rifrazioni dal cineama all'oltre
 

www.rifrazioni.net /cartaceo/rifrazioni 5/estratti/linee

 

CINEMA, FUORICAMPO DEL PENSIERO

 

Intro

 

Katia Rossi

 

 

I contributi raccolti in questo dossier sono la versione, opportunamente modificata in vista della pubblicazione, degli interventi della giornata di studio "Cinema, fuoricampo del pensiero", svoltasi il 4 marzo 2010 nell'aula magna della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Firenze. Il titolo non deve trarre in inganno. Non si è trattato semplicemente di sovrapporre una concettualità filosofica allo specifico tessuto filmico. Dopo la lezione di Deleuze è del tutto impensabile un'impresa che pretenda forgiare una filosofia del cinema, declinabile nei termini di una mera riflessione su. L'ormai convenzionale, se non logora, endiadi cinema & filosofia vuol dire tutto e niente. I contributi che seguono hanno piuttosto mirato a cogliere il precipitato, le ricadute filosofiche di singoli film, o del cinema in generale.

Ovvio che i riferimenti filosofici ci sono. Oltre all'indispensabile riferimento a Deleuze, vanno fatti almeno i nomi di Alain Badiou  e Jacques Rancière, tanto per rimanere in ambito francese. Tutti e tre rifiutano l'idea che il cinema sia mera rappresentazione, sia cioè sostanzialmente riconducibile all'esercizio del pensiero come riconoscimento di qualcosa che è già dato. Se il cinema rappresenta invece un fuoricampo del pensiero è perché costituisce (o meglio può costituire) un vero e proprio inconscio del pensiero. Per utilizzare la terminologia impiegata da Deleuze (acuto conoscitore di Kant), l'inconscio del pensiero è il campo delle condizioni non rappresentative dell'esperienza: l'impensabile, insensibile, l'immemorabile, l'inimmaginabile. Attraverso l'esercizio trascendentale delle nostre facoltà (pensiero, sensibilità, memoria, immaginazione), il cinema ci espone al rischio di un incontro con una terra incognita, con l'inconscio del pensiero appunto [1] .

Il cinema contiene in sé, nelle sue forme e nelle sue procedure, un supplemento di senso che costringe così la filosofia a trasformarsi, a mettere in questione i propri concetti, a trovarne di nuovi. Come arte che informa la realtà, il cinema costituisce per Badiou un'occasione di pensiero [2] e, al tempo stesso, la prima critica a un'immagine del pensiero attraverso le immagini. Le immagini cinematografiche non sono infatti mai delle rappresentazioni, delle semplici copie della realtà: se la filosofia è una critica dell'immagine attraverso il pensiero, il cinema mette in questione l'immagine del pensiero attraverso l'immagine stessa. Certo è che oggi sembra piuttosto prevalere un abbandono dell'esercizio del pensiero, come è stato variamente denunciato ad esempio da Sandro Bernardi. Egli rileva letteralmente una defezione della riflessione, di quell'ambiguità delle avanguardie che invitava a riflettere, confrontare, pensare; ambiguità che si è ormai rovesciata nell'ambivalenza del cinema odierno (o postmoderno) che spinge all'indifferenza e al gioco: «All'utopia progressista di un cinema che parlava del mondo (il Neorealismo, la Nouvelle Vague), si è sostituita quella regressiva di un mondo che sta dentro il cinema, di vite umane che vogliono diventare finzione» [3] . Uno dei modi per sottrarsi alla celebrazione di questa immersività acritica, religiosa, mistica e onnivora che Bernardi stigmatizza nella bella formula di schermo divorante, è tornare a credere nel mondo – ancora riprendendo la lezione di Deleuze.

In questo senso appare interessante la posizione recentemente espressa da Rancière, che mette in discussione la figura classica dello spettatore come soggetto passivo, insieme alla concezione del cinema come oppio del popolo-spettatore. Anzi, arriva a dichiarare che «il cinema è l'arte che più deve essere costituita dallo sguardo»; un'arte che si fa politica quando è capace di immaginare un mondo, modificando le posizioni costituite nell'universo sensibile, e poliziesca quando si limita a rappresentare il mondo così com'è [4] .

Desidero qui ringraziare anzitutto Ubaldo Fadini e Chiara Tognolotti, rispettivamente docenti di Estetica e di Storia del cinema presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Firenze, che mi hanno affiancato nella realizzazione di questo progetto. Un ringraziamento va anche a Mario Pezzella, direttore del Seminario di Cinema e filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e a Jonny Costantino e Vito Contento che hanno coadiuvato l'iniziativa.

 

 

RIFARSI GLI OCCHI A PERDITA DI PENSIERO

 

Jonny Costantino

 

 

1. Sei domande a mo’ di nord per questo girovagare tra pensieri, per il discorso

in schegge che ne verrà fuori, sotto l’esposizione a impulsi di varia natura

 

 

È pensiero ciò che intravediamo nelle immagini e ci fa pensare?

Se è pensiero, com’è che al cinema può fare a meno della parola?

Le immagini pensano?

Se pensano, come pensano?

Pensare vedendo aiuta a vedere meglio?

Vedere è ancora, è già vivere?

 

 

2. Pro visione, contro melassa

 

 

In principio c’è l’artista, in questo caso: un artista delle immagini, un artista della visione. Davanti a lui – fuori o dentro di lui – il modello: l’inamovibile montagna, il girasole col suo eliotropismo, il corpo di donna che lo affascina, il massacratore che lo atterrisce, la miseria che lo commuove, la dissolvenza in nero che gli sfuoca la mente. C’è dunque l’artista e la sua attrazione verso il modello, il suo bisogno di captarne ghermirne restituirne l’essenza attraverso la propria visione, attraverso una visione. Qualcosa scatta, qualcosa deve scattare tra loro affinché la visione si produca. Come gestire questo qualcosa? Collaborazione è la parola chiave. Ma la collaborazione non sempre procede di pari passo con la buona volontà; più spesso si fonda «sul desiderio, la rabbia, la paura, la pietà o la brama», puntualizza John Berger nell’abbozzare la sua “piccola teoria del visibile”, dove indica delle condizioni preliminari alla collaborazione. Due innanzitutto.

 

La necessità è la prima. La necessità intesa come fame originaria, sprone ad andare a incunearsi con la mente e i sensi lì dove frigge un’impellenza creativa. La necessità labbro che baciamo insaziabili e – insoddisfatti, vampireschi – mordiamo fino a far sanguinare. La necessità demone, forcone che ci punge per costringerci a dar vita a quel che ancora non ha forma. La necessità chiodo contro cui sbattiamo la testa, capocchia unta della nostra materia grigia e molle fiondata contro il muro della visione. La necessità ortica che il sistema dello spettacolo e lo spettacolo del sistema tentano di sradicare per la salvaguardia della propria vacuità costituiva, la necessità bastarda che non si lascia estirpare una volta per tutte, e dove meno te l’aspetti rispunta, proiettando un’ombra d’inquietudine sulle oppiacee distese mediatiche di fiorellini piantine alberelli in copia conforme, un’ombra capace d’illuminarne le radici marce, la protesi nello stelo, le venature di plastica delle foglie posticce, il brulichio di vermi nella corolla. Come se, aprendo un libro per bambini, di quelli dove a ogni voltapagina spunta un’illustrazione in rilievo, a un tratto divenisse percepibile il vero interno della colorata casetta in festa che fa da location alla favola, e il lettore potesse scorgere attraverso le finestrelle uno scenario più simile a Non aprite quella porta che alla casa di Barbie – e il problema, in questo caso, non sarebbe tanto la turbativa arrecata alla sensibilità del piccolo spettatore (i bambini sono molto più forti aperti curiosi di quanto certi adulti malcresciuti li descrivano, molto più attrezzati verso quel che di misterioso e caotico vena il mondo esperibile), quanto il danno inferto all’economia di un editore di favole congegnate per un pubblico di bambinoni di cui si vuole pregiudicare uno sviluppo psichico ed emotivo adeguato all’esperienza della contemporaneità – effetto collaterale che rende l’opera necessaria così sgradita a chi coltiva interessi regressivi.

 

Nel suo farsi virtù, la necessità è dunque la conditio sine qua non della visione collaborativa, la visione che non molla la presa finché non ha dato nuova vita a quel che ha afferrato. Può però non bastare. La collaborazione tra l’artista e il modello richiede altresì ospitalità. Un artista deve essere un buon ospite, deve fare gli onori di quella casa che è la propria fucina creativa. Deve condurlo per mano nel suo immaginario, il modello, e farlo sentire accolto, per quanto l’accoglienza non escluda gradi di brutale visceralità o mirata violenza nel trattamento a cui è sottoposto. Dipende della poetica in gioco. Solo così il modello accetterà di scomparire dalla realtà e ricomparire – sintetizzato, quintessenziato – su una tela o uno schermo in forma di visione.

 

[…]



[1] Cfr. D. Zabunyan, Gilles Deleuze. Voir, parler, penser au risque du cinéma, Presse Sorbonne Nouvelle, Paris 2006; e P. Godani, Deleuze, Carocci, Roma 2009, soprattutto il § "L'inconscio del pensiero", pp. 67-73.

[2] Cfr. A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009.

[3] S. Bernardi, Il piacere dell'incubo, in «Il Ponte», Il cinema non è il cinema, 4 (aprile 2008), p. 21.

[4] Cfr. Le ragioni del disaccordo, Conversazione con Jacques Rancière a cura di R. De Gaetano (con la collaborazione di P. Godani e A. Inzerillo),  in «Fata Morgana», 9 (2010). Di Rancière cfr. anche Il destino delle immagini, introduzione di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2007.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -