ALICE, SHERLOCK HOLMES
E L’OMBRA DI RAMBO NELL’ERA DEL DIGITALE
di Laura Falqui
Con
l’avvento delle tecnologie digitali ci si è allontanati sempre più, anni luce
potremmo dire, da ciò che il cinema ha rappresentato dalle origini fino a… poco
tempo fa. Già ora, mentre sto scrivendo, e più ancora quando questo articolo
verrà pubblicato, qualcosa di definitivo e di irreparabile sarà avvenuto. Le
sempre più ampie possibilità di movimento della m.d.p., unite al freddo
splendore delle ricostruzioni e dei ‘perfezionamenti’ digitali di oggetti,
ambienti, paesaggi, esseri umani, mentre già si annuncia l’avvento del 4D
(effetti olfattivi, tattili e chissà che altro), stanno generando un nuovo
visionarismo in vertiginosa evoluzione. In esso il rapporto tra spettatore e
film, inizialmente empatico, emozionante, creativo, ‘analogico’, basato su
interiorizzazione ed elaborazione soggettiva della image-mouvement, sembra si stia perdendo nei
vortici del vuoto. Vuoto cosmico? Vuoto meditativo? Sfondamento in altre
dimensioni? Purtroppo no: semplicemente una clamorosa e acclamata Mancanza di
tutto ciò che ha fatto del Cinema la Decima Musa.
Smarrita la continuità con le origini pittoriche e
fotografiche; approssimativo lo studio dell’inquadratura in relazione a ritmo,
durata, montaggio, percorso narrativo; in agonia la chiarezza e stabilità del
quadro visivo; assenti l’intensità poetica, l’articolazione meditata della
sceneggiatura.
Cosa resta? Una menzogna: dei sensi, del pensiero,
dell’immaginazione. Un inganno fatale. Una mascherata compiuta attraverso una
specie di gioco delle tre carte, mirante a intontire lo spettatore con sonorità
assordanti, allestimenti lussuosi e azioni velocissime, per coprire le pecche
di sceneggiatura, di recitazione, di logica narrativa, di qualità estetica.
Finora era mancato lo sfondamento in profondità, la possibilità del trompe
l’oeil dinamico,
ma con il nuovo 3D gli effetti tridimensionali hanno raggiunto una squillante
credibilità davvero spettacolare, a tratti meravigliosa (Avatar di James Cameron, sebbene la
trama sia di una banalità e di una prevedibilità sconcertanti). Ed ecco allora,
dinanzi allo sguardo irretito dello spettatore, i cromatismi accendersi di
profondità inusitate, mondi irreali rivelare i loro segreti prospettici come fiori
che si dischiudono improvvisi alla luce e dentro questi mondi avanzare creature
misteriose, mai viste o ripescate in vesti insolite dalla letteratura: vere e
proprie sculture viventi che si animano fluttuando a tutto tondo in ambienti
che paiono trasmessi, senza mediazione, dalla mente dei tecnici e registi alla
mente dello spettatore il quale non pensa di star guardando un prodotto visivo,
ma è portato a credere di aver foggiato egli stesso, con la sua immaginazione, un
tale, splendido sogno a occhi aperti. Magia, dunque: quella piena di trucchi di
un illusionista sulla scena. Magia, illusionismo, riflessi di specchio, sogni
ad occhi aperti costituiscono l’essenza stessa del cinema il quale altro non è,
in fondo, che un gioco di fantasmi resi vivi dalla luce. Tutto questo è vero o
per lo meno lo è stato finché la corsa alla verosimiglianza non ha preso il
sopravvento sulle altre componenti espressive, cioè finché le possibilità
offerte dalle scoperte tecnologiche non hanno, in un certo senso, travalicato
i limiti e
permesso di accedere a un ‘perfetto realismo’, intendendo con ciò la
ricostruzione maniacale di ogni dettaglio. Nel regno del digitale si manipolano
le immagini lavorando sull’eccesso, in una smania incessante di superamento
tecnico. Una ‘perfetta’ immagine realistica, proprio in virtù della sua
‘perfezione’, rimarrà inerte e fredda: in essa la natura è ghiaccio dipinto, i
sentimenti sono simulacri, l’anima muore. Nell’universo dell’iperrealtà
cinematografica “ogni passione è spenta” e nemmeno la ragione è presente,
perché l’intelletto sembra essersi trasferito a una qualche funzione creativa
dei circuiti digitali.
Stiamo
assistendo a un immenso naufragio: della cultura, della sensibilità,
dell’espressione creativa, dell’individualità. Gli attori umani offrono
sembianze che verranno manipolate e alterate al preciso scopo di mostrare forme
e sentimenti vuoti allestiti per l’elaborato palcoscenico della Simulazione (Polar
Express, 2004, Un canto di Natale, 2009). Come gli Hollow Men di T. S. Eliot, sembra che essi
mormorino dal loro piccolo inferno asettico: «Siamo gli uomini vuoti / Siamo
gli uomini imbottiti / Che appoggiano l’un l’altro / La testa piena di paglia.
Ohimè! / Le nostre voci secche, quando / insieme sussurriamo / Sono calme e senza
senso». L’essere ‘senza senso’ è alla base di un tale stato di simulazione.