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SFONDARE LE IMMAGINI

Il riscatto della complessità nella musica di Mozart

 

di Anna Scalfaro

 

 

Si sa, la musica non si può mettere in gabbia. Resiste, difende la propria indipendenza, disdegna chi (per poca immaginazione o per difesa culturale) le affida un senso univoco. [1] È  proprio la natura ambivalente della musica a renderla componente essenziale del cinema. La sostanza evanescente dei suoni, che non si lascia toccare ma avvolge i luoghi e le persone, aggiunge profondità spaziale e lontananza nel tempo alle immagini piatte dello schermo, accenna la presenza di un “altrove” in cui l’intelligenza dello spirito può confrontarsi libera con se stessa. Il cinema, d’altro canto, riesce ad associare e a integrare stili e generi musicali differenti in un meccanismo sincretico che (talvolta) ha del miracoloso. È un incantesimo però, il cui effetto si protrae «solo nel tempo e nello spazio» della durata del film. [2]

 

Mi limito qui all’impiego di musica preesistente, accantonando la delicata questione della musica composta per il film. Mi sembra così di poter prediligere, nelle osservazioni personali sul rapporto tra la colonna sonora e la pellicola, gli aspetti più musicali, concernenti cioè la forma e la struttura dei brani. È necessario chiarire che qualsiasi composizione musicale ha un significato originario, determinato dal periodo storico e dall’ambiente in cui nasce, dalla funzione che è chiamata ad assolvere nonché dallo stile della scrittura. L’intrinseca non referenzialità, tuttavia, fa sì che l’arte dei suoni possa adattarsi, docile e malleabile, a svariati contesti e assumere innumerevoli sembianze. È indubbio, quindi, che la musica preesistente, impiegata in un film, perda parte del suo significato originario per adattarsi al racconto filmico e assumere lineamenti inediti. Da questo punto di vista, il cinema è un ottimo medium di diffusione della musica d’arte contemporanea (nell’accezione storiografica del termine, cioè di musica d’arte del Novecento), che, privata di un supporto come l’immagine, per ragioni di natura percettiva, non riesce a imporsi all’attenzione del grande pubblico. Il rischio è di associare irrimediabilmente tali musiche ad un determinato personaggio o ad una determinata situazione raccontata nel film. [3] A non correre questo rischio sono le musiche di quegli autori assurti ormai, nell’immaginario collettivo, a miti della storia della musica e dell’arte in generale, le cui opere musicali, per il tipo di scrittura più “familiare”, risultano accessibili a più persone (accessibilità che non significa sempre comprensione). A non correre questo rischio, insomma, è la musica di Wolfgang Amadeus Mozart.

 



[1] Cfr. M. Chion, Le son au cinéma, L’Étoile, Paris 1994, p. 115.

[2] Ivi, p. 117.

[3] Vd. A. Poirier, Le funzioni della musica nel cinema, in Enciclopedia della musica, dir. da J. J. Nattiez, vol. I Il Novecento, Einaudi, Torino 2001, pp. 628-630.

 

 
 

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