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MACROSTRUTTURE DELLA NARRAZIONE CINEMATOGRAFICA:

 

IL RACCONTO MULTIPLO A MONTAGGIO SCOMBINATO

 

di SANDRO SPROCCATI

 

 

Nella letteratura dell’Occidente la prassi delle acronie narrative è reperibile fin dalle piú remote origini. L’Odissea, ad esempio, inizia platealmente in media res, vale a dire con il protagonista già prigioniero di Calipso, così che solo giunto al Canto IX il lettore – grazie a un’ampia e potente costruzione analettica –potrà apprendere dalla bocca dell’eroe il resoconto (proferito a beneficio dei Feaci) che gli consentirà di risalire all’inizio della storia, vale a dire alla partenza di Odisseo da Ilio e alle prime avversità del suo tormentatissimo viaggio verso Itaca.

Nello sviluppo della narrazione cinematografica, invece, il flash-back – che è la piú semplice e primitiva forma di acronia – deve essere considerato una conquista relativamente tarda, collocabile in epoca comunque post-griffithiana, se è vero che per trovarne un primo esempio compiuto ed efficace occorre attendere il 1919, ossia Il gabinetto del Dottor Caligaris (Robert Wiene), nel quale alcuni eventi sono immaginati come annotati sopra un vecchio taccuino, e pertanto vengono visua­lizzati da una sequenza filmica che li restituisce allo spettatore dopo che questi ha già appreso il loro séguito [1] .

La narratologia genettiana [2] affronta i problemi di ordine del racconto muovendo dal principio secondo cui esiste una “normalità di stato”, ossia un grado zero a livello narrativo che coincide con la condizione per cui il tempo del racconto e quello della storia si muovono in parallelo tra loro [3] . Si tratta di una condizione – per cosí dire – del tutto naturale, dato che risponde alla tendenza, nella vita di tutti giorni, a riferire una serie di eventi accaduti iniziando dal principio (della successione cronologica dei fatti) e procedendo verso la fine (della medesima). Una simile inclinazione produce ciò che è da indicarsi come linearità del racconto, una sorta di vincolo aprioristico rispetto a cui dovranno essere considerate acronie (nien­t’al­tro che figure retoriche [4] di tipo narrativo) tutte le diversioni (trasgressioni) operate contro di esso o, in altri termini, tutti gli scarti (écarts) da ciò che costituisce la linearità, dunque l’ipotetico “grado zero” narrativo.

Genette ha chiamato analessi le acronie che prevedono una “retrocessione” del racconto, ossia il recupero di eventi accaduti prima di altri già narrati, e prolessi quelle che prevedono una “anticipazione”, ossia il resoconto di eventi accaduti dopo quelli che sono ancora da narrare. Le analessi in letteratura sono talmente frequenti (come del resto anche nel cinema) che non vale la pena di citare ulteriori esempi dopo quello dell’Odissea di cui dicevo, mentre il caso forse piú puro e significativo di prolessi, nel romanzo classico moderno si trova all’inizio de La morte di Ivan Ilič di Lev’ Tolstoj, dove il narratore dedica il primo capitolo alla descrizione di un fatto (Ivan Ilič è morto) di cui il racconto, in uno sviluppo diacronico che occupa tutti gli altri undici capitoli, andrà in seguito a fornire i motivi, i precedenti, i sintomi e le premonizioni, secondo un criterio di progressiva ricostruzione postuma del fatto medesimo.

 

 



[1] Ancorché, a dirla tutta, non si tratti in questo caso neppure di un vero e proprio flash-back, dato che il racconto interno non è affatto sostenuto da un personaggio-narratore e dunque rimemoratore, ma proprio e soltanto di una analessi a pretesto qualsiasi, il taccuino e ciò che sopra sta scritto: una retrocessione cronologica nel senso piú generale del termine.

[2] Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, ed. it. Einaudi, Torino 1976 (ed. fr. 1972).

[3] Tempo della storia: il susseguirsi cronologico (diacronico) delle vicende narrate, che dalla finzione narrativa vengono proposte come realmente accadute. Tempo del racconto: il susseguirsi dei significanti o elementi di testo nel corso della narrazione realizzata con mezzi espressivi diacronici, come il linguaggio verbale e quello cinematografico. Per i problemi di ordine del racconto cfr. Genette, Figure III cit. pp. 81-134.

[4] Da Barthes in poi la retorica è concepibile come luogo (e studio) delle eccezioni all’uso “normale” del linguaggio, ossia delle trasgressioni (intenzionalmente operate per lo piú a fini estetici) di norme stabilite dai codici linguistici. Cfr. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura. Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino 1982 (ed. fr. 1953), e poi Gruppo µ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1980.

 

 

 
 

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