rifrazioni dal cineama all'oltre
 

www.rifrazioni.net /cartaceo/rifrazioni 4/estratti/linee

 

LO SCALPO DI DILLINGER

 

Su Nemico pubblico (2009, di Michael Mann)

 

di Dario Melossi

 

 

Uno dei “padri fondatori” della sociologia, il grande Emile Durkheim, riteneva che una funzione fondamentale della criminalità, e dei “grandi criminali”, fosse quella di fornire al resto di noi quel senso di sdegnata reazione a cospetto dei loro misfatti che conferisce significato alla nostra “coscienza collettiva”. [1]   Come scriveva uno studioso contemporaneo di John Dillinger e che come lui avrebbe frequentato le bollenti strade di Chicago tra anni venti e primi anni trenta, il filosofo e psicologo sociale George Herbert Mead, «il criminale non mette seriamente a rischio la struttura della società con le sue attività distruttive, epperò al tempo stesso è responsabile per un senso di solidarietà che si crea tra coloro la cui attenzione tenderebbe invece ad accentrarsi verso interessi alquanto divergenti gli uni dagli altri». Per cui, conclude Mead, «la giustizia penale può svolgere una funzione essenziale per la conservazione dell’ordine sociale anche quando consideriamo l’impotenza dell’attacco del criminale contro la società, così come il goffo fallimento del diritto penale nei suoi apparenti sforzi di repressione e soppressione della criminalità». [2] Queste parole, provenienti da una delle colonne portanti del pragmatismo americano e della Scuola di Chicago in particolare, pubblicate quando il giovane John Herbert Dillinger aveva appena 14 anni e viveva nella vicina Indianapolis dove era nato, potrebbero essere poste ad epitaffio del destino che avrebbe aspettato John Dillinger nella sua breve ma intensa carriera. Un altro grande della filosofia sociale, francese come Durkheim ma più vicino a noi, Michel Foucault, avrebbe a sua volta contribuito a dare una nuova veste a questo antico tema, laddove, in Sorvegliare e punire, [3] ci parla di una sorta di “dialettica” tra “illegalismi” e “delinquenza”, una traduzione letterale del termine francese che potremmo ben rendere anche con “criminalità”.

 

Anche la storia che si dipana nel bel film di Michael Mann, Public Enemies, basato sul libro di Bryan Burrough dallo stesso titolo, [4] si destreggia tra l’“illegalismo” di Dillinger e gli sforzi della società ufficiale americana, in primis un FBI ancora semplicemente “Bureau of Investigation” ma già sotto il comando del padre-padrone che lo guiderà sino alla morte, John Edgar Hoover, per trasformare tale illegalismo in pura e semplice delinquenza. Secondo Foucault, infatti, “illegalismo” è il tipo di criminalità che non è facilmente inquadrabile negli schemi, che non è gestibile dalla società ufficiale attraverso gli strumenti delle forze dell’ordine, della magistratura e dell’opinione pubblica, che mette in discussione l’ordine sociale e giuridico nello stesso modo in cui, nella Francia del diciottesimo secolo, poteva accadere che la folla che si accalcava intorno al palco dei condannati a morte inneggiasse ad essi e alle loro efferate imprese. Ben diverso è il caso invece della “delinquenza”, la criminalità sottomessa al, e gestita dal, potere, la criminalità che è per definizione “utile”, ritrovo di spie e informatori, reclutatrice di crumiri e agenti provocatori, bande di gangsters al soldo di pubblici ufficiali e capitani d’impresa senza scrupoli, criminalità organizzata che si incarica di fornire quei beni e servizi che la società ufficiale non è in grado di bandire completamente ma che d’altro canto non può neanche apertamente riconoscere come leciti (massimamente, negli anni venti del secolo scorso, in America, l’alcol, più tardi si tratterà del gioco e dopo ancora di quella nascente nuova miniera d’oro, le “droghe”). Dillinger non farà mai parte di questo mondo, aiutato forse da esso all’inizio – così ci mostra il film di Mann – sempre più osteggiato alla fine perché, cane sciolto e solitario, è diventato pericoloso per gli interessi di questo mondo e del suo instabile equilibrio con le agenzie di controllo. Per tutta la vita di Dillinger, in pratica racchiusa nell’intenso anno che va dalla sua scarcerazione dall’Indiana State Penitentiary nel maggio 1933 a quando cadrà sulle strade di Chicago nel luglio dell’anno dopo, la stampa lo costruisce come eroe e lo dileggia come pericoloso delinquente, in un’altalenarsi che disegna una vera e propria lotta per l’egemonia culturale che si svolge intorno alla sua figura e in cui sempre più si insinua decisa la lunga mano di J. Edgar Hoover e la presenza sempre più incombente del nuovo potere federale che segna gli anni del New Deal rooseveltiano. [5]

 



[1] Cfr. Emile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), Edizioni di Comunità, Milano 1999 e Id., Le regole del metodo sociologico (1895), Edizioni di Comunità, Milano 1979.

[2] Cfr. George Herbert Mead, “The Psychology of Punitive Justice” (1917-1918), pp. 212-39 in G. H. Mead, Selected Writings, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1964, p. 227 (mia traduzione).

[3] Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire: Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976, pp. 282-323.

[4] Cfr. Bryan Burrough, Public Enemies: America’s Greatest Crime Wave and the Birth of the FBI, 1933-34, Penguin Press, New York 2004.

[5] La gran parte delle notizie biografiche su John Dillinger qui riportate sono tratte da Elliot J. Gorn, Dillinger’s Wild Ride: The Year That Made America’s Public Enemy Number One, Oxford University Press, Oxford 2009.

 

 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -