BUÑUEL NEL
DESERTO
Nazario Zambaldi
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto,
ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi1
Qualche anno fa, a Bologna, vidi al Lumière, nella vecchia sede del cinema, ovvero nella “T” del Pratello, Simon e padre Nazario come alter ego mio e, immagino, di Buñuel. Anche in seguito, per scelte editoriali non mie o per casualità che credo significativa, ho incontrato per lo più insieme i due, nello specchio che separa e unisce chi scrive, Zambaldi, e il grande Buñuel. Nato nel 1900, anno in cui
Freud pubblica L’interpretazione dei sogni, Luis è coetaneo di zio Alfonso, fratello maggiore di mio nonno Lino, rimasto al paese insieme a Paride, il più piccino, che è da poco – nel luglio 2010 – scomparso nella vecchia casa materna, dopo aver pianto per tutta la vita appena incontrava lo sguardo di qualcuno, per un’emotività sempre affiorante, lacrimante. Alfonso
era invece partito ancora ragazzino alla volta dell’Argentina,
con un altro fratello più piccolo, Alfredo, poi per tutta la vita rimasto a fare il cuoco a Buenos Aires o Mar del Plata, non ricordo, in un istituto religioso senza mai guadagnare abbastanza per tornare, e coltivando una passione regressiva e solitaria, gioiosa in apparenza, per il gioco dei dadi.
Alfonso – con occhiali scuri, cieco da un occhio colpito da un calcio d’animale mentre scambiava nell’infanzia il suo lavoro minorile con i pasti in un maso dell’Alto Adige, raggiunto a piedi, attraverso le montagne, dal Trentino – tornò invece con l’oro, distribuito in piccole monete ai piccoli nipoti, tra cui mia madre, che avrebbe poi avuto denti d’oro. Insomma l’Argentina partecipava, ignorante e a pieno, a quel disordine mondiale di cui a modo suo parla Ezra Pound in Usura,
per cui doveva pagare, come sempre, come oggi, la “meglio gioventù”, e che portò Alfonso, trentino, italiano, senza formazione alcuna, a guadagnare da “ingegnere” nella costruzione di oleodotti, le “petrolere”, come le chiamava nei suoi racconti ormai vecchio. Quando ascoltavo la reiterazione infinita di questa ecolalia,
o meglio egolalia, sull’Argentina, Luis Buñuel era già scomparso da un decennio. Nell’immediato dopoguerra il caso oggettivo che piaceva ai surrealisiti e che guida più modestamente,
o meno, la vita di chi scrive, aveva portato Buñuel da New York nel deserto indicato come “parentesi messicana”,
ma che durò metà della sua vita, in quell’ “Altro Mondo” di cui l’America Latina è l’alterità perduta, repressa, sconfitta, ma non per sempre, di cui Luis, con Nazario e Simon, rappresenta qui l’inutilità soggettiva.