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IL RACCONTO CINEMATOGRAFICO DELLA STORIA IN MICHAEL HANEKE

 

Raffaello Alberti

 

 

Le osservazioni che presentiamo qui di seguito costituiscono un primo tentativo di inquadrare l’insieme dell’opera cinematografica di Michael Haneke da una prospettiva inedita; più precisamente, esse riassumono lo sforzo di produrre teoricamente questa prospettiva, e di offrirne una sperimentazione iniziale. Ciò avviene a partire da uno studio dei modi della messa in scena nell’ultimo film dell’autore, Il nastro bianco (Das weisse Band, 2009). Un primo motivo, manifesto, dell’interesse di questa messa in scena è nell’essere una rappresentazione “cifrata” di un passato storico che non compare mai sullo schermo; un secondo motivo, che discende dal primo ma è più profondo, risiede nella concezione della Storia che è necessariamente implicita in questa rappresentazione. In altre parole, la ratio estetica che giace al fondo del Nastro bianco non sarebbe la ricostruzione di un’epoca passata, ma la messa in scena di un divenire-storia della realtà. Se è vero poi che «ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce» [1] , non potremo fare a meno di procedere ad una scansione delle forme che modulano la temporalità lungo il film, e di considerare con attenzione il dispositivo di racconto che provvede alla loro connessione in una struttura significante. In quest’ottica, le nostre riflessioni potrebbero trarre un arricchimento dal confronto, qui solo accennato, con la problematica non facile degli equivalenti filmici dei tempi verbali nella lingua – dunque dal contributo offerto dagli studi consacrati all’enunciazione filmica (sebbene in essi la questione non sembri esser stata trattata finora in maniera sufficientemente dettagliata) [2] . Ad ogni modo bisognerà far emergere, insieme alla concezione della storia che vedremo profilarsi, la concezione del tempo che necessariamente le corrisponde; pare infatti consustanziale ad ogni racconto la proprietà di sprigionare, al di là delle stesse operazioni del tempo compiute dalla narrazione, un’immagine del tempo che ne è come l’anamorfosi o la condensazione visuale [3] . Se Il nastro bianco propone, almeno ad un certo livello, una filosofia della storia, fa anche sorgere, insieme con essa, una idea del tempo che è il suo fondo nascosto e, forse, la sua ragione metafisica.

 



[1] Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 2001, p. 95.

[2] Il testo di riferimento a questo proposito resta Gianfranco Bettetini, Tempo del senso, Bompiani, Milano 1979, che applica al cinema le categorie sperimentate da Weinrich nell’analisi del discorso letterario. Cfr. Harald Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Il Mulino, Bologna 1978.

[3] Cfr. Maurizio Grande, L’operatore-tempo nella narrazione filmica, in L. Albano (a cura di), Il racconto tra letteratura e cinema, Bulzoni, Roma 1997, ora in M. Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003, pp. 101-112, in cui compare una distinzione tra narrazione e racconto alla quale facciamo qui implicito riferimento. Riprendiamo dallo scritto di Grande anche la suggestione, che vedremo tra un attimo, del racconto come «volume», figura solida o «massa di spazio-tempo scolpita». Si tratta di una concezione che si confà particolarmente ad Haneke, e che ci sembra avere una qualche affinità con la figura deleuziana del “cristallo di tempo”.

 

 
 

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