Scrive
Adorno che «la maturità delle opere tarde di importanti artisti non somiglia
alla maturazione dei frutti». Le opere, infatti, «non sono tonde, ma corrugate,
addirittura dilaniate» perché l’artista impone al suo
fare creativo una cesura, vi produce una discontinuità come se le soluzioni
formali adottate fino a quel momento e i temi fino ad allora ricorrenti
apparissero, all’improvviso, vani, logori, ormai estranei alla sua sensibilità.
Dalla constatazione del rapido e definitivo esaurimento di uno stile nasce
dunque nell’artista l’urgenza di consentire alla propria ispirazione la libertà
di esercitarsi al di fuori di convenzioni dettate non solo dal canone ma, anche
e soprattutto, dalle sue stesse scelte precedenti. Da qui l’effetto straniante
delle opere tarde segnate da una «dissonanza» che stride e insieme si fa beffe
delle aspettative del pubblico, disorientandolo. Nessuna conciliazione è allora
possibile, così come nessuna compiutezza che riassorba in sé, giustificandolo,
il dolore del mondo.
L’opera
tarda pertanto retroagisce sulle opere precedenti – divenute, ormai,
irrimediabilmente obsolete – evidenziando, in tal modo, la provvisorietà
insopportabile di esiti sino a quel momento ritenuti felicemente compiuti:
lascia, infatti, dietro di sé le «macerie delle opere» per affermare e
comunicare se stessa «come in modo cifrato, soltanto attraverso i vuoti dai
quali prorompe». Allora
«toccata dalla morte, la mano del maestro libera le masse di materia cui prima
dava forma; le fessure e crepe ivi presenti, testimonianza dell’impotenza
finita dell’io di fronte all’esistente, sono la sua ultima opera». La prossimità della morte diventa pertanto la condizione per un rinnovamento creativo,
l’occasione per forzare i limiti che l’artista stesso si è imposto e così
disfare le soluzioni rassicuranti di chi ha scelto di essere imitatore di sé.
Tuttavia
non sempre la dissonanza assume una forma «aspra» e «pungente» o si esprime
drammaticamente come, ad esempio, in Beethoven. Essa, invece, può manifestarsi
più compostamente – malinconicamente quasi – senza però rinunciare
alla sua radicalità, come avviene per The Dead, l’ultimo film di John Huston,
girato nel 1987, anno della morte del regista. Film che segna uno stacco
rispetto ai suoi precedenti lavori sia per la scelta del tema sia per la
risoluzione formale, The Dead è difficilmente inscrivibile entro un genere definito. Tratto dall’omonimo racconto di
James Joyce raccolto in The Dubliners, il film è una struggente e
dolente meditazione sulla caducità, sulla fine di tutte le cose, quale
ineliminabile orizzonte non solo della condizione umana, ma di tutto il
vivente. Uomini e cose – l’universo intero – sono macinati dal
potere corrosivo del tempo, dalla sua irreversibilità che li destina alla
morte, irredimibile e priva di riscatto nel mondo senza dio del racconto e del
film.