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GIOCARE A PERDERE

 

di Jonny Costantino

 

 

Il vero progetto artistico

è sempre una cosa tormentosa per l’artista

ed è quasi pericoloso per la sua vita.

 

Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo

 

Avete mai visto,

nelle fredde notti d’inverno limpide come cristalli,

certe luci che brillano più intensamente delle altre,

come se volessero uscire da se stesse con il loro bagliore?

 

Antonio Moresco, Gli incendiati

 

Tu vuoi essere pagato per la tua anima.

 

Rose Coleman al figlio Ornette

 

 

Giocare a perdere. Oggi mi sono svegliato con un bruciore particolare, con l’esigenza di grattare il fondo di questa formula. Di dissodarla, impedirle di sonnecchiare quale modo di dire tra gli altri, ridestarla quale condizione spirituale e (rivendicazione di uno) stile di vita. Giocare a perdere rispetto all’opera. Sia essa un film, un quadro, uno scritto o – anche, in un certo senso – una rivista, una rivista come “Rifrazioni”.

 

Innanzitutto: cosa rivendichiamo quando sosteniamo di giocare a perdere? Diciamo forse che il fine del nostro gioco, il gioco della vita, è la perdita? Che lo scopo della nostra opera è cadere tra gli uomini come un seme che non può attecchire? Che quanto abbiamo strappato in duello alla tenebra dell’indistinto lo stiamo destinando alla dispersione e all’oblio, se non allo scempio e all’insulto? No, non è questo il senso. Se così fosse, giocare a perdere ridurrebbe l’atto di creazione a una mera deiezione, più o meno faticosa, o a un’operazione autolesionista, più o meno ipocrita. Creare è e resta un atto di umanità rivolto all’umanità, nonostante la distanza critica che si può assumere, nell’opera, rispetto al concetto di umanità. Che poi l’opera spiaccia, che susciti riprovazione o indigestioni, che calamiti odio, invece di amore, che il gusto dell’autore non incontri quello del grande pubblico (non tutti hanno la fortuna di essere Hitchcock, il solo poeta maledetto che abbia sbancato al botteghino, come lo definì Jean-Luc Godard), e che di questa necessità funesta egli sappia fare virtù, che nella sua fucina il fiele si sublimi nel miele dell’arte, questo è un altro paio di maniche. Tantomeno giocare a perdere è la cappa che avvolge un idealismo donchisciottesco con la spada spuntata. Il gioco a perdere è un gioco lucido, un gioco per chi è in grado di distinguere i giganti dai mulini a vento, con i rispettivi statuti e gradi di realtà.

 

Quand’è allora che si gioca a perdere? Si gioca a perdere quando il frutto del proprio fare non è tarato sull’obiettivo di una vittoria esterna all’opera. Quando l’opera nasce quale espressione di una visione autentica, autentica nella misura in cui nel venire alla luce non c’è stato spazio per il calcolo del suo impatto, autentica perché non è stata orientata o condizionata o forzata affinché piacesse al prezzo di tradire le istanze che l’hanno necessitata. La vittoria, se c’è, è nell’opera in sé, non nella resa economica o nella risonanza mediatica. Giocare a perdere implica un ammutinamento rispetto alle logiche di consumo imperanti e alle preferenze maggioritarie, un’indifferenza generativa verso i ricatti dell’utile, la religione dell’utile, nostra confessione planetaria. Implica il prendere partito per la profondità, per il lento lavoro di trivella, di fronte all’evidenza che la superficialità è il motore della comunicazione-che-funziona, che funziona in quanto pre-fabbricazione di una percezione del presente a uso di un’audience di consumatori e a profitto di vampireschi centri di potere. Implica il vaccinare l’opera contro l’influenza dello slogan. Renderla immanipolabile, inaddomesticabile. Così facendo, che siano uno, nessuno o centomila coloro a cui arriva, se tocca qualcuno, l’opera, lo tocca davvero, si mette in condizione di plasmarsi il proprio pubblico. Delicato e pericoloso, questo gioco manifesta una spiccata propensione all’inattualità, qui da intendersi soprattutto come un porsi al di fuori dell’attualità, quel che basta per poterla scrutare a tutto tondo, per non esserne fagocitati. E sottende, per contraccolpo, l’essere disposto a pagare il prezzo, che può voler dire compiere una scelta di povertà, imparare a forgiare i propri strumenti nella miseria, a ricettare notte per distillare spiragli nella miseria del mezzo. Scegliere una radiosa povertà abbracciando una morale del dispendio, di ciò che Georges Bataille – nel Limite dell’utile – chiama dépense ricorrendo alla metafora della stella.

 

 

 
 

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