ARISTEO A BANGKOK
su Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010)
di Apichatpong Weerasethakul
Manfred Giampietro
La trama di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite
precedenti è presto detta, nella sua “semplice cripticità”:
il protagonista, affetto da disfunzione renale, sceglie di passare l’ultima
fase della sua vita in una casa di campagna, circondandosi delle persone alle
quali più tiene; gli appaiono, sotto forma fantasmatica,
la moglie defunta ed il figlio perduto, che ora ha assunto sembianze
ambiguamente scimmiesche. Egli riflette, con i suoi cari, sulla sua vita e su
ciò che lo attende (un episodio memorabile – e difficilmente collocabile
narratologicamente – racconta di una principessa che, in acque lacustri, copula con una divinità marina), prima di incamminarsi con loro
verso una grotta che, una volta raggiunta, ne accoglie la morte. Il film lascia
spazio a un’ultima digressione sulla “vita civile” della cognata e del nipote
di Boonmee, al termine della quale essi stessi
sembrano diventare fantasmi, prima che la pellicola si chiuda definitivamente
con una sequenza di immagini fisse: foto di soldati.
Tutto qui; per quanto riguarda i luoghi del film (il nordest thailandese), essi
appartengono all’autobiografismo del regista, che forse ha realizzato il suo
film sinora più coinvolgente sul piano del vissuto individuale (il padre di Weerasethakul è morto della stessa malattia renale di Boonmee). Abbandonando il dato squisitamente narrativo, va
subito detto che Weerasethakul ci restituisce
l’immagine di un mondo che non ha paura di convivere con la morte: spettro
angosciante per gli occidentali, essi preferiscono esorcizzarla con l’ausilio
delle “violenze-balletto” tarantiniane, sradicati
come sono, ormai, da un approccio umanistico al reale che anche l’Europa sta
finendo per rigettare – si pensi, ad esempio, al cinema spagnolo o
francese degli ultimi anni, grandemente influenzato dall’immaginario
statunitense del “film-genre” (come lo definirebbe
Rick Altman). Anche il grande Kim Ki-Duk delle prime
opere, come peraltro quello della maturità, abbraccia un materialismo che poco
spazio lascia al culto dei defunti, là dove il regista thailandese finisce per effettuare un’operazione che si potrebbe quasi osare di
definire foscoliana, con il suo legame sentimentale
intessuto tra “i vivi e i morti” (non si leggano qui allusioni cormaniane) che emerge dal film. Infatti, l’aspetto più
affascinante di questo cinema è probabilmente la sua
capacità di conciliare ossimoricamente, in una
sorprendente ed inaspettata sintesi, una dimensione favolistica di indubbia
forza evasiva con l’allusività al contesto storico e politico-sociale. Weerasethakul riesce cioè ad essere un cineasta “impegnato” ed al contempo un affabulatore di grande
candore.
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