VISIONI
MON ONCLE
TATI IN BICICLETTA
Sylvère Lotringer
Jacques Tati è stato uno tra i
pochi cineasti che documentò il cambiamento così come stava avvenendo. Il suo
terzo film, Mon Oncle (Mio zio, 1958) fu accolto nell’immediato
come una satira sulla classe sociale dei nuovi
ricchi, esaltati dai prodotti di consumo, ma c’era qualcosa di più profondo
in gioco. Il film offre una sobria diagnosi dell’ultra-dipendenza dalla
tecnologia e dagli inutili oggetti della vita quotidiana nella società
francese. Eloquente è il contrasto con il primo film di Tati, Jour de fête (Giorno di festa, 1949), che, girato
alcuni anni dopo la Liberazione, era un film sull’ingenuità francese: il
portalettere, spinto dalla gente della piccola cittadina, tenta di consegnare
la posta alla maniera americana. Si fa trainare con la sua bicicletta da un
camion di passaggio e utilizza la parte posteriore del camion come un ufficio
postale mobile. Jour de fête è stato un film inventivo, Mon Oncle è pieno d’invenzioni –
nessuna delle quali è funzionale. Villa Arpel, la
dimora dei nuovi ricchi, è piena d’inutili gadget e apparecchi pretenziosi: i
diversi stati degli zampilli dell’artistica fontana a pesce devono essere
attivati manualmente e l’immacolata cucina non ha più la sua funzione culinaria;
somiglia a un laboratorio, e romba come un motore jet quando Monsieur Hulot preme il bottone. Gli
oggetti sono lì solo per ostentazione. La tecnologia utilizzata per costruire
la detestabile Villa Arpel – dai pannelli
prefabbricati, alle linee geometriche, al montaggio – non è poi tanto
diversa da quella dei grands ensembles [grandi organismi edilizi a destinazione prevalentemente
abitativa, n.d.t.] che vengono edificati in quegli anni. Così è tutta la
progettazione architettonica del dopoguerra, e non solo quella di un manipolo
di zombi squilibrati. Ed è Tati stesso a dire: «Le
linee geometriche non rendono felici le persone».
(Traduzione di Caterina Zarelli)
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