CINECOSMI
BLAISE CENDRARS
OCCHI INTINTI NELLA VITA
Jonny Costantino
Per
fortuna ci vedo molto bene: ho gli occhi al loro posto.
Blaise Cendrars, L’Homme foudroyé (1945)
Adorando
la vita, e la verità della vita,
egli è andato più in là di qualsiasi altro scrittore dei
nostri tempi
nel suo tentativo di cogliere l’origine comune della
parola e dell’azione.
Henry
Miller, I libri della mia vita (1952)
Londra, 1909, una scalcinata
stanzetta è condivisa da due uomini che lavorano nello stesso music hall. Uno
fa il clown e ogni sera prende calci in culo. L’altro
il giocoliere, e una delle mani con cui si guadagna il pane la lascia a breve
in guerra, la Prima Mondiale, volontario della Legione Straniera. Due morti di
fame come milioni di altri. Due perfetti signor nessuno. Uno è Charlie Chaplin. L’altro Blaise Cendrars.
Hollywood, 1936. Cendrars è inviato di “Paris-soir”
presso la Mecca del cinema. Arriva in prossimità della prima di Tempi moderni e riparte l’indomani.
Colmo di ammirazione, dieci anni prima Cendrars aveva
scritto un articolo dal titolo Naissance de Charlot.
Charlot però non lo riceve, non ha tempo per lui. Troppi crucci in quei giorni,
un diavolo per capello. La sua carriera si trova a un punto chiave. Sono
passati cinque anni dal suo film precedente, Luci della città, e ora Chaplin sfida l’establishment con una feroce
satira anti-stakanovista. L’ansia pregiudica la réunion tra coloro
che furono gli scalcagnati colleghi di un tempo. Eccessivamente nervoso,
si dice Charlot, che dichiara alla radio di aver vissuto «a
disagio come sulla sedia elettrica» la premiere di Tempi moderni (per inciso: negli Stati Uniti sarà un fiasco
clamoroso). Sull’altro versante, due settimane a Hollywood sono abbastanza per Cendrars, che se la svigna senza nemmeno attendere
l’imminente uscita del film tratto dal suo romanzo L’oro (1925), ovvero Sutter’s Gold di James Cruze, flop disastroso che
cappotta la Universal e distrugge il suo padrone, Carl Leammle.
Prima di continuare, proviamo a
capire di chi stiamo parlando. Giusto un assaggio. Mercante giocoliere
trattorista bracciante. Apicultore, ammaestratore di cani e cavalli. Lurido
legionario e mutilato di guerra. Straccione. Amico di gangsters e gitani. Fratello di sangue dei migliori e dei peggiori. Libertino e
puttaniere. Topo di biblioteca, ma ti accoltellerebbe con la sinistra se osassi
dirglielo in faccia. Filosofo da bettola, studioso di
occultismo e stregoneria. Viaggiatore, giramondo (borlingueur), e la sua faccia da
schiaffi, schizzata da Modigliani, avrebbe finito per girare il mondo su un
francobollo da due franchi, ventisei anni dopo la sua morte (1961). Ma soprattutto scrittore, poeta. «L’Omero della
Transiberiana», lo definì Dos Passos, mentre Cocteau guardava alla sua Prosa della Transiberiana come al «vero Treno ubriaco dopo il Battello ebbro» di Rimbaud. Artista
della vita. La vita pericolosa (La Vie dangereuse s’intitola un suo libro). Il paroliere che
del vivere pericolosamente ci ha restituito lo scatto e l’ebbrezza, il lampo e
la folgore individuali, ma anche il porcheroso rovescio, l’asservimento sanguinario dell’avventura a tetri fini statali, a
profitto di una casta di avidi minorati, ovverossia: la guerra (e ci sono pochi
libri sulla Guerra grandi come La mano
mozza, quasi che per scrivere della guerra si debba perdervi una mano e
scrivere mancini, nella lingua del nemico) (Louis-Ferdinand Céline,
altro gigante errabondo della scrittura, altro scrittore della guerra mondiale,
sia la Prima che la Seconda, e perennemente in guerra,
anch’egli dalla Grande Guerra è stato reso invalido, invalido al 75%, col
braccio destro menomato a vita). Agli occhi di Henry Miller, suo devoto, Cendrars è: una massa poetica scintillante dedicata
all’arcipelago dell’ignoto; «un uomo d’azione, un avventuriero, un esploratore,
un uomo che ha appreso come “sprecare” regalmente il suo tempo»; il colosso
letterario del secolo; «il Giulio Cesare della
letteratura»; il più solitario e il più libero di tutti gli uomini.
[…]
L’ABC DEL CINEMA
Blaise Cendrars
Il Cinema. Mulinello
di movimenti nello spazio. Tutto precipita. Il sole precipita. Noi precipitiamo
con lui. Come un camaleonte lo spirito umano si
mimetizza, mimetizzando l’universo. Il mondo. Il globo. I due emisferi. Le monadi di Leibniz e la
rappresentazione di Schopenhauer. La mia volontà. Le ipotesi cardinali
della scienza convergono in un punto e le quattro ordinatrici si ammassano.
Fusione. Tutto si apre, sprofonda, oggi si fonda, si fora, si erge, si
dispiega. L’onore e il denaro. Tutto cambia. Il cambio. Gli usi e l’economia
politica. Civiltà nuova. Umanità nuova. Le cifre hanno creato un organismo
matematico, astratto, apparecchi adatti ai più grossolani bisogni dei sensi e
che sono la più bella proiezione del cervello. Automatismo. Psichismo. Nuove
comodità. Macchine. Ed è la macchina che ricrea e sposta il senso
dell’orientamento, e che scopre infine le sorgenti della sensibilità come gli
esploratori Livingstone, Burton, Speke, Grant, Baker,
Stanley, che hanno fissato le sorgenti del Nilo. Ma è
una scoperta anonima a cui non si può attribuire un
nome. Che lezione! E che c’importano i divi e le star! Cento mondi, mille
movimenti, un milione di drammi entrano simultaneamente nel campo visivo dell’occhio di cui il cinema ha dotato l’uomo.
E questo occhio è più meraviglioso, benché arbitrario,
dell’occhio composto della mosca. Il cervello n’è scombussolato. Una baraonda
d’immagini. L’unità tragica si sposta. Apprendiamo. Beviamo. Ubriacatura. Il
reale non ha più alcun senso. Alcun significato. Tutto è ritmo, parola, vita.
(Traduzione di Federica Cremaschi)
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