retina del suo occhio blu trattiene, immagine ultima, un orsacchiotto di peluche, a zampe aperte verso di lei come l’angelo di un bambino, ed è questa stessa acqua la porterà a rinascere; ma l’occhio blu non vede solo questo, un’altra visione si interpone totalizzante, estranea: il vago affacciarsi di figure che stanno in uno spazio senza peso, che le si avvicinano e la guardano. Eastwood sceglie di mostrare così la cruciale visione dell’Aldilà: per squarci allusivi, in bianco e nero, immagini labili che contrastano fortemente con lo splendore narrato a voce da coloro che, in un modo o nell’altro, hanno sfiorato l’altro mondo; lo stesso racconto fatto da Marie alla studiosa dei casi di pre-morte è articolato, ricco di colori, di movimento, tanto quanto sfuocate, grigie, evasive sono le immagini scelte per rappresentarlo.

Eastwood sembra chiedersi: può uno strumento meccanico come il cinema pretendere di intromettersi nelle esperienze cruciali, totalmente soggettive, credibili solo per chi le ha vissute? Agli sguardi di fuori, sembra rispondersi, non si possono restituire che con l’immaterialità di un fantasma: per pudore, con l'onestà intellettuale di chi non si erige a interprete del Mistero, ma solo come portatore  di una domanda o di una possibilità.

 

L’istante

 

L’istante in cui le componenti essenziali della vita si scollano, un lembo sottile si stacca, spazia nell’aria attratto altrove, mentre l’altro affonda, cade, si ferma. Si dice che il peso di quel lembo sia di 21 grammi: questa differenza, registrata durante il trapasso dalla vita alla morte, è stata definita da alcuni “il peso dell’anima”.

Cosa succede, però, se chi sta per abbandonarsi a un tale scollamento, decide di tornare indietro? La sostanza lieve, pressoché immateriale, con “i sensi all’erta”, avanza verso una dimensione sconosciuta, si attarda sulla Soglia a guardare, ne è attirata; ma poi la forma confusa del mondo che ha appena lasciato, se ne riappropria, e le due parti, per un momento staccate, si ricongiungono.

Al Ritorno, precise dissonanze incrinano il dinamismo dell’esistenza; il velo di Maya si è squarciato e nulla sarà più come prima: i corpi, gli sguardi, i luoghi, gli eventi, la rete degli incontri, tutto fiorisce in un’atmosfera in cui da ogni ferita trapela la “luce della sfera più interna”. Potremmo dunque dire con Jung, nella sua esplorazione del Tao, che è avvenuto un «distacco della coscienza dal mondo e un suo ritrarsi in un punto, per così dire, fuori dal mondo» [2] ; ma se tale distacco segna, nella via meditativa, l’allontanamento dalle emozioni, in Hereafter esso è piuttosto legato a un acuto sentimento d’esilio. I suoi protagonisti ne sono intimamente coinvolti; la loro sofferenza, tuttavia, ha vivi in sé una finissima sensibilità dell’anima, che apre alla comprensione dell’altro da sé, e un impulso al cambiamento.

Giunti al limite tra vita e morte, gettato lo sguardo di là, si scopre infatti che la vita, lungi dall’essere prevedibile, docile alla volontà della coscienza, è invece sottoposta a leggi sorprendenti in grado di spostare, trasformare, capovolgere equilibri che si pensavano immutabili. Le sfumature dei destini sembrano obbedire a minuziose variazioni di attimi che, prima o poi, rivelano la loro natura fatale.

Catturati da una tale, nuova visione del mondo, la luce che rischiara la realtà è più viva.

 

[…]

 



[1] Carl Gustav Jung, La sincronicità (1952) in L’analisi dei sogni, Gli archetipi dell’inconscio, La sincronicità, a cura di Antonio Vitolo, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 194. Citazione di Jung da uno studio del 1924 di Wilhelm von Scholz, il quale aveva composto una casistica sullo strano modo in cui oggetti perduti o rubati ritornano in mano ai loro proprietari.

 

[2] Carl Gustav Jung, Richard Wilhelm, Il segreto del fiore d’oro, tr. di A. Vitale e M. A. Massimello, Boringhieri, Torino 1981, p. 52.

 

 

 
 

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