STAN BRAKHAGE
Scene dalla vita di un dossier
Andrea La Porta
Di solito, si ringrazia alla fine (sempre che ci sia
qualcuno da ringraziare): in chiusura di una prefazione o di un saggio, in
quarta di copertina di un libro o negli spazi riservati in seconda o terza di
copertina di una rivista. Insomma, dopo. O fuori. Fuori del flusso di parole,
di pensieri, di considerazioni. D’altra parte, cosa c’entrano i ringraziamenti
mentre si discute di percezione, di pensiero visivo in movimento, di cine-amatorialità, di esperienza, di poesia
cinetica o, meglio, cinematica? Ringraziare è un atto formale (doveroso) di
cortesia, e la sua espressione locutoria un enunciato performativo. Ma,
diamine, lasciamo che si dica e si finisca di dire, prima di ringraziare! Ma
ringraziare, qui, per me, è già un argomento, dei principali, un rendere
omaggio all’oggetto del mio stesso dire, Stan Brakhage, che ha più volte
sottolineato, fino a teorizzarla, l’importanza dell’inclusione nel corpo, vivo
(o morto), dell’opera di materiale che sembrerebbe, ma solo in apparenza,
esserle estraneo, o non necessario. A partire dall’indicazione della paternità
dell’opera, dalla firma, da quel “di chi è?”: «“Di Brakhage” [By Brakhage] dovrebbe intendersi nel senso di
“per via di Stan e Jane [la prima moglie di Stan] Brakhage”, come per tutti i
miei film dopo il mio matrimonio. Comincia a voler anche dire: “per via di Stan
e Jane e i bambini Brakhage”, perché tutte le scoperte che solevano passare
solamente attraverso lo strumento costituito da me stesso cominciano a
percorrere la sensibilità di coloro che amo. Un giorno questi passaggi si
estenderanno sino a percorrere le sensibilità di coloro che adesso posso
solamente immaginare di amare. Infine “di Brakhage” sarà superfluo ed andrà
inteso nel suo senso ultimo “per via di tutto”». Questa dichiarazione di
Brakhage,
premessa al suo libro-manifesto del 1966 Metafore della visione, è la dichiarazione di un artista
del Novecento, purtroppo scomparso nei primissimi del Duemila. E tutto il
Novecento, non ha forse messo a soqquadro la vita dell’arte per introdurvi
l’instabile vita della vita, arrivando talvolta ad artarla, la vita, a renderla essa stessa
opera nel suo vano esserci, a costo di farle perdere così (dolce crudele
paradosso) la propria immediata vitale banalità, e però consegnandola
all’immortalità? Come dire: Si cominci a vivere, ora che si è morti! «In quale
altra opera – si è domandato P. Adams Sitney – il cinema è così
inestricabilmente legato alla vita?». Allora grazie, “Rifrazioni”, per aver voluto dedicare a Stan
Brakhage una special section. «La “Storia del Cinema” – ha scritto qualche anno
fa il cineasta totale greco Thanassis Rentzis con ironia sofferta quanto indignata – è
la storia dei suoi prodotti commercialmente distribuiti e solo di essi. Mentre
sarebbe superfluo che qualsiasi storia della letteratura dedicasse anche una
pagina ad Agatha Christie oppure ad Edgar Wallace, le storie del cinema fanno
quasi l’opposto. Quante pagine sono dedicate ad un autore come Brakhage che si
potrebbe definire il Joyce del cinematografo? Nessuna. Così dunque fino ad ora
le storie del cinema trattano principalmente quella parte di esso che gode del
privilegio della distribuzione commerciale. Per esempio Agatha Christie
dimostra una quantità di vendite che arriva a 400.000 copie all’anno solo in
lingua inglese, mentre Joyce ne dimostra solo 12.000. Certo però che la storia
della letteratura si scrive misurandosi con Joyce e non con A. Christie, ma al
cinema accade l’opposto». Grazie, dunque, alla coscienza critica(-mente)
autocosciente di “Rifrazioni”, al suo oltre. Che è, a guardar bene, l’oltre di Brakhage.
[…]
IL RITMO E STAN BRAKHAGE
Robert A. Haller
Nel cinema di Stan Brakhage lo spettatore si trova
inopinatamente al cospetto in maniera vicaria, come se la sua percezione fosse
filtrata dai sensi di Brakhage, di un mondo sconosciuto, non il mondo che
credevamo ci fosse familiare e con il quale solitamente ci relazioniamo sulla
base di abitudini e convenzioni, abitudini e convenzioni che di fatto anzi ci
ottenebrano la vista a meno che non si decida di VEDERE, di riappropriarci
della libertà cui la consuetudine ci ha indotto a rinunciare. Per Brakhage
questa è un’avventura esaltante, che ci accompagna in un luogo – lo
schermo cinematografico – dove un tripudio di immagini variegate si
susseguono assemblandosi in sempre nuove configurazioni. Alla fine, nei suoi
film dipinti a mano Brakhage si discosta risolutamente dalla realtà esteriore,
per ritrarsi in un’internità governata e scandita dal colore delle emozioni e
dai ritmi del respiro e delle pulsazioni.
È proprio sulla ritmicità dei film di Brakhage che intendo
soffermarmi in questo scritto, ma prima di farlo vorrei citare rapidamente il
cineasta Henri Chomette che nel 1920 scriveva:
Il cinema non si limita alla forma rappresentativa. Esso
può creare, ed ha già creato, una sorta di ritmo, quel ritmo che gli fa
estrarre nuova linfa da se stesso, con la quale rinunciare alla logica dei
fatti e alla realtà degli oggetti per generare visioni sconosciute, inconcepibili
al di fuori del rapporto occhio della macchina da presa/pellicola.
Non abbiamo motivo di credere che Brakhage fosse a
conoscenza dell’osservazione di Chomette sul ritmo. Piuttosto, sembra che egli
sia pervenuto autonomamente a una conclusione del genere, come dimostra il
fatto che i suoi film sono contraddistinti da precise strategie di montaggio
che fanno uso percentualmente dello stesso numero di pause di ripresa e di
immagini girate per la costruzione del film. Il movimento, il colore, le
immagini, e soprattutto il ritmo sono gli elementi chiave della sua poiesi
cinematica. Brakhage esordì filmando il suo ambiente, la gente che conosceva,
soprattutto la sua famiglia – realizzando una serie di immagini tratte
dal mondo reale. Per gli spettatori degli anni ’50 e ’60 il suo montaggio
veloce – la brevità (anche meno di un secondo) delle singole inquadrature
– costituiva un fattore di disturbo e di turbamento, ancorché essi
riuscissero a leggere le immagini, a riconoscere ciò che era stato filmato.
Quando fece Mothlight, nel 1963, non era la prima volta che Brakhage filmava
l’irriconoscibile, ma la sua posizione di operatore di ripresa, in questo film,
che sembra riproporre l’angolo visuale di un insetto, annunciava il suo
accoglimento di un punto di vista radicalmente differente. Quello che questo
film ci mostrava non era l’ambiente umano o terrestre, ma qualcosa che non
sembrava appartenesse alla nostra esperienza di umani.
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