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LOURDES, ORNETTE COLEMAN E I FANTASMI

 

di Flavio de Marco

 

 

Il cinema non è una rappresentazione del reale. Il cinema è, per forza di cose, il reale. Potrebbe essere una dichiarazione scontata, poiché in fondo è sempre stato così. Potrebbe anche risultare ingenuo ma, in questa sede, è proprio la locuzione “per forza di cose” che ridefinisce, in termini di finzione, il rapporto tra il cinema e il reale. Ritornare sulle definizioni non è fuori luogo se questo ritorno è un’emergenza dettata dal vissuto, un riappropriarsi delle cose nel momento in cui il vissuto rischia di scollarsi dal vivere stesso. Forzare le cose potrebbe significare, in questa prospettiva, percepire il quotidiano a partire dal grado di irrealtà con cui si manifesta. Né analisi né riflessione, piuttosto scavalcamento per necessità, dove il necessario non è tanto l’immediato sentire quanto l’urgente ricordare. “Per forza di cose” è in sostanza il potenziale celato nel visibile, la piega del vissuto, un vedere inteso come iperbole temporale che sbalza ciò che abbiamo di fronte verso il già stato e il sarà ancora. Dato per acquisito che il reale e il suo simulacro appartengono ad un medesimo corpo, è proprio lo spazio in cui questo corpo ibrido tende i suoi muscoli a garantire una vita reale. Reale, appunto, non in quanto un esserci qui e ora, semmai come un sentire di non esserci già più. Guardare la vita dalla prospettiva dei morti. Vedersi felicemente deceduti ogni volta che un gesto mimetico precede il modello e ne trova la copia per induzione sentimentale. In breve si tratta di pensare alla rappresentazione non come sforzo di trasformazione del reale, bensì come arresto del movimento del reale nel baratro aperto da un sentimento di cui non ne comprendiamo l’origine in vita, ma soltanto l’appartenenza in quanto già morti, già stati, e dunque, non avendo più nulla da perdere, necessariamente più vivi. Né storia né tecnica, soltanto la luce del sempre lo stesso, il dolore del tempo quando l’occhio di un uomo scavalca la sua nuda vita, il suo respirare, il suo esserci, per guardare in senso opposto, dalla morte verso la vita.

 

La vita di chi va al cinema è una vita immortale. Andare al cinema è custodire quest’eccezionalità dell’esserci come essere già stati, e riprodurla in ogni gesto. Così, da quest’angolazione, può accadere che, per effetto di una sinestesia linguistica fuori sincrono, si può vedere qualcosa non soltanto prima di averla realmente vista, ma di vederla anche nella forma di un altra. Non per effetto di proiezione o desiderio ma proprio in virtù di quest’abilità di parlare con i morti. Mi riferisco nello specifico ad un concerto di Ornette Coleman della scorsa estate, nel giardino del castello di Neuhardenberg, una località a un’ora e mezzo da Berlino verso est, quasi al confine con la Polonia. Il cartellone presentava l’ultimo disco del maestro di Forth Worth, Sound Grammar, 2006.

 

 
 

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