PERIPLI E
PARADOSSI DELL’ULTIMO KITANO
TAKESHIS’, GLORY TO THE FILMMAKER, ACHILLE
E LA TARTARUGA
Manfred
Giampietro
Ci
siamo: un altro regista di spicco ha finito per girare il
proprio 8 e ½. Così Kitano, che ha però massimamente assimilato la lezione lynchana di Inland
Empire (per l’appunto, un altro film-summa)
e che, con Takeshis’ (prima opera di
una trilogia che l’Autore ha definito come “del suicidio artistico”), approda a
una prospettiva onirico-freudiana ricchissima di citazioni, del proprio come dell’altrui
cinema. La cosa che stupisce, però, è appunto l’influenza del regista
americano: quei luoghi della mente originari dell’alieno nato a Missoula (o
proveniente da Marte, se si vuole dar credito alla celebre definizione
scherzosa, ma non troppo, di Mel Brooks) hanno finito per contaminare anche la
sensibilità di un cineasta che si sarebbe potuto supporre sufficientemente
lontano da quella “fellinianità” – spinta e
moltiplicata ad altezze vertiginose – rappresentata dal mondo lynchano.
Le scene che non sfigurerebbero in Twin
Peaks (o, se preferite, fra le pagine di Lewis Carroll) sono numerosissime
in Takeshis’: nel corso di una
visione che si arrende presto ad una necessaria
interlocutorietà, esse diventano sempre più numerose, in un film che –
grazie alla forza di una ripetitività che sfiora tangenzialmente l’ossessione
– si avvolge e si torce su sé stesso e sui suoi personaggi, in un
profluvio di geminazioni (di doppioni, sosia, copie, ruoli paralleli, morti e
rinascite). Per Takeshis’, infatti,
Kitano lavora addirittura sul concetto di frattale,
che – come è noto, ma forse vale la pena
ricordarlo – è una tipologia strutturale geometrica che presenta al suo
interno ripetizioni tautologiche della struttura stessa, una auto-similarità
basata su scale differenti. Fractus,
spezzato, come il film di Takeshi. Che queste suggestive
creature filosofico-“frazionarie” siano spesso associate agli studi
dedicati alla teoria del caos, non stupisce se si pensa a ciò che accade sullo
schermo: una matrioska di sdoppiamenti immersivi che rompono il personaggio in
più parti, rendendolo osservabile da un’ottica variabile, ogni sfaccettatura
della quale si collega a un ambitus anche sociale – un differente replicante, per dirla con un ossimoro. Il Kitano star televisiva, il Kitano autore cinematografico,
il Kitano attore fallito e commesso improbabile di un negozio, e così via.
Così, a scorrere sullo schermo, compaiono dubbi e domande senza risposta: l’unica soluzione pare il lasciarsi abbandonare ad un’estasi
giocosamente distruttiva, che verrà ripresa e rafforzata con Glory to the Filmmaker: distruttiva,
però, non sul piano della finzione diegetica, ma su quello
dell’autocelebrazione del proprio immaginario. La pellicola è infatti attraversata, e di continuo, da sparatorie di ogni genere e sorta: quest’ultime, fino ad oggi gli
emblemi stereotipicamente obbligati dello yakuza-movie (di cui Kitano è indubbiamente un cantore e un campione – a suo modo),
sono devirilizzate fino alla sublimazione in un atto puro di finzione simbolica,
che serve solo a rendere il corpo filmico una materia magmatica e
permanentemente rinnovantesi. Uno di questi svuotati e sgonfiati showdown pirici, nei quali i colpi e le
traiettorie delle pallottole non sono nulla più che una pura forma, slegata da qualsivoglia efficacia effettiva nella “realtà del film”, è
ambientato in un vasto campo erboso. I fuochi luminescenti e puntillistici
degli oggetti di morte, che appunto non sono più tali, finiscono per disegnare, in felice e candida
sovrimpressione – non dimentichiamoci la formazione pittorica del nostro – le astratte
geometrie delle costellazioni (nient’altro che combinazioni di stelle, dopo
tutto) – in un episodio, forse il più bello di esternazione
poetico-meditativa, che ci ricorda A
Straight Story. Ce ne sarebbero voluti di più per
dare al film un maggiore respiro, per farne un masterpiece?
[…]