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LE CAROUSEL DE LA JOIE

 

Attraverso My Name Is Albert Ayler (2007) di Kasper Collin

 

Jean-Pierre LeChien

 

 

 Su tutto un sentimento festosamente sensuale:

questo è la musica di Ayler,

una fanfara alla gioia di vivere.

Joe Pinelli, Ayler on Records: Lyrical Rockets

 

 

«Per l'allegria – ha scritto Majakovskij – il pianeta nostro è poco attrezzato. Bisogna  strappare la gioia ai giorni futuri». Siamo nati in una valle di lacrime e la gioia è nell’aldilà: almeno così c’è stato insegnato fin da piccoli. Per questa ragione, forse, manca dalle parti del Cristianesimo – ma anche nei pressi di altri modi di vedere e raccontarsi la vita e la morte – una capacità del piacere equivalente a quella del dolore, per come siamo abituati a vederle. Nelle sue forme più comuni, il piacere è solo volgare, avvilito e avvilente; sempre superficiale, inoltre, mentre il dolore è profondo. Divertirsi, nel linguaggio comune, equivale a “far casino”; il silenzio, la meditazione, la riflessione non divertono. Ci vuole il carnevale, il rovesciamento dei ruoli, la recita di quel che si crede sia l’altro per godere di ciò di cui l'altro probabilmente non gode affatto. Al limite, il godere è demenza, il soffrire santità. Ragion per cui la santa demenza è in Fratres o Tintinnabulum di Arvo Pärt, ma anche ragion per cui l’infantilismo carnevalesco che sprigiona dalla musica di Albert Ayler non viene accettato come tale, ma tradotto in contorta manifestazione di allucinata sofferenza. Così, quel suo gran carnevale infantile, innocente come un gioco, non è proprio stato visto come tale.

C’è chi ha riso tranquillamente, tra i musicisti del passato. Per esempio Gioacchino Rossini (mi rifiuto di ripetere quel Gioachino, che è solo frutto dell'ignoranza di un prete), di un riso che divenne col tempo amaro. Più serenamente continuò a farlo Eric Satie, il cui umorismo molti pensano che non sia che una maschera indossata per nascondere l'incompetenza musicale. In sua difesa, a questo proposito, John Cage affermò che «altrettanto insolente sarebbe immaginare che San Francesco abbia parlato agli uccelli perché non era capace di trasmettere le sue idee ad altri esseri animati» (personalmente non saprei, potrebbe anche essere che lo abbia fatto per non essere interrotto, tanto quelli non lo capivano, né lui loro). C’è da stupirsi di questa comune convinzione per cui l'espressione formalmente felice e uno stato disteso della scrittura sarebbero il prodotto o la nobile filiazione, sublimate le furie, solo di stati di sofferenza, di furore o semplice incazzatura. Lo dice Tancredi all'amata: «Non sai che questa calma è figlia del dolor» [1] . Ma perché? Chiederselo non è una risposta, come non lo sono i pochi versi di Majakovskij qui sopra tradotti.

Joan Miró (1893-1983), grande surrealista dell'arte visiva, nelle sue opere mature esprime l'aspetto felice della creatività infantile; la gioia di vivere è nei versi di Lorenzo de' Medici (1449-92), senza ch'egli, a quanto risulta, sia dovuto passare per i territori del dolore; serena e gioiosa è la musica di Carlo Gesualdo (1560-1613), che cantava la melanconia secondo le convenzioni letterarie dell'epoca, prima che una banale storia di corna non lo costringesse all'assassinio.

 

[…]

 

 

 

 
 

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