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LAVORARE PERSONE

 

di Adriano Zamperini

 

Il dentro per capire il fuori, o il fuori per fare il dentro. Ribaltamenti di prospettive congeniali al prison movie, genere ampiamente noto. E benché sia tipico del cinema nordamericano, è stato rivisitato praticamente da qualsiasi tradizione cinematografica al mondo. Una sua quantificazione è impresa titanica. Come dimostrato anche dai recenti Il profeta (2009) di Jacques Audiard e da Cella 211 (2009) di Daniel Monzón, indubbiamente il carcere attira. Offre innumerevoli stimoli per affrontare il complesso tema della giustizia: parla di norme e devianza, colpe e riscatto, oppressione e violenza, indifferenza e solidarietà. E l’elenco è ancora lungo, interessando praticamente tutti gli assi portanti del vivere comune. Lo spettatore è facilmente conquistabile attraverso protagonisti, talvolta ispirati a vicende reali, che sanno riempire il suo sguardo, calamitando emozioni e attenzione. Spesso sono singoli prigionieri, rei di un passato biasimevole oppure ingiustamente condannati. Altre volte interi gruppi che anelano una libertà privata con la forza; è il caso di film corali dove lo spettatore parteggia per la riuscita di un’evasione da un campo di prigionia militare o da un campo di concentramento.

 

Talvolta è lo stesso spazio quotidiano a farsi prigione, quasi a rimarcare la facilità con cui i confini spaziali possano farsi impermeabili, trattenendo le persone al loro interno. È il caso, per fare un solo esempio, di Private, un film del 2004 di Saverio Costanzo. Dove, sullo sfondo della guerra arabo-israeliana, una casa palestinese viene occupata dall’esercito israeliano trasformandosi di fatto in una prigione. Certe volte la dinamica tra dentro e fuori, tra fiction e realtà, genera contaminazioni crudeli. Qual è la vicenda del regista turco Yilmaz Guney, che in carcere ha scritto sceneggiature e diretto parte dei sui film sul carcere. La rivolta (Le mur, 1983) si fa bandiera della necessità di cambiare le regole della vita carceraria, affidando l’impresa a un gruppo di minorenni impegnati a ottenere condizioni detentive meno dure; mentre in Yol (diretto nel 1982 dall’amico Serif Gören) cinque detenuti, ottenuta una settimana di licenza da passare in famiglia, una volta usciti perpetuano le medesime regole e modelli comportamentali che seguivano dietro le sbarre. Sancendo la continuità tra il dentro e il fuori del carcere. Yol in turco significa strada, ma anche direzione, via d’uscita.

 

Quella via d’uscita che nel prison movie, andando a costituirsi come genere, è rappresentata inevitabilmente dall’evasione. Il suo schema classico: riprendersi la libertà sottratta. E quanto più pare impresa improbabile, perché il luogo della detenzione sembra inviolabile, tanto più la sfida si carica emotivamente. Alla stregua di qualsiasi altro genere cinematografico, il film carcerario ha costruito una peculiare galleria di situazioni e personaggi. Abbiamo il protagonista, innocente o colpevole che sia, il compagno di cella che può dimostrarsi amico fidato oppure una serpe, peggio ancora quando si scopre essere un perverso aguzzino, i secondini sadici e l’autoritario direttore del carcere completano il cast. Quest’ultimo sovente è addirittura raffigurato alla stregua di padrone assoluto della realtà, dentro e fuori la prigione. In tal senso, è emblematica una battuta di Fuga da Alcatraz, celebre film diretto da Donald Siegel nel 1979. Clint Eastwood, nei panni del detenuto Frank Morris, è al cospetto del direttore, che gli dice: «Non avete il permesso di ricevere giornali o riviste con notizie di cronaca. La conoscenza del mondo esterno si limita a quello che dico io».

 

 

 
 

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