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POETICHE

 

UN’ASSENZA CONCRETA:

IL REALISMO ACCECANTE DEI FRATELLI DARDENNE

 

Andrea Angelini

 

Quello che oggi la televisione chiama reality show prova di nuovo che la vocazione del cinema è di squarciare questa realtà. Da questo squarcio appare il vuoto. Accesso a ciò che non esiste. Umana, vera, bella evasione! Uscire da ciò che è, da ciò che è solo di troppo. Il cinema si rivolge a ciò che non esiste più, al vuoto, al niente, all’Altro che non c’è mai. Senza di lui, mangeremmo la carne dei nostri troppo simili, berremmo il loro sangue. Saremmo sazi del cuore della nostra realtà. Dio è morto. Il posto è vuoto. E soprattutto non va occupato.

Luc Dardenne

 

 

Lontano dalle menzogne e sciocchezze dei burattin(a)i, ricompare nel cinema la drammaticità del capitalismo. Sappiamo da molto tempo che la “crisi”, con tutte le sue ansie e sofferenze, non è una sciagura occasionale, ma ciò di cui la nostra società si nutre e che indefessamente produce; il suo stesso modo d’essere e attraverso il quale continua a trascinarsi nell’esistenza. Ma sparito ogni spettro che possa turbare questo ordine materiale, sempre più saldo e stratificato nel suo monopolio simbolico, esso pare esser vissuto come un destino di cui compiacersi senza troppe infantili pretese; unica dimensione dell’esistenza, è tutto qui, non c’è altro, nessun altrove verso cui tendere che non sia cattiva ripetizione e falsa novità. Si cela ancora e ottusamente di aver perso le redini (o di non averle mai tenute se non in sogno) di questo enorme e non da oggi globale Leviatano economico-tecnico; laddove non vi fosse immediata costrizione, si finge e si accetta di procedere in questa gabbia d’acciaio con piena convinzione, o ancor “più sereni e più scientifici”.

Forse è allora necessario il soccorso di uno sguardo ulteriore, che ci dia la distanza per respirare ciò che vediamo, per soffermarci a pensare e abitare ciò che la routine ci obbliga a frequentare distrattamente. Forse questo sguardo può essere rappresentato anche dal cinema, e probabilmente i Dardenne ne sono la dimostrazione.

 

C’è qualcosa di opprimente nell’esistenza. Da qui il bisogno incontenibile di un’apertura, di un fuori. Una richiesta di aria lanciata da tutti i nostri sguardi, tutte le nostre parole, tutti i nostri volti, tutti i nostri corpi oppressi. Bisogno estremo di ciò che non esiste. La nostra epoca ha gravi problemi di respirazione. (Luc Dardenne)

 

Il cinema dei Dardenne può esser visto come un tentativo di ricondurre l’immagine nella materia del quotidiano, nella carne affamata di corpi allo sbando, marginalizzati da questa società del capitalismo “maturo”, senza prospettive, senza alternative. Dietro la maschera pubblicitaria e dietro l’entertainment televisivo, ecco le immagini incarnarsi nell’eroismo sfiancato delle vite comuni, nei luoghi e negli occhi manifestamente percorsi da una vita offesa.

Nessuno spettacolo da pop-corn, nessuna concessione a un’osservazione rilassata o estranea, nessun uso strumentale delle immagini: lo spettatore è letteralmente preso e gettato al centro di questi rapporti difficili, di queste storie angoscianti, di questi vissuti bruti e brutalizzati, di questi affanni e ricerche senza appigli.

 

Immagini della complessità concreta contro le immagini-stereotipo che affollano il paradigma “immunitario-securitario” delle nostre società: l’immigrato e lo sfruttatore d’ immigrati (La Promesse); la zingara (Rosetta); il ladro (L’Enfant); il tossico (Le Silence de Lorna); il delinquente (Le Fils e Le Gamin au vélo); tutte figure riportate nella loro concreta fragilità e non-individualità, elementi di un insieme grottesco che li travalica; perciò al tempo stesso riportati nella loro concretezza e proiettati su uno sfondo nel quale perdono i loro contorni. Tutti falsi demoni che ci proteggono dallo sforzo di una visione d’insieme, e che chiaramente proteggono tanti, troppi, dal dover fare i conti con le proprie responsabilità e con i propri feroci, anche se velati o legali, soprusi.

Ma non c’è alcuna caccia ai colpevoli, lo sforzo di comprensione che viene tentato è di tutt’altra natura e verte piuttosto su un Male assoluto e impenetrabile, nel senso di qualcosa di così disperso, diffuso e assorbito collettivamente da non poter essere risolto in termini di individuali e troppo umane colpe.

 

Inutile cercare di captare il male più da vicino e più strettamente possibile, al centro. Appare là, così, senza un perché, all’angolo di un’ inquadratura troppo prolungata, in campo troppo lungo, che non ci ha visto giusto. È in questo sguardo troppo allungato che sopraggiunge l’umano disumano e che possiamo farci un’idea della sua realtà. Quando abbiamo filmato la sepoltura del corpo di Hamidou sotto i calcinacci in campo relativamente lungo, “mal illuminato”, inquadrando uno spazio cosparso di ostacoli che riducevano la visibilità, volevamo comunicare questa realtà del male. Forse ci sono altri modi ma tutti, mi sembra, devono cercare di evitare di assumere un punto di vista che presuma di poter dare una visione chiara del male, della sua espressione. Il male è inimmaginabile, non appare come immagine. (Luc Dardenne)

 

[…]

 

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